Prog nel Salvadanaio: i 50 anni di ‘Banco del Mutuo Soccorso’ | Rolling Stone Italia
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Prog nel Salvadanaio: i 50 anni di ‘Banco del Mutuo Soccorso’

I pezzi scritti all'università, le band inglesi e la classica, i testi che si lasciano alle spalle il flower power, la copertina, il successo e le pernacchie alla RCA. In una parola: passione. I ricordi di Vittorio Nocenzi

Prog nel Salvadanaio: i 50 anni di ‘Banco del Mutuo Soccorso’

Il Banco del Mutuo Soccorso negli anni '70

Foto: Mondadori via Getty Images

Vittorio Nocenzi è una forza della natura. Mentre lo intervisto si infervora e si indigna, ride di gusto, canta spesso per spiegarmi nel dettaglio le particolarità delle sue composizioni e si commuove quando racconta di chi non c’è più. Il telefono sembra quasi esplodere dalla passione che sento provenire da un uomo che ha dato la vita per la sua musica, una musica che tocca il cuore e la mente, che non lascia mai indifferenti ma anzi funge da stimolo per ampliare la propria evoluzione esistenziale.

Nocenzi ha costruito le fondamenta del prog italiano e ha traghettato il Banco del Mutuo Soccorso attraverso una storia lunga cinquant’anni. La proposta del Banco si è connotata da subito per la spiccata originalità: pesca dalla classica, dalla lirica, dal melodramma, dal jazz e irrobustisce il tutto col vigore del rock, creando una sintesi unica che rimane profondamente italiana, mediterranea. Ma nominare il Banco non vuole dire pensare solo alle ricche partiture composte da Nocenzi e dai suoi compagni. La band porta infatti avanti da sempre un messaggio forte con il tramite dei testi, i più centrati del prog italico, veri poemi che analizzano l’uomo nelle sue virtù e debolezze, tesi sempre a cercare un significato in un mondo di ingiustizie e soprusi.

Negli anni il Banco ha subìto diverse trasformazioni, le più importanti e dolorose sono state la scomparsa di due pilastri come il cantante Francesco di Giacomo e il chitarrista Rodolfo Maltese. In tutto ciò Vittorio non si è dato per vinto, forte dell’idea che non puoi fermare, quella di un’esperienza in costante crescita nonostante le avversità, ha continuato a portare in scena la musica del gruppo.

Adesso lo storico primo album della formazione dei Castelli Romani compie mezzo secolo: è un disco che porta lo stesso nome della band ma che tutti conoscono come il Salvadanaio, per via della sua sagoma. Prima di dare alle stampe il nuovo lavoro, un concept sull’Orlando Furioso previsto per settembre, Vittorio Nocenzi e la versione attuale e rinnovata del Banco hanno deciso di festeggiare il Salvadanaio e portarlo in tour lungo i mesi estivi. È l’occasione per farsi raccontare dettagli e segreti di un’opera celebrata in tutto il mondo, indicato da più parti come uno dei punti di massimo fulgore dell’arte musicale italiana.

Il Salvadanaio compie 50 anni, siete pronti per celebrarlo degnamente?
Sì, stiamo per partire con una serie di concerti (al momento le date confermate sono Roma il 29 maggio, Verona il 12 giugno e Bordighera il 5 agosto, nda) nei quali riproporremo integralmente l’album. A parte nel momento della sua uscita è la prima volta che facciamo una cosa del genere. Sarà bello eseguire per intero Il giardino del mago.

Oppure Passaggio, dal vivo l’ho sentita raramente…
Quella ogni tanto la accenno al pianoforte (inizia a cantarla, nda), legata magari ad altri temi.

In volo
In volo avrà un posto d’onore in tutto questo e farà da ponte al nuovo album che pubblicheremo a settembre: un concept ispirato all’Orlando Furioso, con l’ippogrifo e Astolfo che aprirono la nostra storia, appunto in In volo. Nel recitato di quel brano c’è già bella definita la missione del Banco, è un po’ il manifesto concettuale del nostro lavoro.

Il Banco del Mutuo Soccorso, oggi

Cosa puoi dirmi del retroterra culturale che ha condotto alla nascita del Salvadanaio?
Erano anni nei quali la musica andava al di là del suo contenuto artistico, era portatrice di valori esistenziali e sociali, di ideali molto sentiti, molto forti. Il movimento giovanile prendeva proprio dalla musica diversi punti di riferimento facendone la declinazione della propria scala dei valori. Quello che cantavi diventava un precetto di vita. In un contesto del genere i testi non potevano più parlare di cuore-amore, dovevano spingere ad andare oltre i i cliché, i luoghi comuni, il perbenismo, l’ipocrisia, l’essere conservatori e borghesi. Da tutto questo sono nate le musiche del Salvadanaio, le musiche e i testi, che da allora per me sono diventati importantissimi perché aggiungono visioni ulteriori a quelle già evocate dalle note, è sempre un doppio racconto, quello musicale e quello delle parole, strettamente interconnesso.

Poi se l’album è concept questa cosa diventa anche più manifesta
L’album concept ti consente di scrivere musica per un una narrazione ampia che viene arricchita grazie all’uso di metafore, di immagini nelle immagini, di giochi di rimandi che sono la vera forza dei lavori di quell’epoca.

Credo che il Banco abbia avuto un’attenzione ai testi che forse è mancata in altre band prog, i vostri svettano per bellezza e poesia.
Mi fa piacere tu dica questa cosa. Un luogo comune di allora diceva che i gruppi dovevano pensare a fare musica mentre i cantautori erano quelli che potevano scrivere testi “alti”, poi se accompagnati da una chitarra e due accordi non importava. Ma che cazzo, allora scrivi dei libri! Se canti parole poetiche devi avere sotto anche un costrutto musicale adeguato. Noi abbiamo messo sempre sullo stesso piano la parte testuale e quella musicale, non era concepibile che io scrivessi un bel pezzo con un testo banale.

Immagino la tua soddisfazione per l’incontro con Francesco, nell’accorgerti di quanto eravate in sintonia
Sì, per me scoprire nel cantante solista il poeta adeguato per la mia musica è stata una fonte di grande felicità.

Prima della formazione storica del Banco ce n’è stata un’altra che ha fruttato un album postumo (Donna Plautilla, registrato nel 1969 ma pubblicato nel 1989) di musica tra il beat e il proto-prog…
Esatto, da giovanissimo suonavo con Gabriella Ferri, avevo scritto dei brani per lei e suo padre Vittorio era l’autore dei testi. Gli avevo fatto sentire anche altre idee musicali che a lui piacquero molto e mi propose di presentarle alla RCA. Andai a fare il provino e i dirigenti mi chiesero se avevo una band. Io non avevo niente ma risposi «Certamente!», pur di registrare le mie canzoni avrei detto sì anche al demonio. Così in pochi giorni misi su una formazione con mio fratello Gianni e altri musicisti. Una settimana di prove e andammo a registrare una serie di brani che risentono del beat che c’era nell’aria in quel momento, ma nei quali ci sono già i prodromi di quello che sarebbe diventato il prog.

Il disco però non venne pubblicato
No, purtroppo la politica della RCA era quella di mettere tanta carne al fuoco, poi chissenefrega se qualcuno si bruciava. Vedevo passare i giorni, le settimane e i mesi senza che l’album uscisse e nel frattempo rimanevo parcheggiato presso il bar della casa discografica, insieme a tanti altri artisti in attesa del lancio, tipo Renato Zero, che si presentava come un marziano, secco secco e vestito con una tunica rosa. In quei giorni capii che questa cosa non faceva per me, non potevo starmene semplicemente ad aspettare il mio turno, avevo l’urgenza di fare circolare la mia musica. Così andai dai responsabili e chiesi loro di essere liberato dal contratto, una cosa suicida, visto che non avevo altre alternative. Stavo dicendo alla casa discografica più importante d’Italia: «Lasciatemi libero, me ne vado!».

E poi cosa successe?
Due mesi dopo, fortunatamente, il Banco già nella sua formazione storica si recò a Bollate per partecipare a uno dei primissimi raduni rock dell’epoca. Ci fecero suonare in due giorni diversi, il primo al pomeriggio, alle 15, davanti a 20 persone. Poi, visto che protestammo, il giorno dopo alle 4 del mattino, con cinque persone. Se però in una cosa c’è il contenuto alla fine ciò che deve succedere succede. In quel frangente conoscemmo infatti il produttore Sandro Colombini che ci vide e rimase colpito: un gruppo con due tastieristi in Italia non si era mai visto, per non parlare di una voce e un’immagine come quella di Francesco. Finì che Colombini ci portò alla Ricordi, presso la quale ci accasammo.

L’album ‘Banco del Mutuo Soccorso’ uscì il 3 maggio 1972

Tu hai assistito alla nascita del progressive rock, ne sei stato uno dei fautori. Secondo te cosa ha condotto a questo tipo di sintesi musicale?
Ti rispondo anzitutto dicendoti che in Italia c’era una brutta tendenza nella critica: prima di sapere se avevi scritto musica valida o meno facevano di tutto per capire a chi somigliassi. Come se un gruppo italiano non potesse avere una sua precisa personalità. Nel nostro caso la musica la scrivevo quasi tutta io che però ero un profondo ignorante a livello discografico. Ero un ragazzo dei Castelli Romani, di Marino, a 20 chilometri da Roma che allora significava un abisso. In provincia non girava la musica, le radio non trasmettevano canzoni inglesi e io non conoscevo nulla. Come avrei fatto quindi a copiare? In realtà c’era una cosa che scoprii più avanti, ovvero che i tastieristi nelle band, italiane o straniere, avevano studiato tutti le stesse cose: Bach, Brahms, Schubert… Avendo tutti questi modelli è chiaro che poi portammo, ognuno nella propria band, una contaminazione analoga tra rock e musica classica. Così è nato il progressive rock, e noi non suonavamo in maniera simile ai Gentle Giant perché volevamo imitarli, ma semplicemente perché avevamo studiato gli stessi classici. Poi c’è da ricordare che il nostro prog aveva una componente di calore mediterraneo del tutto sconosciuta agli inglesi. Quando suonammo in Inghilterra all’inizio il pubblico era disorientato dalle nostre linee melodiche, dai chiaroscuri, da certi passaggi armonici, tutte cose distanti dalla loro cultura che però piano piano li catturavano fino a farli esplodere in ovazioni incredibili.

Prima di registrare arrivasti con già tutto il materiale pronto e lo presentasti alla band?
In realtà cercavo di fare una via di mezzo: alle prove portavo dei temi e delle idee compositive già abbastanza strutturate ma non del tutto, desideravo che ogni musicista ci mettesse del suo a livello creativo, non volevo si limitassero a eseguire partiture già scritte. Una volta buttati giù i temi principali e deciso con Francesco l’argomento dei testi che avremmo scritto insieme, davo il materiale in pasto alla band e si lavorava agli arrangiamenti. Diciamo che portavo gli ingredienti e poi si cucinava insieme.

In quale studio registraste il Salvadanaio?
In Via dei Cinquecento a Milano, negli studi storici della Ricordi, ricavati da un cinema parrocchiale, con il parquet di legno, le sedie, sempre di legno, scomodissime e la cabina di proiezione che veniva usata come regia, con il mixer e un registratore a otto piste. Il cinema era attivo nei fine settimana e quando c’erano le proiezioni i macchinari venivano coperti. Registravamo in diretta basso, batteria e una tastiera guida. Poi sovraincidevamo le voci, le chitarre e le tastiere definitive. Nella platea, in mezzo alle sedie, venivano sistemati gli strumenti, anche la spinetta che ho usato in Passaggio. Nel disco si sentono i miei passi sul parquet, io arrivo, suono il brano e vado via.

Quel brano è abbastanza atipico, è più un abbozzo, piuttosto che un qualcosa di compiuto
Volevo mettere su disco il momento magico, meraviglioso, in cui per la prima volta ti viene in mente l’idea di una melodia, di un pezzo, e tu sei felice perché pensi che, potenzialmente, potrebbe essere il pezzo più bello che potrai mai scrivere. È un po’ Il sabato del villaggio della composizione, l’euforia che precede il momento della festa. Mi sembrava bello catturare quell’attimo fuggente.

Ne Il giardino del mago avete usato un quartetto d’archi?
Sì, anche se poi non è stato citato nei crediti, così come un chitarrista classico in alcuni punti. In generale ci interessava sperimentare, mettemmo un wah-wah al clarinetto, per dire, o un pianoforte verticale del quale eravamo riusciti a modificare il suono tramite la sordina, oppure il mio organo Vox Continental che in qualche punto della suite registrammo a metà della velocità per poi velocizzarlo tramite il nastro.

Com’è nata la suite?
Il titolo mi fu ispirato da un brano dei Vanilla Fudge: Season of the Witch, la stagione della strega diventò Il giardino del mago. Io avevo appena iniziato l’università e avevo un quaderno con in copertina un quadro di Toulouse-Lautrec sul quale scrivevo i miei versi. Lì buttai giù le prime parole del brano che poi andarono a fondersi con un tema musicale (mi canta le note iniziali della suite, nda) dal carattere angosciante, uscito fuori da una lunga notte di ansia.

Racconta…
Ero iscritto a storia e filosofia e avevo appena passato un esame di sociologia con un bel 30 e lode. Soddisfatto me ne andai a casa e da lì a poco venni a sapere che in realtà nel primo anno sarebbero stati due gli esami da dare, pena il non potere ottenere la borsa di studio, che per me era essenziale. E il nuovo esame si sarebbe dovuto svolgere da lì a 24 ore. Quindi tornai di corsa all’università, mi fiondai all’ultimo piano cercando la lista dei libri da studiare per il nuovo esame, il cui costo si aggirava intorno alle 300 mila lire. Proprio la cifra della borsa di studio. Così pensai una cosa: andai in libreria, sfogliai i volumi e mi scrissi su dei fogli i titoli dei capitoli. Una volta a casa, grazie a un’enciclopedia cercai quegli argomenti e passai il resto della notte a memorizzarli per l’esame del giorno dopo. Intorno alle tre-quattro del mattino mi misi al pianoforte e uscì fuori quel tema, che racchiudeva tutta l’ansia di quel momento.

Il giardino del mago si compone di quattro movimenti, erano idee separate che poi avete unito?
No, il brano è nato già in tutta la sua interezza, solo che decidemmo di dividerlo idealmente in quattro parti, come si faceva nella musica ottocentesca. Questo anche per far sì che l’ascoltatore potesse entrare meglio in quei 20 minuti, sapendo che erano composti di quattro stanze, momenti diversi che però andavano a formare un tutt’uno.

Se dovessi spiegare di cosa parla Il giardino del mago cosa diresti?
Direi che parla del malessere della vita, del disagio del vivere. Si presterebbe perfettamente a ciò che stiamo vivendo oggi: pandemie, guerre, massacri barbari e sanguinari… La vita è fragile mentre il pensiero tende a volare alto, ciò crea un disagio, questo è Il giardino del mago. Però è anche la speranza, il sogno, la solidarietà, la generosità… Tutto questo coacervo di virtù e difetti del genere umano è raccontato in questa suite. L’ho scritta quando avevo 20 anni e ci ho messo dentro tutto me stesso, la mia vita e i miei ideali. Quando alla fine delle registrazioni e del missaggio l’ho ascoltata per intero ho pensato: «Ecco… adesso posso anche morire».

Il brano più celebre del Salvadanaio è R.I.P., che non è mai mancato nei vostri concerti
R.I.P. è il nostro manifesto antimilitarista, contro tutte le guerre. Non c’è cosa più disumana della guerra, in questi giorni stiamo toccando con mano l’amara attualità, ma all’epoca c’erano il Vietnam e altri orrori. Era un argomento sul quale eravamo tutti d’accordo, fu una delle prime cose che sentimmo il bisogno di cantare. Poi R.I.P. è stato il primo brano che feci sentire a Francesco, quando ci incontrammo a Marino, nella cantina di mio nonno materno, dove facevamo le prove. Lui interpretò la seconda parte lasciando tutti a bocca aperta, lì capii che cantante e interprete straordinario egli fosse.

Poi c’è Metamorfosi
Metamorfosi è stata ispirata da Bach. Quando lo studiavo mi prudevano sempre le dita, mi veniva voglia di elaborare delle cose che traessero ispirazione dalle sue immortali composizioni. Così mi venne in mente l’arpeggio del pianoforte di questo brano che più si concretizzava più mi dava coraggio, orgoglio. Sentivo in pieno l’ebbrezza e la libertà di riuscire a concepire qualcosa che andasse al di là delle canzonette.

Poi c’è la commovente parte di voce sul finale
Quello è un momento breve ma molto intenso nel quale Francesco canta tutto il rifiuto dell’umanità, tutto il non volersi mettere alla pari con la bassezza dell’essere umano quando è ipocrita, invidioso, materialista, quando è grossolanamente kitsch. Per dire queste cose abbiamo utilizzato una delle più belle melodie che io abbia scritto (la canta, nda). Senti la linea melodica quanto è mediterranea? Non c’entra niente con la musica inglese!

Tu e Francesco avevate una visione piuttosto pessimistica, nulla che avesse a che fare col peace & love hippy dell’epoca.
Noi scrivevamo queste cose nel ’71, quando le utopie del flower power erano già tramontate, da lì a poco ci sarà l’assassinio di Pinochet e il colpo di stato in Cile, i desaparecidos in Argentina, i colonnelli fascisti in Grecia, la stagione del piombo in Italia e così via… Stavano arrivando tempi duri e nell’aria si sentiva questo malessere che cresceva, soprattutto lo sentiva il movimento giovanile, di cui noi facevamo parte. Era quindi inevitabile che tutto questo finisse in ciò che suonavamo e cantavamo.

Non tutto è oscuro però, l’album si conclude con Traccia, che comunica un senso di rinnovata gioia
Lo sento come un’inno all’italianità, alla mediterraneità, perché in tutta la sua forza prog-neoclassica in realtà è una tarantella (la canta, nda), è un’esplosione di energia, di vitalità mediterranea. Alla fine non rinuncia però a ringraziare Bach e Beethoven. Prima della conclusione l’organo esegue infatti un estratto dal Preludio no. 2 in Do minore, dal Clavicembalo ben temperato (canta la melodia, nda), al quale risponde il pianoforte (la canta, anzi, la solfeggia, nda) citando la cadenza finale della Patetica.

Ti saresti aspettato che il disco arrivasse primo in classifica?
Non me lo aspettavo assolutamente, ma nemmeno ci puntavo o ci pensavo. Ero un ragazzo di 20 anni, e anche gli altri avevano tutti tra i 18 e i 23, 24… Eravamo poco più che adolescenti e non facevamo troppi calcoli. Quando sei nel delirio della musica e sei così giovane il fatto di registrare un tuo album con una casa discografica importante è già un successo. Poi chissenefrega se va in classifica, la musica in sé è più importante, ti appaga molto di più il fatto di averla creata e registrata che tutto il resto. Detto ciò il successo fu una bella rivincita nei confronti della RCA. Ogni volta che infatti passavo sullo svincolo della Tiburtina, dove c’erano gli uffici della casa discografica, mi affacciavo dalla macchina e partiva un bel pernacchione (ride di gusto, nda).

Di chi fu l’idea della copertina a Salvadanaio?
Del direttore generale della Ricordi, Lucio Salvini, e di Sandro Colombini che volevano una cosa che attirasse subito l’attenzione nei negozi di dischi. All’interno trovò posto un disegno del grafico Mimmo Mellino. Il salvadanaio invece fu fotografato col fish-eye da Cesare Monti e aggiunsero anche una linguetta con le nostre sei foto, sempre di Cesare.

Nel 2013 il vostro secondo album, Darwin!, è stato remixato e rimasterizzato, cosa che ha portato a un evidente miglioramento del suono. Hai mai pensato di fare la stessa cosa col Salvadanaio? Esistono ancora i nastri multitraccia?
Esistono, ma andrebbe fatto un lavoro di restauro per passarli in digitale. Sarebbe una cosa lunga e faticosa e sinceramente a 70 anni il tempo che mi resta da vivere preferisco utilizzarlo per creare nuovi progetti, piuttosto che continuare a celebrare quello che ho già fatto. Fare i musicisti è faticoso, ragazzi, e questa fatica è meglio spenderla per la musica del futuro, non solo per quella del passato.