«Potevo morire»: la lotta per la sopravvivenza di Dave Alvin dei Blasters | Rolling Stone Italia
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«Potevo morire»: la lotta per la sopravvivenza di Dave Alvin dei Blasters

L’antieroe del roots rock racconta la malattia che l’ha tenuto lontano delle scene. «Un tumore al quarto stadio aveva già preso il fegato. Ho pensato: questa potrebbe essere la mia ultima session»

«Potevo morire»: la lotta per la sopravvivenza di Dave Alvin dei Blasters

Dave Alvin al concerto tributo del 2020 ai Lovin' Spoonful

Foto: Scott Dudelson/Getty Images

Ha capito che qualcosa non andava alla fine del 2019. Dave Alvin aveva passato quasi tutto l’anno on the road e per la prima volta in vita sua non riusciva a reggere il passo di un tour. «Ho cominciato a pensare che non ce l’avrei fatta», racconta. A gennaio 2020 è stato ricoverato in ospedale per una setticemia. Tempo un mese ed era nuovamente su un palco al benefit show del 29 febbraio per i Lovin’ Spoonful. Eppure continuava a non sentirsi a posto.

Due mesi dopo gli è stato diagnosticato un cancro alla prostata. «E in quel momento», racconta oggi, «sono iniziati gli ultimi due anni della mia vita», ovvero un lungo periodo di malattia e ricoveri. Ad Alvin è stato diagnosticato il cancro tre volte e ha passato mesi facendo chemio e radioterapia. Ha sofferto di neuropatia, un effetto collaterale della chemioterapia che gli ha impedito per mesi di suonare la chitarra. Temeva che non sarebbe più stato in grado di farlo. «Non riuscivo a suonare King of California, un mio pezzo», racconta. «Le dita non rispondevano. Era davvero strano».

Alvin ha comunque trovato la forza di suonare la chitarra in due dischi negli ultimi due anni: una session per il suo vecchio amico Jon Langford e un tributo al batterista Don Heffington. «Potrebbe essere la mia ultima session», ricorda di aver pensato, «ma devo farlo per Don».

Alvin non ha parlato con nessuno del suo stato di salute, a parte la sua partner, il fratello, i compagni della band, gli amici. «Per dirla con un po’ di umorismo nero, era il momento perfetto per avere il cancro e non essere in grado di andare in tour», dice Alvin, 66 anni, riferendosi alla pandemia. «Il punto è che non volevo ingigantire la cosa, è una diagnosi di per sé terribile e non volevo dover gestire le reazione della gente».

Oggi Dave Alvin è libero dal cancro, ma sa che potrebbe tornare. Non vede l’ora di suonare in estate col vecchio amico Jimmie Dale Gilmore. Dice che l’esperienza lo ha cambiato e si sente finalmente pronto per parlarne. «Ho qualche altro anno di vita», dice sorridendo. «Oggi non ho il cancro oggi, ma domani? Chi lo sa».

Perché hai tenuto nascosto il tuo stato di salute?
Negli ultimi anni mio fratello Phil ha avuto molti problemi di salute. Abbiamo dovuto dirlo pubblicamente e so quanto il suo ego e il suo orgoglio ne hanno sofferto. Apprezzava l’affetto della gente, ma non voleva sembrare debole e bisognoso. Perciò ho deciso di non dirlo a nessuno, ma sono arrivato al punto in cui non dirlo è un peso. Ho avuto a che fare con tre diversi tumori e, toccando ferro, me ne sono liberato. Ti fa sentire come quelli degli Alcolisti Anonimi che fanno un passo alla volta.

Qual è stata la diagnosi precisa?
La più leggera tumore alla prostata, la più pesante tumore colorettale. Al quarto stadio, aveva già preso il fegato. L’anno scorso sono stato sottoposto a una grande operazione durante la quale hanno rimosso chirurgicamente tutti i tumori. A giugno mi hanno detto che me n’ero liberato. Una parte di me non ci credeva e faceva bene perché due settimane e mezzo dopo mi hanno dato un anno di vita. Avevano trovato un altro tumore, era tutto così kafkiano. Uno degli oncologi pensava avessi un tumore ai polmoni e perciò ho cominciato a fare la chemio. A causa di uno dei picchi del Covid ho dovuto saltare una biopsia. Morale: ho fatto chemioterapia per un tumore che non avevo dopo aver fatto chemio e radioterapia per un tumore che invece avevo.

La cosa più difficile?
Il tumore colorettale. È stata una botta quando Chadwick Boseman è morto [a causa di un tumore al colon]. Per me era inimmaginabile che riuscisse a lavorare e sottoporsi a quelle cure. Ho cominciato ad ammirarlo ancora di più. È diventato uno dei miei eroi, mentre affrontavo questa cosa. E poi c’erano gli effetti collaterali della chemioterapia, la principale la neuropatia a piedi e mani. Non sono stato in grado di suonare la chitarra per sei mesi. Ok, qualcuno dirà che non sono mai stato capace di suonarla, ma è irrilevante. L’unico modo in cui posso descrivere l’effetto della neuropatia, una volta che è arrivata a livelli tollerabili, è che le corde della chitarra sembravano lame affilate. Dopo qualche mese sono riuscito a rimettere mano alla chitarra, ma le dita erano insensibili, non riuscivo a capire in che posizione erano, quale corde suonavo. Mi toccava guardare le mani, come un principiante.

Qual è l’ultima volta che hai suonato in pubblico, prima della pandemia?
Ho fatto uno show di beneficienza subito dopo essere uscito dall’ospedale per la setticemia. Era un tributo ai Lovin’ Spoonful. Avevo accettato perché il loro è stato il primo concerto rock della mia vita, avevo 9 anni. C’erano gli Spoonful, i Bobby Fuller Four, i Turtles, i Thee Midniters e gli Herman’s Hermits. Le due band che mi avevano colpito di più erano Bobby Fuller Four e Lovin’ Spoonful. Ho un ricordo cristallino di quella performance. John (Sebastian, nda) aveva suonato un pezzo, si chiamava Night Owl Blues. Non avevo mai sentito l’armonica blues prima di quel momento. Ho pensato: ma cos’è questo suono?

Suonarla con lui [al concerto di beneficenza di febbraio 2020] un milione di anni dopo è stato importante per me. È stata la chiusura di un cerchio. Il mio primo concerto è stato con i Lovin’ Spoonful, idem l’ultimo. Non m’importava se il giorno dopo fossi caduto giù da una montagna. Uno dei miei pazienti che si curava il cancro con me mi ha detto che la vita «non ha la forma di un cerchio, ma di un otto». Io avevo appena chiuso la parte di sotto dell’otto, ora sto andando verso quella di sopra.

Gli ultimi due anni ti hanno cambiato?
Ho sempre pensato che non sarei morto. «Non potete farmi fuori, non ancora». Se penso alla mia carriera… sono un vecchio cane testardo e una delle ragioni per cui ho avuta una carriera è che mi sono rifiutato di mollare. In certe situazioni una persona meno testarda avrebbe voluto, o dovuto, smettere. Il cambiamento più grande è che prima stavo per conto mio, creativamente, vivevo ai margini dell’industria musicale, come molti dei miei eroi. Tutto questo mi ha convinto a percorrere questa strada con ancora maggiore convinzione.

Il più grande cambiamento mentale, e so che sembra assurdo, è che mi sembra tutto più bello. Sarei dovuto morire. Ho avuto una carriera e una vita piena di soddisfazioni e mi vabene tutto quello che arriverà, anche i giorni di merda. Sono sempre stato cinico, sarcastico e lo sono ancora, ma ora penso anche: wow, la vita è magnifica, è preziosa. La gente è crudele e dobbiamo continuare a cercare giustizia, ma dio, guardate gli alberi. Guardate i fiori. Un tempo non li avrei notati.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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