Populous scandisce il tempo delle donne | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

Populous scandisce il tempo delle donne

Il produttore racconta ‘W’, il suo concept sull’immaginario femminile, e immagina la musica dopo la crisi: «Mi auguro che i promoter ridimensionino gli investimenti sugli artisti elettronici stranieri a favore degli italiani»

Populous scandisce il tempo delle donne

Populous

Foto: Francesco Sambati

Andrea Mangia, in arte Populous, è una di quelle persone con cui puoi passare ore a parlare di musica (ma anche cibo, viaggi, e altre cose che rimangono private) senza annoiarti. È un oratore sveglio e colto, con un’onesta capacità critica. La sua musica zingara è un misto di Salento ed esotismi dal globo. Qualcuno la chiama world music, ma per descriverla sarebbe meglio ripulire il genere da quella patina fricchettona per lasciare esalare quel suono caldo, avvolgente e fresco che ha reso Populous uno degli artisti italiani più quotati all’estero.

Il nuovo W (che sta per Women) è un concept album sulla figura della donna, omaggio ad un immaginario musicale femminile libero ed eterogeneo in cui ogni brano vanta la collaborazione con una differente artista del panorama elettronico. Come detto, Populous è un così piacevole oratore che, a partire da alcuni brevi spunti, ci siamo persi in una chiacchierata di un’oretta, di quelle per cui ti scaldi l’orecchio se ti sei dimenticato di indossare gli auricolari.

Quipo, Queue For Love, Drawn in Basic, Night Safari, Azulejos. Ora è il tempo di W. In poco meno di vent’anni sei arrivato al tuo sesto disco in studio. Com’è pubblicare e promuovere un disco durante un periodo così assurdo?
Te lo dico francamente: abbiamo anche pensato di rimandare l’uscita. Però questo disco è un’opera così collettiva e declinata al plurale che non aveva la velleità di essere portato dal vivo. Quindi da quel lato non c’era un reale problema: pensavo più di preparare dei dj set più strutturati con video, ballerini, performer. Credo che rinviare o meno l’uscita di un disco in questo momento dipenda molto dal genere musicale. La mia è elettronica d’ascolto, non è un tool puramente per il dancefloor, quindi perché non pubblicare questo disco? La gente è a casa, ha tempo per ascoltare.

Il tema su cui ruota W è la donna, come sei arrivato alla decisione di questo concept?
È una provocazione diventata disco. Lo scorso anno sono accadute delle situazioni che mi hanno fatto riflettere. Penso, ad esempio, al caso di sessismo nell’apertura di CRLN di un live di Gemitaiz o all’esternazione di Francesco Renga a Sanremo in cui commentava l’esigua presenza di concorrenti femminili adducendo come motivazione la chiara superiorità delle voci maschili. Ma ciò che mi colpì maggiormente fu la notizia di questo servizio di streaming iraniano, Melovaz, che rimuoveva le donne dalle copertine dei dischi. Sul loro distributore caricavano i dischi di Lana Del Rey, Lady Gaga, Beyoncé togliendole dalle loro stesse copertine! Tutto questo mi ha fatto scattare una molla: siamo ancora a questo punto? Siamo ancora a parlare delle donne in questi termini? E allora mi son detto che avrei fatto un disco solo con donne o persone con una spiccata percentuale di femminilità.

Hai avuto pensieri sul fatto che qualcun* potesse essere infastidit* da un disco a tema donna ad opera di un uomo?
Ci ho subito pensato: posso fare una cosa del genere? Io sono un ragazzo omosessuale e penso di sapere – in minima parte – come ci si possa sentire in determinate situazioni. C’è anche un po’ di cameratismo in questa scelta. Il mio è un omaggio.

In W percepisco un ulteriore spostamento verso un suono gentile e rotondo.
Sì, sono contento che si percepisca perché la mia intenzione era proprio di arrivare a un suono gentile. Nonostante il concept sia nato da qualcosa che mi ha turbato, non volevo che la proposta musicale ne venisse influenzata nei toni. Non volevo fare un disco riot, ma gentile, in linea con il mio stile artistico.

L’elenco delle collaborazioni è un viaggio intorno al mondo: Giappone, Sud America, Europa. Come sei arrivato a scegliere queste artiste?
Ho fatto in modo che non ci fossero forzature. Con Emanuelle eravamo assieme a casa quando ci è venuto in mente di rendere omaggio agli afrosamba brasiliani. Quando ho scritto un pezzo cumbia molto dub ho pensato a Kaleema di Chancha Via Circuito. Coi Sotomayor sono nella stessa etichetta (la Wonderwheel Recordings, ndr) e ci siamo conosciuti a Città del Messico, lo scorso anno, dopo un mio dj set. Come vedi, sono quasi tutte artiste con cui ho un rapporto o comunque persone a me connesse.

Tema a sé è la tua amicizia con M¥SS KETA. Avete collaborato per brani, live, dj set. Xananas fu una hit pazzesca. Ora siete tornati con House of Keta (con Kenji). Come è nato questo brano che celebra la scena del Vogue?
Fare un disco che omaggia la femminilità senza chiamare Keta era impossibile. Da tantissimo tempo volevamo fare un pezzo ispirato alla scena del vogueing. Inizialmente volevamo chiamarlo: Voguera (ride). Immagina che volevamo fare un video in cui le celebri casalinghe di Voghera la sera uscivano per andare a fare vogueing. Questa era l’idea di merda che avevamo avuto all’inizio e che per fortuna abbiamo accantonato! Voguera è si è trasformata in House of Keta perché volevamo fosse lei la mother di questa house che, per ora non esiste, ma nel futuro chissà. Abbiam giocato di fantasia. Il mondo delle ballroom è molto underground e non è facile entrarci. Abbiamo questo amico comune, Kenji, che ci aiutato a realizzare il pezzo senza sentirci colpevoli di appropriazione culturale. Noi volevamo fare un omaggio sentito. Ora stiamo finendo di preparare il videoclip.

Populous fotografato da Carmen Mitrotta

Cosa ne pensi della scena musicale elettronica italiana e del rapporto che esiste tra i suoi artisti? E cosa pensi possa servire per un’ulteriore crescita?
In Italia non manca la collaborazione o il supporto reciproco tra artisti, anche di scene distanti. Mi sembra che chi fa parte della comunità elettronica italiana si supporti molto, c’è competizione, certo, ma sana. Non ho mai notato comportamenti con accezione negativa. Quello che manca sono quelle persone che aiutano a creare le scene. La scena di Birmingham, di Manchester, di Seattle non sono nate a tavolino. Non è stato Cobain ad inventarsi la scena grunge. Questo passaggio deve essere arrivare dai giornalisti: approfondimenti, interviste, video. Sono i media e gli addetti ai lavori a mancare, è un dato di fatto. Le realtà straniere spesso ci supportano più di quelle italiane. È su questo che bisogna lavorare.

Sei uno di quegli artisti italiani che suona spesso all’estero. Qual è la tua visione del mondo clubbing e live italiano e quale pensi sarà il suo futuro?
Ho letto qualche giorno fa una considerazione di uno dei ragazzi di Marvin & Guy che ho trovato interessante: questa situazione sarà probabilmente un’occasione per i promoter di ridimensionare gli investimenti per artisti stranieri da cachet enormi a favore di artisti italiani. Oddio, ora sembro Trump che parla di economia (ride). L’Italia è esterofila quando ci si riferisce al pop o al rock. E lo comprendo, anche io lo sono. Nel mondo dell’elettronica però non c’è bisogno di essere esterofili, di gente figa ce n’è e potrebbe esser un buon momento per investire su scene e artisti per dar inizio a qualcosa di nuovo. Pensiamo ai festival di elettronica italiani: sono fighi, organizzati bene e non hanno nulla da invidiare a quelli che troviamo in Europa. L’unica cosa che posso dire è che invece di fare like su Facebook e dire “che figa la line-up”, la gente dovrebbe iniziare ad andarci davvero ai concerti! Non è tanta la musica che manca, quanto un certo tipo di audience. E questo ha fatto sì che i festival italiani per anni hanno avuto line-up composte spesso da quei soliti nomi stranieri di richiamo, che sono super fighi, penso a Apparat, Peggy Gou, Moderat, Modeselektor, Four Tet, Caribou, ma che ora iniziano a stancare in queste line-up. Sarà il caso che iniziamo tutti quanti a concentrarci anche su qualcos’altro?

Ho letto che hai studiato musicologia. Quanto ha inciso nel tuo percorso artistico?
Ho fatto indirizzo musica al DAMS di Bologna. Dopo aver lasciato Bologna, mi sono iscritto a Musicologia all’Università di Lecce. Lì mi si è aperto un mondo e ho iniziato a conoscere cose veramente pazze. Nel contempo mio padre è una specie di etnomusicologo fissato con la musica tradizionale con una collezione di dischi assurdi. Seguiva La Notte della Taranta prima che diventasse così popolare e fu lui a mettermi in contatto con Mauro Pagani, che all’epoca ne era direttore artistico, per intervistarlo per la mia tesi di laurea. Questa connessione con la musica tradizionale pugliese ha fatto sempre parte della mia vita, nonostante da ragazzino non capissi come poteva essere qualcosa di interessante. Mi fa piacere vedere come ora l’uso del tamburello, e di una certa percussione, sia poi stato ripreso da artisti come James Holden, Clap! Clap!, Go Dugong. Apprezzo quando un artista si avvicina a questo mondo con rispetto e non per coolness anche perché, diciamocelo, la taranta non potrà mai essere cool! (ride)

Condividiamo una grande passione per la musica ambient. E mi pare evidente che quel mood stia entrando sempre più nella definizione del tuo suono, in quella gentilezza di cui parlavamo prima. Qual è il tuo rapporto con la musica ambient?
Quando è successo tutto questo delirio della pandemia, avevo solo voglia di ascoltare musica che curasse il mio spirito e la mia anima. E per questo non c’è musica migliore dell’ambient; ti spoglia da tutto per arrivare all’essenza delle cose. Pensa a Music for Airports di Brian Eno, il suo scopo era una musica che venisse riprodotta negli aeroporti per tranquillizzare le persone che prima di ogni partenza hanno quel senso di nervosismo e ansia – che può arrivare da mille cose – che colpisce anche il più serafico. La musica ambient è curativa per definizione, vuole infondere questa sensazione di relax, tranquillità, pace, meditazione nell’ascoltatore. Quindi quale migliore periodo – cioè questa merda che sta succedendo – per riconciliarci con la nostra vera essenza e purificarci da tutte le negatività, paure e ansie?

Allora per concludere consigli tre dischi ambient per introdurre al genere?
Te ne dico tre molto differenti tra loro. Music for Airports di Brian Eno, per quanto detto prima. Music Has the Right to Children dei Boards of Canada, che ha il ritmo e non è propriamente ambient, ma che mi sento di consigliare per la sua funzionalità. E poi ti direi Shenzhou di Biosphere, il disco che ha fatto campionando le orchestrazioni di Debussy.

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