Poohemian Rhapsody: i Pooh intervistati dai Fast Animals and Slow Kids | Rolling Stone Italia
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Poohemian Rhapsody

I Pooh come non ve li aspettate. Si sono messi in gioco non solo posando come i Queen e i Kiss, ma anche sottoponendosi alle domande dei Fast Animals and Slow Kids. Da una parte i veterani del nazionalpopolare, dall’altra un gruppo di rocker trentacinquenni. È venuta fuori una chiacchierata in libertà sulla nascita del pop e dell’industria dei concerti in Italia, le differenze generazionali, le contestazioni, le groupie, i soldi, gli scazzi e come risolverli

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia

Al giovane Mick Jagger gli altrettanto giovani Beatles sembravano «un mostro a quattro teste». Insieme ovunque, vestiti uguali, e quando parlavano parevano coordinati. I Pooh hanno mantenuto molto più a lungo dei Beatles questa modalità, e anche senza lo scomparso Stefano D’Orazio (autore della divertita quanto esasperata: «Dove sono gli altri tre?») la usano abitualmente anche per mantenere il controllo delle interviste. Come quegli animali che agiscono in gruppo, portano l’intervistatore dove vogliono e schivano con leggiadrìa ogni domanda a rischio.

Ma come può una band attraversare gli anni ’60, ’70, ’80 (e quelli dopo: dovreste conoscerli) senza eccessi di droga, alcol o beni di lusso, senza risse o polemiche o inciampi politici, concedendo pochissimo ai cacciatori di gossip o scandali, malgrado una certa fama dongiovannesca che molte fan hanno conosciuto bene, ma sulla quale tacciono complici? E poi, per gli dèi, questa cosa che si può essere «amici per sempre»… Se è vero, perché sono una delle poche band che ci è riuscita? Se invece non è così vero, come farglielo ammettere?

Col turpe intento di far vacillare la fortezza Pooh, abbiamo messo Dodi Battaglia, Red Canzian, Roby Facchinetti e Riccardo Fogli di fronte a una band di una generazione diversa. E per nulla simile: i Fast Animals and Slow Kids, che sarebbe arduo indicare come loro discendenti. Eppure, un terreno comune lo hanno trovato, perché dalle loro domande sono venute fuori risposte interessanti – e alcune, finalmente, inaspettate. Giudicate voi.

FASK: Siamo in un periodo in cui molta gente passa nel giro di uno, due anni dalla prima apparizione pubblica ai palasport, o agli stadi. Noi forse siamo stati una delle ultime band ad aver fatto gavetta, iniziando da piccoli posti, cosa che avete fatto anche voi. Ovviamente è una fase molto formativa, ma in cosa direste che è un vantaggio?
Red Canzian: In quel periodo era la sola strada per essere autonomi, per vivere nel mondo in cui volevamo stare, quello della musica. E tutto era simboleggiato dal furgone: ti permetteva di muoverti, portare gli strumenti, mangiare e dormire, vivere emozioni con le fan… Lo abbiamo fatto tutti, perché quello era il modo in cui si faceva.
Roby Facchinetti: Era un periodo miracoloso, la musica cambiava il mondo. Fino al giorno prima per i giovani era: «Si fa come dico io perché sono più grande di te», «Esci? Torni alle 11. Perché sono tuo padre e fai quel cazzo che dico io». Ma i giovani hanno iniziato a comunicare grazie alla musica. A sentirsi importanti. E arrivavano opportunità: all’epoca se avevi un minimo di talento le case discografiche ti davano retta: «Tu capellone, vieni un po’ qua!». Se sapevi fare due accordi prima o poi qualcuno ti considerava un genio. Era entusiasmante: essere giovani e sentirsi protagonisti. E anche se eri una mezza pippa eri stimolato a provarci.

FASK: Era più facile sognare, si direbbe… Ma cosa ha messo in moto tutto, qual è stata la scintilla?
Riccardo Fogli: I Beatles. Con loro sono cambiate tante vite, tra cui la mia. All’improvviso, da Peppino Di Capri, da un orizzonte familiare iniziavi a vedere un mondo più grande che cambiava.
Roby: Sicuramente i Beatles. Poi sono venuti tutti gli altri, ma i Beatles sono stati il big bang. E per voi, la scintilla?

FASK: Noi siamo tutti ragazzini formati col punk.
Red: Fate dei nomi. Non so, i Nirvana, quel mondo lì?

FASK: Un po’ meno, loro erano già successivi, già grunge… Casomai i NOFX, una band hardcore punk melodico californiana, abbastanza di nicchia, oppure i Replacements… I primi Green Day, e poi va beh, Bruce Springsteen.
Red: Anche a me piacevano i Green Day, buona scrittura, veri musicisti. Comunque coi Beatles e poi i Rolling Stones, la discografia scopre le band. Di colpo, i complessi come si diceva all’epoca, ricevono più attenzioni di Gianni Morandi, Massimo Ranieri o tutti i cantanti solisti, che vengono visti come vecchi anche se avevano la nostra età.
Roby: Certo la band comportava più spese. Hai più persone a dividere l’incasso della serata. E più costi di ogni tipo, spostamenti, alberghi. E lì scoprivi che essere in un gruppo significava qualcosa di nuovo nella musica e non solo: condividere tutto, ogni giorno.
Red: Non le donne.
Roby: Beh, in qualche caso è successo.
Riccardo: Ehm.

FASK: Noi abbiamo messo su un gruppo in un periodo in cui già si sentiva che era un’idea in declino, lo si fa sempre meno.
Roby: Noi non abbiamo messo su una band… Non i Pooh, perlomeno. Perché venivamo da altri gruppi e siamo entrati in quello che avevano formato Valerio Negrini e Mauro Bertoli. Uno alla volta siamo entrati per sostituire qualcuno. Sai, uno mollava perché doveva sposarsi, un altro perché c’era un mestiere più sicuro… Non si guadagnava molto, allora. Io fui avvicinato nel 1966 quando mi sentirono col mio gruppo in un locale di Bologna di cui erano l’attrazione.
Dodi Battaglia: Io sono entrato che c’era già anche Riccardo, avevano già inciso Piccola Katy. Io ero in un altro gruppo di Bologna, i Judas. Che si menavano coi Pooh.

FASK: Chi vinceva?
Dodi: Noi Judas, perché più cattivi: eravamo tipo i Rolling Stones rispetto ai Beatles. Ma alla fine sono passato con loro, e sono rimasto l’unico bolognese. Voi siete tutti della stessa città, vero?

FASK: Tutti di Perugia, sì.
Dodi: Credo che per noi sia stato un vantaggio il fatto di venire tutti da posti diversi. I New Trolls erano un gruppo di Genova, quando tornavano a casa condividevano il successo con la città. Solo che quasi sempre, fuori, erano visti come il gruppo di quella città. Per noi, oltre al vantaggio di avere una città per ciascuno in cui essere il figo dei Pooh, l’avere estrazione e culture diverse ha permesso una miscela che ci ha reso più facile farcela in Italia. Metti insieme un bergamasco, un bolognese, un trevisano, un romano, un produttore napoletano, uno a cui piace il rock, uno più melodico… Avevamo diversi ingredienti che hanno dato un risultato unico. Non è una regola, eh. Ha funzionato per noi, per voi funziona il contrario.

FASK: C’era una rivalità con un altro gruppo? O dissapori con altri musicisti?
Roby: Niente di serio.
Red: L’unica cosa vagamente simile a una rivalità fu quando il nostro promoter, Maurizio Salvadori, scritturò i Rockets, che qui in Italia stavano avendo un successo impressionante, anche dal vivo. Loro se la tiravano un po’. Un giorno a Monza li sfidammo a pallone. Io non avevo mai giocato prima di allora. Segnai. Ma non avevo calcolato quella faccenda del cambiare campo all’intervallo, quindi tirai nella porta dove avevo tirato tutto il primo tempo: vinsero col mio autogol. Questo li ha commossi.

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia

(A proposito di rivalità, sensazione intermedia di Rolling Stone: malgrado le evidenti differenze, il gruppo più giovane è sinceramente incuriosito dal gruppo storico, e piuttosto nongiudicante, se ci passate l’espressione. Con una minore distanza anagrafica forse non sarebbe successo. Per molti gruppi degli anni ’90, i Pooh erano la musica che piaceva alla gente normale, la band che andava in tv da Pippo Baudo. Verso di loro però i FASK, pur non essendo una band accondiscendente, non hanno ostilità preconcetta, generazionale o musicale. Affascinante. No?).

FASK: Noi a volte ci chiediamo se dovremmo legare con qualcuno, fare progetti insieme.
Red: Difficile dire. Secondo me è meglio fare il proprio percorso.
Roby: A noi ha fatto bene. Abbiamo fatto amicizia con tanti musicisti, ma dal punto di vista lavorativo ce ne siamo stati sempre per i cazzi nostri. Usando quel tempo per migliorare tecnicamente.

FASK: Ma le decisioni come le prendete? Noi rischiamo sempre di essere due contro due. Uno dei nostri stratagemmi è: ridurre le discussioni all’essenziale. Per fare un esempio, la scelta della scaletta del concerto, ci basiamo sulle accordature delle chitarre. Prima tutti i pezzi in Mi, poi quelli in Sol…
Dodi: Come noi, voi avete una sfiga. Siete in quattro, non esiste la maggioranza. Noi abbiamo ovviato con un tecnico che non ne capiva moltissimo, ma simpatico: Osiride di Mirandola, al quale delegavamo lo spareggio. Se la discussione andava per le lunghe chiamavamo Osiride, che d’impulso diceva «Mo fai così, e non rompere i maroni».

FASK: Non avete mai fatto a cazzotti tra voi per qualche motivo?
Roby: No. Quando c’è buonsenso, parlando si trova la scelta giusta.
Dodi: Anche per sfinimento.
Red: Le riunioni dei Pooh erano interminabili… Duravano giorni, però ne uscivamo. Mediamente convinti.

FASK: C’è una specie di regola che vi siete dati?
Roby: Un principio: «Se non siamo tutti d’accordo, non si fa un cazzo».
Dodi: Non lo abbiamo adottato subito. Ma col tempo abbiamo capito che se uno non è convinto, non è pazzo. Ha un suo punto di vista. E poi, tre contro uno è una situazione spiacevole. Ma chiedete a Riccardo Fogli (ridendo).
Roby: Sì, fatti fare domande, Riccardo.
Riccardo: Io voglio dirvi una cosa. Voi da quanto siete insieme?

FASK: Quindici anni.
Riccardo: Non c’è male. Io con loro sono stato qualche anno. E stare assieme sette anni, belli intensi, è difficile. Ma cinquantacinque! Io a questi signori qui al mio fianco posso dire solo: chapeau. Poi, devo anche dire che nei miei sette anni ci sono state cose fantasmagoriche, che voi purtroppo non vedrete mai, e mi spiace per voi!

FASK: Per esempio?
Dodi: Me n’è venuta in mente una che è stato meglio non vedere. Ieri ho sentito In silenzio, il lato B di Piccola Katy. Riccardo cantava come un’aquila…
Riccardo: Mentre ora canto come un pirla?
Red: Mi ricordo quando la sentii alla radio. Ero convinto fossi Morandi.
Roby: Io non ero in sala con lui in quel momento, ma sapevo che era un pezzo difficile da cantare, c’era un passaggio La-Sol molto alto. Quando torna gli chiedo: «Ci sei riuscito? Come hai fatto?». E lui: «Mi sono tirato giù le mutande, mi sono preso in mano i coglioni e l’ho cantata così».
Riccardo: Non mi hanno visto, siccome c’era anche una donna presente ho chiesto di abbassare le luci.
Roby: Ho testimonianze, ti hanno visto.
Riccardo: Mi dicevano: «Ci devi mettere lo swing». Io facevo il gommista a Piombino, non sapevo cosa fosse. Ancor oggi per me lo swing è: mani sotto le palle.

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia

Rolling Stone: Scusate, possiamo tornare a una frase detta poco fa? Hai detto che certe cose loro non potranno viverle. Ma cosa lo impedisce?
Riccardo: Oh, non è certo colpa loro.
Roby: Sono cambiati il mondo e la musica. Credo che troppe cose che vengono prodotte siano più sterili, meno emozionanti. Suonare è emozionante, certo, ma credo manchi quell’idea di sentirti in un’avventura insieme a tutti gli altri della tua età.
Red: Il mondo è cambiato socialmente e politicamente. Tutto va più di corsa. Noi avevamo tempo di assorbire le novità, viverle e goderle. Ci siamo innamorati della musica con Elvis, abbiamo iniziato a suonare perché volevamo essere come i Beatles, poi abbiamo vissuto l’epoca del rock e del prog, che è la musica più bella al mondo da suonare con una band, ti fa sentire un eroe, quello che fai è epico.

Rolling Stone: Però sembra di capire che anche la musica andava di corsa in quel periodo. Ora corre meno della tecnologia.
Roby: Ma c’era anche più territorio da esplorare, che oggi è ridotto. Non a caso tante band ancor oggi rappresentano un modo di intendere la musica. Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin, Pink Floyd, Emerson Lake & Palmer, fino ai Police che per me sono l’ultimo domicilio conosciuto. Loro hanno creato le matrici della musica.
Dodi: Mia figlia ha 17 anni, io vedo che lei ma anche i suoi amici ogni tanto ascoltano Queen, Michael Jackson, c’è un tipo di musica che rimane, e altra no. L’altro giorno mi ha detto: «Ho sentito un pezzo, Dieci ragazze per me, di un certo Cesare Battisti…». Credo che del presente non molte cose funzioneranno tra cinquant’anni.
Roby: La tecnologia però consente anche ai ragazzi di sentire tutto, scoprire le cose fatte prima… Anche le nostre, da Uomini soli fino alle più vecchie.

Rolling Stone: A proposito delle cose più vecchie, vi è mai venuto da chiedere a Valerio Negrini: «Ma cosa stai dicendo»?
Dodi: A me no. A uno che scriveva cose tipo “Dio delle città e dell’immensità, magari tu ci sei e problemi non ne hai” cosa gli dicevi?
Roby: A me sì, è capitato! Ma proprio: «Ma che cazzo stai dicendo???», ahaha!
Red: Lui ti spiazzava con la cultura. E poi si inventava testi che ben si sposavano con certi pezzi come Lettera a Marienbad e Inca. Non potevi farci un testo d’amore, non c’entrava nulla.

Rolling Stone: Tra le tante apparizioni tv, ce n’è una che ricordate con disagio?
Dodi: Pippo Baudo ci fece fare Non ho l’età di Gigliola Cinquetti versione hard rock, vestiti tipo metal. Una versione di una bruttezza inconcepibile.

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia

(L’accenno a Non ho l’età provoca una certa associazione di idee della quale Rolling Stone si scusa, e che genera la domanda in arrivo, accolta da sorrisi molto compiaciuti).

Rolling Stone: Com’erano le groupie degli anni ’70?
Red: Avventurose.
Roby: Giovani. Molte di loro erano in rotta con la famiglia e scappavano di casa come Piccola Katy, che poi deve l’ispirazione a She’s Leaving Home dei Beatles. Molto spesso finivano al Piper di Roma, sognavano quel mondo. I carabinieri lo sapevano e ogni settimana andavano a riprendere i ragazzi lì.
Red: Ai tempi se non scappavi di casa almeno una settimana dormendo dove capitava, eri uno sfigato.

FASK: Beh, di sesso e rock’n’roll pare di capire che ce ne fosse, ma droga, proprio niente?
Roby: Torniamo al discorso precedente, ragazzi…

FASK: Quando avete pensato di aver svoltato?
Red: Sai, in un certo senso la gavetta non finisce mai. Nel 1982 eravamo in giro da quasi vent’anni, il tour era veramente grande, c’era troppa roba da caricare e scaricare. Avevamo ideato una struttura pesantissima che sfidava la gravità, e di ferro, non alluminio. I roadie si dileguavano. Trovarne altri costava, il nostro promoter, il povero Bibi Ballandi ci metteva fretta. Così toccava a noi fare i roadie, andare ai camion e tirare giù tutto, altro che rockstar.
Roby: La gavetta c’è sempre, nel senso che nessuno ti regala niente se vuoi essere al livello che hai scelto. Ora per questi concerti dobbiamo studiare 57 pezzi. Ma non è per dimostrare niente a nessuno, noi lavoriamo prima di tutto per divertirci, ma vogliamo fare bene le cose, per noi e per il pubblico che ha scelto di vederci.
Dodi: Mi ricordo che per quel tour di cui parlavi, Ballandi ci disse che la tournée era andata benissimo e aveva guadagnato un bel po’. Noi invece staccammo un assegno di 70 milioni di lire a testa per coprire i costi di un tour di successo. È gavetta anche quella: la volta dopo studi il modo per non smenarci.

FASK: In pratica vi siete ritrovati ad affiancare il lato musicale a quello imprenditoriale, investendo nei vostri tour, aprendo la vostra società musicale.
Roby: Non c’erano alternative. Oggi vuoi fare un grande concerto, sai a chi rivolgerti. Noi avevamo la libidine dei palchi che vedevamo all’estero, ma in Italia non c’erano le professionalità che ci sono ora. Ci dicevamo «Guarda cosa fanno Pink Floyd, Genesis, Yes».
Dodi: Allora andavamo con le foto del palco dal falegname e dal fabbro di Budrio, vicino a Bologna, dicendo «Vorremmo una cosa così». Lui diceva «Ah non lo scio, ve’… Proviamo: se regge, regge». Però verso la fine degli anni ’70 quella dimensione artigianale in cui operavano tutti non poteva continuare, e abbiamo iniziato a rivolgerci a un ingegnere, a mettere tutto in sicurezza, ad avere nostri dipendenti con i contributi.
Roby: Era un mondo agli inizi. Siamo nati in un periodo in cui questo mestiere dovevi inventarlo giorno dopo giorno. Voi avete la fortuna di trovare molte soluzioni già pronte, noi ogni volta incontravamo problemi che nessuno aveva ancora realmente affrontato. Ma in realtà è stata una fortuna anche per noi avere sempre lo stimolo a superare gli ostacoli, altrimenti rimanevi come tutti gli altri.
Dodi: All’inizio i concerti si facevano nei locali da ballo, poi sono arrivati i teatri e i palazzetti, ma non c’era Ticketone, internet, tanti degli strumenti attuali per facilitare sia il pubblico che gli artisti. Agli albori dell’era dei megaconcerti, nel 1980 abbiamo suonato al San Paolo di Napoli: 80 mila presenti. Ma 15 mila paganti. Era un periodo in cui dovevi trovare continuamente soluzioni, artistiche e professionali.

Fast Animals and Slow Kids. Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia

FASK: Noi finora nel nostro piccolo abbiamo fatto un tour teatrale con sei musicisti classici. E non stiamo guadagnando niente, ma era un sogno che avevamo. Però voi già negli anni ’70 ne avevate cinquanta, di orchestrali. A parte i costi, per noi è già complicato capire come fare perché si sentano tutti bene e gli arrangiamenti siano i migliori possibili. Ma cinquanta…!
Red: Non erano di più?
Roby: Nell’81 erano di più. Per il tour in palasport e stadi – con quel palco grandioso, quello costruito con l’ingegnere.

FASK: Com’era fatto?
Roby: Tu entravi e non vedevi nulla, ti chiedevi dov’erano tutti i musicisti che sentivi. A un certo punto questa struttura con sei-settecento fari si alzava di 13 metri – con un rumore tipo quattro elicotteri – e il pubblico finalmente li vedeva, e tutti: «Oooh». Avevamo fatto il collaudo una settimana prima, e sorpresa: il palco non reggeva. Lo abbiamo dovuto smontare tutto, ripensare, e aumentare tutto, anche i tir, arrivando a 12-13.

FASK: Avete un vostro concerto preferito?
Red: Per me quelli a Sofia, negli anni del comunismo. Ho questo ricordo di donne con l’età delle nostre mamme che lavavano le strade con 10 gradi sotto zero, la gente comprava i nostri biglietti sotto la neve. L’atmosfera ai concerti era quasi magica, il pubblico vedeva i laser ed era sbalordito.

Rolling Stone: A proposito di comunismo: voi il clima degli anni ’70 in Italia, con le contestazioni a De Gregori o Santana, o gli autoriduttori (i gruppi di sinistra che volevano la musica gratis, si rifiutavano di pagare il biglietto, entravano a forza, si scontravano con la polizia, a volte salivano sul palco, ndr), come lo avete attraversato?
Red: Ah, quella sera a Milano De Gregori lo salvai io, lo caricai in macchina e lo portai via dal Palalido, in Largo Augusto. Ero lì perché Roby gli aveva prestato un amplificatore, e mi ha detto «Puoi andare a controllare che lo trattino bene?». Ma credo pensasse ai roadie, non al pubblico.
Roby: Noi c’eravamo la sera dei lacrimogeni al concerto dei Led Zeppelin, eravamo in quell’edizione del Cantagiro che fece tappa al Vigorelli. A un nostro concerto in Puglia trovammo degli autoriduttori.
Red: E a Salerno durante una tournée teatrale qualcuno tirò delle molotov verso la porta del teatro chiusa. Ma non ci siamo nemmeno accorti.
Riccardo: In generale però in quel periodo venivamo rispettati, nessuno ci attaccava perché avevamo un aspetto moderno, facevamo Eleanor Rigby dei Beatles. Poi si vedeva che noi sul palco suonavamo, non andavamo sul palco con le basi come altri.

FASK: Situazioni strane on the road, invece? A noi è capitato che ci chiudessero nel posto dove avevamo suonato, abbiamo dovuto dormirci.
Riccardo: Un impresario ci propose 30 mila lire a sera più vitto e alloggio in una villa adiacente al dancing, vicino a Bari. Quando arrivammo scoprimmo che il nostro uomo era un contrabbandiere, e al momento era agli arresti. La villa non aveva porte né finestre, era stata una villa. Però lui ci fece avere qualche spicciolo da un uomo di fiducia, così suonammo un mese, aspettando che arrivasse.
Roby: A tutt’oggi ci deve 200 mila lire, che allora erano tanti soldi, specie per noi. Gli lasciammo in un vassoio di terracotta un souvenir di Riccardo, sempre senza braghe.
Dodi: Comunque si mangiava così poco che non poteva essere molta roba…
Riccardo: Pompelmi. Ricordo tantissimi pompelmi.

(Veniamo richiamati, è il momento della session fotografica. Saluti, strette di mano, ancora qualche scambio su modelli di chitarra o come suonare meglio nei teatri. Prima di andare, vi dobbiamo un dettaglio: avrete notato che quando parlano i Pooh viene specificato chi sta parlando, con i Fast Animals and Slow Kids questo non accade. Forse la verità è che ci piaceva troppo quell’idea del mostro a quattro teste. Difficile immaginare che i FASK lo diventino, ma lo sapremo tra 40 anni).

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Foto: Clara Borrelli
Art Director: Alex Calcatelli per LeftLoft
Fashion Editor: Francesca Piovano
RS Producer: Maria Rosaria Cautilli
Talents Personal Stylist: Alessandra Facchinetti
RS Stylist Assistant: Micaela Tana
Make-Up Artist: Maddalena Brando
Hair Stylist/MUA: Orso Maria Caffi
HS/MUA Assistant: Francesca Foti
Backstage Video: Federico Terradico
Photo Assistant: Desirée Sacchiero

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