Philip Glass, intervista: «Il futuro è qui» | Rolling Stone Italia
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Philip Glass: «Il futuro è qui»

Con l'unica data italiana, uno dei più originali e influenti compositori contemporanei ha inaugurato il calendario del Festival della Bellezza. Ci siamo fatti una chiaccherata con lui, tra innovazione, stimoli creativi e la tecnologia oltre i confini geografici.

Allstar Picture Library / Alamy / IPA

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Arrivo a Verona con un caldo infernale, capisco perché il bollito è un piatto tipico. Trovo i colleghi al tavolo. Più vecchi di me. Ne sanno più di me. Uno forse è filosofo. Parla di Baudrillard. Mi avvisa: conosce Glass, l’ha già intervistato ed è metereopatico. Guardo in alto: il cielo è livido, nuvole di madreperla, il sole lucido mi acceca. Inizio a sudare. Dopo aver superato il Ponte Nuovo, costeggio il fiume sul Lungadige Teodorico, la Basilica di Santa Anastasia a sinistra scampana cinque rintocchi. Subito dopo leggo a caratteri cubitali “Museo archeologico”: Philip Glass sta dentro.

Seduto su una poltronissima di resina, dove tra qualche ora ci sarà il suo pubblico, risponde al giornalista del pranzo, che nel frattempo si è cambiato, è elegante. Non sembra più un filosofo. Intanto Maki Namekawa prova Four Movements for Two Pianos, indossa un vestito di neoprene con una fantasia tipo Mondrian.
Adesso Glass è con il suo manager, caschetto bianco, vestito verde, dettagli dorati, l’Anna Wintour dei manager. Sono nei camerini con un muro di laterizi alle spalle e la luce abbagliante prima della tempesta. Philip Glass mi raggiunge e man mano che si avvicina mi sembra più piccolo, meno totemico. Mi chiede di Cannes, del film di Godard, ma il tempo scorre devo iniziare l’intervista.

Cosa è cambiato nel mondo dell’arte da quando eri giovane?

Penso che la varietà di espressioni sia molto più diversificata rispetto a prima. Nessuno si aspetta più che tutti dipingano allo stesso modo o scrivano gli stessi libri. Ci sono tanti compositori, scrittori che riflettono diverse sfaccettature della stessa società. Qualunque artista contemporaneo è consapevole che il pubblico si sta espandendo al livello globale. Gli americani non scrivono più per gli americani, né gli italiani si rivolgono più soltanto agli italiani. Internet è l’attuale interlocutore: ecco dove sta il pubblico globale. Questo cambiamento radicale è avvenuto nel giro degli ultimi cinque anni, è davvero recente. Di conseguenza per il sistema dell’arte sono cambiate le premesse, come gli artisti riescono a mantenersi, come si paga il loro lavoro, come vivono delle loro opere. E se i metodi consueti non funzionano più, si sono create alternative, nuove possibilità. Per esempio poiché molti governi non sono più disponibili a sostenere i propri artisti, inclusa spesso l’Europa, questi sono costretti a diventare imprenditori di sé stessi e pensare da soli a come trovare fonti economiche per il proprio sostentamento. In questo senso devo osservare che i giovani di 17, 18, 20 anni hanno idee davvero molto interessanti e non stanno facendo niente di quello che faccio io o che facevano i miei nonni o i miei genitori. Hanno una concezione del lavoro totalmente innovativa.

John Waters una volta disse che Baltimora è la città più “strampalata” del mondo.

(Il volto impassibile di Glass si trasforma in una grassa risata, nda) Ehi, io ci sono cresciuto a Baltimora.

Quali caratteristiche pensi di avere ereditato dalla tua città natale, appunto?

L’ho lasciata quando ero molto giovane. Me ne sono andato a gambe levate raggiunti i quindici anni per continuare gli studi all’università di Chicago. All’epoca a Baltimora vigeva il tipico conservatorismo del Sud, anche se devo ammettere che sotto aspetti come l’educazione era più progressista di tante altre città e vantava università come il John Hopkins Peabody Institute, la mia scuola di musica, un centro d’eccellenza se cercavi un conservatorio. A dominare comunque erano le idee della white working class e ovviamente non mi riconoscevo in quella mentalità. So che adesso le cose sono cambiate tanto, ma non ho mai avuto intenzione di restare a Baltimora. Quello che mi fa ridere è che mia figlia ha lasciato New York per andare a scuola lì e io le ho chiesto “che cavolo stai facendo? Me ne sono andato per salvare anche chi sarebbe venuto dopo di me e tu ci stai infognando di nuovo?” Ma anche lei ha voluto frequentare il John Hopkins, che è rimasto uno dei migliori istituti in quella categoria, mi ha detto “la scuola sta lì, devo tornarci per forza”. Adesso ce ne sono molte altre di quel livello. Quindi le cose sono parecchio cambiate da quando ero bambino io.

Quanto è stata importante la tua formazione alla Juilliard (una delle scuole d’arte più prestigiose al mondo, nda)?

Bene, ho imparato parecchie cose. La prima è che non sarei diventato insegnante. I miei professori erano compositori, l’insegnamento per loro era un ripiego e si vedeva. Non era quello che volevano dalla vita, lo facevano solo per sopravvivere e potevi toccare con mano la loro frustrazione. A quei tempi la Juilliard era quel genere di posto dove è difficilissimo superare i test d’ingresso, ma laurearsi è un gioco da ragazzi. Mi ricordo che gli studenti erano davvero dotati e tra di loro il livello culturale era piuttosto alto, molte volte superava quello dei docenti. Lì ho incontrato persone che ancora frequento.

Cosa puoi raccontare del tuo rapporto col cinema. Hai più volte parlato dell’influenza di Cocteau (in particolare l’Orfeo). Il primo incontro che ho avuto io con la tua musica, per esempio, è stato con Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, non certo quello che si può definire narrazione classica…

Ho fatto cinque film con Godfrey Reggio, anzi sei. È una persona estremamente creativa, non era per niente interessato a girare film commerciali, malgrado ciò sono diventati davvero popolari. Sai che quando suono dal vivo con l’orchestra quelle colonne sonore raggiungo anche 50,000 spettatori? Quel tipo di approvazione Godfrey non se la sarebbe mai aspettata. Le giovani generazioni, quelli con meno di 20/25 anni, vedono quel film e per loro ha significato. Reggio è stato un visionario e mi ritengo fortunato ad aver lavorato con lui. Mi ricordo che l’unica condizione che mi ha dato era che ogni pezzo composto dovesse essere completamente diverso dal precedente. E se ascolti Koyaanisqatsi (1982), Powaqqatsi (1988), Naqoyqatsi (2002), Anima Mundi (1992), Evidence (1995), Visitors (2013), ti accorgi di quanto divergono. L’ha voluto lui e io ne sono contento.

Per arrivare agli ultimi film (Elena, Leviathan), come hai incontrato Andrey Svyagintsev?

Chi? Ah, no, in realtà non ho quasi nessuna connessione con lui. Qualcuno mi ha detto, Philip devi vedere quei film, hanno usato la tua musica. Si tratta di alcuni brani tratti dalla Terza sinfonia e dall’Akhnaten e arrivano solo alla fine del film, nel Leviathan sui titoli di coda, devi vedere l’intero film per arrivarci (Glass ride, nda). Ti confesso che mi è piaciuto l’utilizzo che ne hanno fatto. Ho chiamato il mio editore per chiedergli se ne sapeva qualcosa e lui mi ha confermato che avevano siglato e saldato un regolare contratto per averle, quindi per me andava bene così. Il film era anche interessante e in un certo senso mi sono sorpreso che i russi ne avessero concesso la distribuzione perché ci andava pesante con la critica dei brogli economici, non ti pare? Non ho mai incontrato il regista, me l’ha detto un mio amico che dovevo assolutamente vederlo.

E adesso con quale regista ti piacerebbe lavorare?

Con chiunque ha voglia di lavorare con me. Certo non proprio con tutti, perché non c’è il tempo materiale. Ma per me non c’è alcuna limitazione in questo senso.

Quale è la maggiore conquista alla tua età in termini di conoscenza umana? E cosa invece stai ancora cercando?

Stavo parlando di questo proprio stamattina. Bene, la risposta non riguarda solo me, ma tutti. Trovo straordinario il cambiamento al livello globale conseguente allo sviluppo di Internet: come pubblico globale siamo in grado di interagire con gente di qualsiasi paese. Possiamo dire che pur mantenendo l’identità etnica e geografica, oggi abbiamo la possibilità di confrontarci direttamente con gente in India o in Cina a beneficio di una vera cultura globale, una circostanza senza precedenti nella storia. Senza dubbio per me si tratta di una grande conquista per l’umanità.

Che differenza c’è per te da quando componi rispetto a quando sei in concerto e nel corso del tempo il rapporto con queste due attività è cambiato?

Mi pagano di più per comporre adesso (pausa lunga e risata, nda). L’unico problema è che mi manca il pubblico. Che è la cosa più bella di quando suono. Stasera volterò lo sguardo in platea e vedrò il teatro pieno di persone che vogliono ascoltarmi. Quando scrivo per un film, se non vedo il film, non incontrerò mai il pubblico ed anche in quel caso non vedrò la platea, perché non sono io sullo schermo. Il transfer fra il creatore e la sua audience avviene soltanto durante quel momento esatto che coincide con l’esecuzione dal vivo. Tuttavia alcune delle migliori idee le ho avute quando ero da solo di fronte allo spartito. Penso che ognuna di queste attività ha le sue qualità distintive quindi.

Potresti nominare dei giovani artisti che trovi interessanti in qualsiasi campo delle arti?

Non mi sento di darti una risposta definita, perché non credo di avere una visione complessiva che mi permetta di dare un giudizio specifico. Quel che ti posso dire è che la presenza delle donne come creative, registe, scrittrici è stato determinante negli ultimi anni. Adesso, se vedo che in un’orchestra almeno un terzo non sono presenze femminili penso che manca qualcosa. Il vero cambiamento è il contributo sempre più consistente delle donne nel mondo dell’arte. Ammiro la loro capacità, la loro ricchezza e un certo modo di prendere le cose sul serio. Questo è il più grande rinnovamento che ho visto in tutta la mia vita. Ed è un fatto concreto e irreversibile.

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