Pharrell Williams: il mago del pop | Rolling Stone Italia
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Pharrell Williams: il mago del pop

È nei film che guardate, nelle canzoni che fischiettate, nello stile che imitate. Ha la cura del sarto, la passione dell’autodidatta, il tocco di re Mida. Ecco come un rapper di provincia è diventato il fenomeno dell’anno

Pharrell Williams nella foto di G-Star RAW

Pharrell Williams nella foto di G-Star RAW

Pharrell non canta sotto la doccia. Medita. Colpa della sinestesia, che è una figura retorica, ma anche un disturbo percettivo: «Avverto suoni e colori insieme. Ogni suono ha il suo: in un accordo di Stevie Wonder vedo gialli, arancioni e marroni combinati. Sotto la doccia, il suono è bloccato, perciò la mia mente è libera di vagare».

NON C’È RISPETTO PER IL GROOVE. È TUTTO SINTETICO, SENZA PALLE

A Pharrell Williams capita in aereo, sotto la doccia, sott’acqua. Nel caso di Happy, doccia. In un momento duro: aveva presentato nove diverse canzoni ai produttori di Cattivissimo Me 2 ed erano state tutte bocciate. Tutte, per nove volte. _PDF-web-RS-1-1«Avevo toccato il fondo, ero aperto al massimo, perché non mi era rimasta nemmeno un’idea», ha detto a Oprah Winfrey. Aveva registrato gli accordi iniziali, un ostinato in Fa7 ripetuto su organetto da chiesa. E le parole sono arrivate, sotto la doccia. Sarà per quello che non voglion dir niente, penserete voi, che ancora dovete capire cosa significhi esser felici “come una stanza senza soffitto”.

La fate facile. Troppo, perché Happy non è solo la versione soul e aggiornata di Se sei felice e tu lo sai batti le mani. È il paradosso di un artista e produttore hip hop, che dopo 20 anni passati tra strada, palco e studio di registrazione si ritrova in cima al mondo grazie a una canzone che – nonostante le fnezze nascoste – è pur sempre la colonna sonora di un cartone animato per bambini. Brano più scaricato da iTunes in 90 Paesi (su 121), ha trascinato G I R L – due spazi tra le lettere, Pharrell ci tiene – al primo posto nelle classifiche degli album più venduti in 75 Paesi.

«È stato un tiro da centrocampo», dice il re Mida dai modi gentili, che prima di essere rapper di successo, designer di moda, sposo di una modella, sofisticato collezionista d’arte, produttore di hit per star da Snoop Dogg a Jennifer Lopez, padre di un figlio che gli perdoniamo di aver chiamato Rocket Ayer, era solo un ragazzo che girava in motorino. Non a Manhattan o a Venice Beach, ma sulle coste provinciali della Virginia, dove tutti sfrecciano in macchina. «Uno scooter nero: era la mia Rolls Royce», dice lui. O, meglio, «era la cosa migliore che poteva comprarsi, dopo un’auto», dice Sheldon Haley, che ha cantato con lui nei N*E*R*D. «Veniva a prendermi con ’sto scooter nero e passavamo ore in giro per la città», ricorda Pusha T – uno dei migliori talenti hip hop, che deve la carriera e il soprannome a Pharrell, che lo spinse a rappare durante una giornata in studio.

Lo sfigato che passava i pomeriggi tra skate, motorino, molte chiacchiere e troppi Chicken McNuggets era anche un batterista eccezionale. «La marching band era la mia vita», racconta Pharrell, «eravamo favolosi. L’insegnante ci aveva detto: “Suonate quello che volete, basta che prima lo scriviate su uno spartito”, e noi stavamo ore a scrivere ritmi».

Pharrell Williams è cresciuto con la musica, ma non quella di casa sua: suo padre, imbianchino e tuttofare, e sua madre, insegnante, erano spesso fuori a lavorare. A lui badava la nonna. Pharrell è figlio della sua terra e la sua musica è quella del suo quartiere: «Sapevo di essere diverso e sapevo di amare la musica. Nelle sere d’estate giravo in bici, mentre i grandi lavavano le auto. Sentivo il suono delle loro autoradio: da un cortile mi arrivava Luther Vandross, da un altro Stevie Wonder, da un altro ancora Rufus & Coco. È così che mi sono formato: la musica era così reale per me, così concreta. Era dappertutto».

Pharrell Williams canta “Happy” dal vivo al Saturday Night Live:

Non sottovalutate la nonna: è grazie a lei che oggi la Rete straborda di filmati di persone che ballano Happy nel loro comune – il fenomeno “We are happy from…”, che in Italia è arrivato fino a Mesagne (Brindisi) e Mongrassano (Cosenza). «Scoprì di avere un cancro quando io avevo 15 anni», ha raccontato Pharrell alla Cbs, «e mi disse: “Ami le percussioni. Ma perché non impari a suonarla davvero, ’sta batteria?”». Lo segnalò per un programma estivo per i talenti di Virginia Beach, l’Old Donation Center for the Gifted and Talented. È dove Pharrell avrebbe incontrato l’insegnante di musica di cui si parlava poco fa, il signor Warren. E poi la signora Warren, il signor Edwards e la signora Sharps. Vanno detti tutti, perché sono tutti importanti: «Togli questi nomi dalla mia vita e ti resta quello che sarei potuto diventare con un po’ di sforzo: un insegnante di arte».

Volevamo solo mostrare ciò che amavamo fare. Era la metà degli anni ’80, non eravamo a New York o L.A., nessuno pensava di diventare famoso.

Invece, in quel laboratorio estivo per talenti Pharrell incontra Chad Hugo: «Entro, pronto a studiare la batteria, mi giro e c’è Chad che suona il sax. Lo guardo. “Ehy, ciao. Facciamo una band?”». Erano iniziati i Neptunes, un gruppo R&B «che non ha funzionato perché eravamo troppo strani, almeno per quegli anni», dice Pharrell, «Chad è un genio e a me piaceva tanto imparare da lui. Andavo a casa sua, perché aveva le tastiere per fare le basi. A forza di suonare abbiamo deciso di portare la nostra musica in pubblico. Volevamo solo mostrare alla gente quello che amavamo fare. Voglio dire, era la metà degli anni ’80, non eravamo a New York o L.A., nessuno pensava di diventare famoso»

Il video di “She Wants To Move” dei N*E*R*D:

N.E.R.D. - She Wants To Move

Infatti i Neptunes non li avete mai sentiti. Ma avrete sentito le hit che hanno prodotto per altri, anni dopo: I’m A Slave 4 U di Britney Spears (2001), Hot in Herre di Nelly (2002), I Just Wanna Love U (Give It 2 Me) di Jay-Z (2000), il primo album solista di Justin Timberlake, il rilancio a metà anni 2000 di Snoop Dogg. Il meglio dei Neptunes era finito nei N*E*R*D (No one Ever Really Dies, “nessuno muore mai davvero”), un progetto parallelo che avrebbe portato Pharrell e Hugo in tour per il mondo e tra le hit in rotazione su radio e tv – senza troppa gloria, s’intende.

I due avevano un’etichetta loro, la Star Trak Entertainment, con cui si misero a produrre il primo disco solista di Pharrell. Lui non era più il batterista canterino che si occupava dei pattern ritmici: trovava la melodia, scriveva i testi, era insomma pronto per firmare un disco da solo. Lo fece, caricandolo di pretese e di aspettative, e ne uscì un pasticcio: «In My Mind non è venuto come volevo e per troppo tempo ne ho dato la colpa a chiunque tranne che a me», ha detto Pharrell. C’erano dei singoli carini – Can I Have It Like That con Gwen Stefani, Number One con Kanye West – ma il prodotto, nel complesso, non andava oltre l’ordinario. Niente di indimenticabile. «Mancava qualcosa. L’ho capito tornando ad ascoltare le canzoni di Stevie Wonder e quelle degli Steely Dan: loro erano determinati, avevano uno scopo, un obiettivo, cantavano davvero a proposito di qualcosa», ha detto Pharrell quattro mesi fa, commentando il flop del suo album del 2006.

Pharrell Williams canta “Can I Have It Like That” con Gwen Stefani:

Pharrell Williams ft. Gwen Stefani-Can I Have It Like That live

È una dichiarazione in pieno stile Pharrell Williams. Perché l’icona hip hop dal volto affilato che non invecchia mai sa che nel lavoro servono la cura del sarto e la follia dell’alchimista. Ma, come chiunque venga dalla strada, sa bene cos’è il rispetto. Non può dimenticare da dove viene. È la cifra dei suoi ultimi anni, quelli delle interviste in prima serata: suoni già sentiti per dire cose nuove. Non è una rievocazione, perché non c’è nostalgia. È energia, qui ed ora. È cultura musicale, soprattutto nera, masticata una seconda volta. E fatta come si deve: «La gente non ha più rispetto per il groove: tutto è così sintetico, senza palle», ha detto nel video in cui racconta perché è diventato la voce di Get Lucky, il ritorno trionfale dei Daft Punk.

Pharrell Williams canta “Get Lucky” con i Daft Punk e Stevie Wonder Grammy Awards 2014:

Prima di incontrare il duo francese, Pharrell Williams aveva già fatto quello che per molti è solo un sogno: aveva prodotto artisti come Madonna, Beyoncé, Jennifer Lopez, Shakira, Justin Timberlake. Rapper come Snoop Dogg o rocker come gli Hives. Nel campo della moda non mancavano soddisfazioni: cofondatore di alcuni marchi, punto di riferimento per uno stile tra il preppy, il giapponese e l’hip hop degli anni ’80, aveva disegnato gioielli per Louis Vuitton e fondato un collettivo creativo in cui raccogliere il suo mondo, i am OTHER. Scultore, mezzo artista, mezza icona fashion. «Sono sempre stato estroverso», spiega lui, «se pensi a colori, ti vesti a colori». I media filippini non avevano ancora diffuso la notizia (falsa) che Pharrell fosse filippino – sintomo di indiscussa notorietà – ma era un volto noto, tra quelli che stanno sul sedile di dietro.

«Ho visto i due robot a un party di Madonna», racconta lui, «mi hanno detto: “Stiamo lavorando a una cosa e non riusciamo a toglierle gli occhi di dosso”. Gli ho risposto: “Okay, sentite: qualunque sia la cosa a cui state lavorando, sappiate che io ci sono. Per qualsiasi cosa. Se volete che vi suoni il tamburello suonerò il tamburello». Stacco. Parigi, qualche settimana dopo, nello studio dei Daft Punk: «Gli ho fatto sentire quello a cui stavo lavorando e gli ho detto: “Sapete, sto facendo delle cose un po’ alla Nile Rodgers”», ricorda Pharrell, «si sono guardati in un modo strano. Mi han detto: “Okay, questo è quello su cui vorremmo che lavorassi”. È partito il pezzo. Ci suonava Nile Rodgers, quello vero. Pazzesco, sulle due sponde dell’Atlantico eravamo arrivati allo stesso punto, come negli anni magici in cui era la vitalità della musica a metter insieme le persone».

Get Lucky, per Pharrell Williams, è una nuova dimensione: «È oltre il 3D, è dentro di te. Non ti servono amfetamine per questa musica, è così… viva». È il 2013. Aprile. Esce il video di Get Lucky: Pharrell Williams e Nile Rodgers, la leggenda degli Chic, suonano su sfondo nero insieme ai Daft Punk. È la celebrazione della cultura disco, è il trionfo del nuovo Pharrell, che canta e non rappa – «perché c’è differenza tra avere 30 anni e averne 40», spiegherà a Complex Magazine, «ne ho 40 e non rappo».

Pharrell Williams nel video di “Sing” di Ed Sheeran:

Ed Sheeran - Sing [Official Music Video]

I Daft Punk si negano a chiunque, perciò il volto di Pharrell finisce dappertutto. Prova anche lui a negarsi, quando può. Ogni tanto ci riesce. Non è una creatura da party seriali. Fa tutto insieme alla moglie, compagna di sempre, la modella Helen Lasichanh. Si fa schermo col suo staff, che ha voluto quasi solo di donne. In fondo resta il nerd intenditore di fast food – uno capace di spiazzarti dicendo che «le patatine di McDonald’s sono ancora “pretty powerful”».

Si occupa di tutto: organizza mostre, studia profumi, suona la batteria nella colonna sonora dell’Uomo d’acciaio. Produce Blurred Lines di Robin Thicke («e-e-eh»), quello che col coraggio della banalità dovremmo chiamare «un tormentone della scorsa estate» – Pharrell compare anche nel video, che però ricorderete per la performance delle giovani Emily, Elle e Jessi. Collabora con Moncler e Adidas.

S’inventa Bionic Yarn, un progetto che trasforma in fibra tessile i rifiuti di plastica che galleggiano negli oceani. «È il futuro della moda», dice Pharrell a Rolling Stone, che l’ha incontrato a New York, dove stava presentando i frutti di una collaborazione con G-Star: una linea di jeans fatti con le fibre Bionic Yarn. «Tutto è diventato troppo veloce, tutto è vuoto a rendere: la moda, i rapporti tra persone, tutto», dice Pharrell. «È ora di cambiare, di andare verso un futuro più responsabile, e idee come Bionic Yarn possono rendere il cambiamento del pianeta un obiettivo più facile da raggiungere».

Il video non censurato di “Blurred Lines” di Robin Thicke, con Pharrell Williams:

Robin Thicke - Blurred Lines (Unrated Version) ft. T.I., Pharrell

È il momento dell’impegno civile, della morale perché la sua vita è diventata favola. Pharrell è un guru, ma ancora non se n’è accorto. Realizza davvero che la sua vita è cambiata quando canta Get Lucky ai Grammy Awards dell’anno dopo con i Daft Punk, Nile Rodgers e l’idolo di sempre, Stevie Wonder. Persino il cappello che indossa in quella e altre occasioni – un “Mountain hat” di Vivienne Westwood – diventa una celebrità: i fan gli creano un account Twitter, viene venduto all’asta per più di 44 mila dollari. «Ero schockato, giuro. Sono felice di aver corso la maratona della mia carriera. Ma non mi aspettavo nessuna medaglia».

Questo è puro Pharrell: gratitudine, modi dimessi. Ha regalato una casa ai genitori quando è diventato qualcuno – ma quello l’avrebbe fatto anche Justin Bieber. Provate ad andare a un concerto di Pharrell: ogni pezzo è un “grazie”. «Potevo essere uno dei tanti ragazzi con il loro demo», ha detto a Oprah, «ma la gente mi ha spinto così in alto che ora posso dirvi addirittura cosa c’è oltre le nuvole». All’ultimo Coachella è stata una gran festa: ogni canzone un ospite di primo piano, ogni canzone un ringraziamento. Pharrell sul palco fa il padrone di casa. E se la ride. «Com’è essere per tutti “l’uomo Happy”?». «Ne sono grato», ha risposto lui.

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