Peter Doherty, arrendersi alla felicità: intervista | Rolling Stone Italia
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Peter Doherty: arrendersi alla felicità, a malincuore

Intervista a rocker e consorte-regista Katia DeVidas per l’uscita del documentario ‘Stranger in My Own Skin’: divismo e squallore, crack ed eroina. E poi, la volontà di cambiare e la nuova vita in Francia. «Rivedere i miei momenti peggiori non è stato piacevole»

Peter Doherty: arrendersi alla felicità, a malincuore

Peter Doherty

Foto: Ilaria Costanza

Kate Moss. La citiamo subito, così poi non ne parliamo più. È inevitabilmente la grande assente di Stranger in My Own Skin, il film documentario che racconta la caduta negli inferi e la rinascita (e la ricaduta e la ri-rinascita, e ancora e ancora in un tossico loop) di Peter Daniell Doherty, meglio conosciuto come Pete. Voce dei Libertines prima e dei Babyshambles poi, e ora di nuovo dei Libertines, idolo di un almeno un paio di generazioni, conclamato sex symbol e carne da macello per i temibili tabloid inglesi che trasformarono la spericolata relazione fra lui e la top model in un infinito tormentone scandalistico fatto di glamour e droga.

Tutto questo non trova posto nei 90 minuti che intercorrono fra i titoli di testa e quelli di coda: le malelingue diranno che la colpa è di Katia DeVidas, la regista, che oggi è anche la moglie del cantante britannico. E in un slancio di empatia, mettendo da parte il dovere di cronaca, la si potrebbe anche capire: Kate Moss è probabilmente il mostro finale di tutte le ex. Un tantinello ingombrante. Ma i due diretti interessati rimandato le critiche al mittente.

Peter Doherty: Non eravamo sposati quando mi stava riprendendo.
Katia DeVidas: Non stavamo neanche insieme.
Doherty: La nostra relazione è iniziata a telecamere spente.
DeVidas: Per me non si tratta di un film su moglie e marito. Adesso lo siamo e abbiamo una bambina, ma non è un film su moglie e marito.
Doherty: E devo dire che è venuto parecchio bene, mi domando come sarebbe uscito fuori se non ci fossimo messi assieme. Avresti fatto lo stesso il film?
DeVidas: Se non ci fossimo messi assieme? Certo.

La coppia è passata da Firenze, ospite del Festival dei Popoli, per presentare in anteprima nazionale il documentario. Già bocciato dalla critica inglese, che non è mai stata tenera con Pete, il film si rivela un impietoso sguardo sulle debolezze dell’uomo, mettendo a nudo la rockstar nei suoi momenti peggiori, alternando nel montaggio scene di divismo assoluto ad altre di tetra solitudine, fama e disagio, successo e spleen nichilista. Si tratta di un lavoro imponente dal punto di vista documentaristico, iniziato nel 2006, con oltre 200 ore di girato. Durante la post produzione i due diventano una coppia di fatto: si amano, si sposano, hanno una bambina e si trasferiscono in Normandia, dove Pete sviluppa una sfrenata passione per i formaggi locali. Vivono in una specie di bolla d’amore dove non c’è spazio per le critiche.

DeVidas: In Spagna la proiezione del film è andata molto bene. Spero che anche qui le persone saranno carine nei nostri confronti. Se il film non vi piace, non venite a dircelo.
Doherty: Al momento le reazioni sono state calorose, ma arriverà il momento in cui qualcuno dirà «ma che cazzo è sta roba?», ci stiamo preparando per quello. Non voglio essere negativo, ma succederà. Se dovessi vedere questo film da fuori, devo dire che Katia ha lavorato duramente per realizzarlo, impiegandoci anni, trovando il giusto team per l’editing video e del suono e lì è stato il momento in cui è iniziato il vero lavoro. Per cui adesso mi sento come se stessi osservando Katia lasciare libero il proprio prezioso lavoro per offrirlo al mondo.
DeVidas: Sono in pace con me stessa, ho fatto il mio lavoro, e se alle persone non piacerà, pazienza. Lo amo, ne vado orgogliosa e questo è quanto.

Quindi siete diventati una coppia durante il montaggio e la post produzione?
Doherty: Esattamente. C’è una scena sul finire del film dove ci prendiamo le mani l’uno con l’altra. Quello è il momento.

Tua moglie è dietro la telecamera e quindi non si vede mai. Se tu potessi puntare la telecamera su di lei e diventarne il regista, che film ne salterebbe fuori?
Doherty: Beh, potrei darti mille risposte meravigliose ma la verità è che Katia è talmente una perfezionista che probabilmente mi chiederebbe di rigirare ogni scena, migliorando luce o punto di vista. (lei ride): devi fare un campo largo, poi la sfumatura, qui servirebbe una simmetria…

E tu le daresti retta?
Doherty: Assolutamente sì. La seguirei fino alla fine delle colline toscane. Che però non penso siano poi tanto lontane da qui, giusto? (Ride)

Confermo.
Doherty: Allora la seguirei fino alla Corsica! In una giornata di tempesta! Mmm… quindi, qual era la domanda?

Se potessi fare un girare la telecamera e riprendere tua moglie, che film otterresti?
Doherty: È una bella domanda. Quindi, in tutta onestà, sono particolarmente affascinato dalla storia della famiglia di Katia, sia da parte di madre che di padre. Storie davvero affascinanti. Senza scendere troppo nei dettagli, ne sono parecchio incuriosito: penso che farei un dramma storico, riportando in vita alcuni di questi personaggi del passato, compresa Charlotte Corday, la donna che uccise Marat nella sua vasca da bagno durante la rivoluzione francese. Non vedi quanto le somiglia? (Le prende il viso e lo gira di profilo) È la sua replica esatta, era la sua pro-pro-zia-cugina-di-secondo grado-madre-sorella. Non è forse vero?
DeVidas: Sì, sangue della mia famiglia.
Doherty: Quindi racconterei la storia dei DeVida, cambiando il mélange della Normandia, inserendo del sangue vichingo e magari la storia della regina Caterina. Poi farei un fast forward al giorno d’oggi, dove Katia potrebbe essere posseduta dallo spirito di qualche suo antenato. Domandandosi poi chi siano i suoi veri nemici e da quale parte combattere. Non potrebbe essere un documentario, non sarei in grado di farlo. Dovei aggiungerci un po’ di pepe. Lei invece dice sempre «non mi interessa se dobbiamo girare 100 ore di filmato per ottenere un minuto di bellezza». Io potrei girare un minuto di Katia ed avere 100 ore di bellezza.

Foto: Ilaria Costanzo

Se crack ed eroina rappresentano l’occhio del ciclone, nel documentario non mancano gli altri elementi della tempesta Doherty. Il rapporto complicato col padre, militare e severissimo («dovevo avere sempre le scarpe lucide e non rispondergli mai») e quello intermittente con Carl Barat, l’altra metà dei Libertines. La prigione, la solitudine e l’eterna sensazione di essere perennemente fuori posto ed al di sotto delle aspettative degli altri.

Com’è stato rivedere sul grande schermo alcuni dei tuoi momenti peggiori?
Doherty: Non bello. Spiacevole. Assolutamente scomodo, per essere sincero. A dirla tutta non amo neanche rivedere alcuni dei miei momenti migliori, non mi piace proprio rivedermi, per cui è stato triste da guardare. Però il risultato finale è potente, amo e credo in Katia e voglio che il suo film abbia successo e sono qui per supportarlo. Per cui me lo rivedrò interamente, se devo.
DeVidas: È un film da vedere una volta.

È duro da vedere a tratti.
DeVidas: Sì, non è un film pensato per essere visto e rivisto. Soprattutto quando sei il protagonista. Quindi lo abbiamo visto insieme e questa era la vita di prima. Presentata in maniera vera e onesta. E adesso possiamo andare avanti, verso il prossimo capitolo della vita.

Il momento in cui Pete Doherty si rende conto di avere un problema è durante un volo per Tokyo: i Libertines – al massimo del successo – sono attesi per un tour del Giappone. Durante la traversata transoceanica Doherty va in astinenza: la sua dipendenza da crack ed eroina, iniziata dopo l’uscita del disco di debutto, è ormai fuori controllo. Se ne accorge anche Carl Barât, che teme per il futuro della band. Inconsapevolmente, Pete ha con sé una dose, dimenticata nella custodia della chitarra: all’arrivo all’aeroporto di Narita, i cani antidroga abbaiano, ma la polizia lo lascia passare, pensando che gli animali siano nervosi a causa dei tantissimi flash dei fotografi presenti al suo arrivo. Il confronto con la realtà è solo rimandato. Da lì, il documentario e il suo protagonista precipitano verso l’abisso, con una serie di infiniti frame che mostrano – senza soluzione di continuità – occhi assenti e spenti, discorsi incoerenti, momenti di completa assenza di lucidità, aghi, cucchiaini, lacci e tutto il corollario del tossico senza speranza.

Non c’è un episodio specifico, ma una sequenza senza fine di solitudine, alienazione, ambienti assolutamente frugali e spartani, ben lontani dall’immaginario della rockstar di successo. In uno di questi, Doherty dà fuoco a quel che trova in giro, cospargendo tutto di benzina. E poi c’è la sua pelle, sempre più rovinata, marcia, invecchiata. Rari momenti di lucidità, conditi da sensi di colpa, che terminano nuovamente con l’ago. E tutta una serie di aerei che avrebbero dovuto portarlo in rehab persi per i motivi più disparati, che lo porteranno al ricovero in una clinica in Portogallo dove gli verrà inserito nello stomaco un impianto sottocutaneo per mantenere il suo livello tossicologico sotto controllo. C’è una frase nel film che sintetizza bene il suo rapporto con la droga: le catene della dipendenza sono prima troppo leggere per essere notate, poi troppo pesanti per essere spezzate. Troverà finalmente la pace solo nel 2015, dopo un ricovero forzato in una clinica in Thailandia, durato dieci mesi. È pulito da allora.

Il film, come dici tu, è brutalmente onesto. Ci sono mai stati momenti in cui avete pensato: forse sarebbe il caso di non mostrare questo o di non inserire quello? Magari nascondere qualcosa? Ci sono mai state discussioni di questo tipo?
Doherty: No, mi sono fidato della sua creatività.
DeVidas: No, e comunque Peter è sempre così, brutalmente onesto, anche coi giornalisti. Non ci sono bugie. Perché dovrei iniziare io?

Beh, non necessariamente mentire, ma nascondere o sfumare, magari.
DeVidas: Allora in quel caso diverrebbe un film ipocrita. Ti riferisci alle scene sulla dipendenza?

Sì, ovviamente.
DeVidas: Quando ho iniziato, non c’era alcuna intenzione di filmare quel tipo di scene. Ma le droghe erano talmente presenti allora, era una cosa quotidiana: mi sono accorta che non si trattava di un utilizzo ricreativo, ma di vera e propria dipendenza. Sarebbe stato clamorosamente ipocrita non mostrare certe cose e penso che attraverso la dipendenza di Peter si possa raccontare la dipendenza ad altre persone, far capire meglio questo tipo di problematica, che non viene affrontata mai e quando viene fatto è fatto in maniera molto negativa, almeno in Inghilterra. E quindi mostriamo le cose per come stanno: poi ognuno si farà la propria opinione, ma almeno sapete come stanno le cose.

Parlando dei momenti belli, quello che mi è piaciuto maggiormente è quando sei a suonare a Bruxelles, e i tuoi genitori si presentano a sorpresa sul palco.
Doherty: O mio Dio…

Tuo padre sale sul palco e canta What a Waster con te, dimostrando di conoscerne anche il testo.
Doherty: Sì.

Poi sale anche tua madre con la torta di compleanno, e fa cantare «tanti auguri» al pubblico.
Doherty: Dopo 15 anni dove non ci siamo parlati, nonostante tutto, nonostante li abbia delusi, per via della mia dipendenza… ho fatto un sacco di cose meravigliose, ma non si sono mai presentati a quei grandi concerti. Per cui, vederli comparire in un concerto qualsiasi in Belgio, e addirittura salire sul palco, cantare la canzone con me è stato molto motivante.

Cosa ricordi di quel momento?
Doherty: Beh, è stato anche molto imbarazzante. Perché amo il caos e l’anarchia, ma allo stesso tempo voglio sapere cosa mi succede attorno. E quella è veramente l’ultima cosa che mi aspettavo. Ma, nel modo più strano possibile, ci siamo riconciliati. È stato meraviglioso.

Quindi sul tuo palco ideale…
Doherty: Non c’è mio padre (ride).

Sul palco cerchi una sorta di caos controllato?
Doherty: Se dev’essere caos, che sia caos. Ma non fate uscire mia madre con una torta. Ha mostrato che coglione superficiale che sono, ma so che fra una decina di anni ripenserò a questa cosa e dirò che è stata dolcissima.

Hai fatto pace con tuo padre?
Doherty: Sì e credo che Katia abbia svolto una grossa parte in questo. È venuto al nostro matrimonio. Il fatto di vedermi sposato, anzi, il solo fatto che qualcuno volesse sposarmi, che abbiamo avuto una bimba che non è morta di stenti o di freddo, penso che adesso mi veda sotto una luce diversa. Prima ero un disgraziato.
DeVidas: Dai, ora non sei più così.

Quale pensi sia stato l’effetto di un’educazione così rigida e militare sulla tua vita e sulla tua creatività?
Doherty: Penso che mi abbia rallentato nel fare le cose, da un punto di vista umano. Per quanto riguarda la creatività, preferisco non parlare, non voglio parlare di queste cose. Credo che la creatività sia un qualcosa di innato, è tua, o ce l’hai o non ce l’hai. Forse avrei potuto iniziare a creare prima. O forse è proprio lui che mi ha reso quel che sono.
DeVidas: Ma tu hai iniziato giovanissimo! Voglio dire, quando è uscito il tuo primo disco, quanti anni avevi? Venti?
Doherty: Mmm… 23?
DeVidas: Beh, a 23 anni si è molto giovani.
Doherty: Sì, ma io mi sentivo molto vecchio.
DeVidas: Ti sentivi così?
Doherty: Mi sembrava di dover correre contro il tempo. Pensavo che il mondo stesse per esplodere.
DeVidas: Capisco, quindi pensavi: ho 23 anni, devo fare qualcosa nella mia vita altrimenti sono un perdente?
Doherty: No, non pensavo fossimo dei perdenti, questa è una cosa terribilmente americana da dire.

Il film si conclude con un annuncio: c’è tanta nuova musica in arrivo. A cosa stai lavorando?
Doherty: Tante cose, forse troppe. Abbiamo finito di registrare il nuovo disco dei Libertines, uscirà a febbraio o marzo del prossimo anno. Devo chiedere a queste persone gentili di EMI o di Virgin… non ricordo… penso sia la EMI. È uscito il nuovo singolo Run Run Run e sto lavorando al mio disco solista, ho una mia etichetta adesso e sto anche lavorando alla colonna sonora per un film francese di Xavier Beauvoir, un bravo regista che è anche il mio vicino di casa.

Doherty a Firenze. Foto: Ilaria Costanza

Oggi Pete Doherty sembra essersi lasciato i problemi alle spalle anche se anni ed anni di dipendenza hanno lasciato il segno. Al netto della sua fisicità, completamente cambiata (ed ennesimo elemento che lo ha riportato sui tabloid che non si sono risparmiati dal percurlarlo) rimane l’impressione di un equilibrio sottilissimo su cui si poggia la sua vita. Un essere umano di grande talento, ma anche fragile che vive in una specie di campo minato emozionale dove bisogna stare molto attenti a dove si mettono i piedi (le domande su Kate Moss erano state letteralmente vietate). Ma è anche un uomo che ha fatto i conti con se stesso, in maniera drastica, l’unica che conosce, e che è finalmente pronto, forse, ad abbandonarsi a sprazzi di vera felicità. Accanto a lui la DeVidas, moglie, amante, compagna, regista, mentore, manager, guardia del corpo e fondamentale elemento di equilibrio. È lei che lo incoraggia continuamente ed è sempre lei che lo incalza quando i ricordi vacillano.

Com’è la vita in Francia?
Doherty: Tranquilla. Beh, era tranquilla, poi è arrivata una tempesta pazzesca. C’è la bambina, ci sono i cani, coltivo verdure…

E mangi formaggio, immagino.
Doherty: Un sacco di formaggio! Decisamente troppo.

L’ho sentito dire. Mi dici alcuni dei tuoi preferiti?
Doherty: Pont-l’Évêque. Come si chiama quello col blu…
DeVidas: Roquefort!
Doherty: Sì, Roquefort.

Quello puzzone.
Doherty: Più puzza e meglio è.
DeVidas: Ci sono un sacco di mucche in Normandia dove stiamo noi.
Doherty: Sono mucche felici.

Mucche felici?
Doherty: Sì, le mucche felici fanno il formaggio buono.

E tu? Sei felice oggi?
Doherty: Oggi, sì.

Sembri felice.
Doherty: Sì, perché no. E tu sei felice? La felicità è complicata.

Penso che la felicità sia sopravvalutata. Non sei d’accordo?
Doherty: Non saprei risponderti, son sempre stato bravo ad avere stile mentre facevo schifo. Immagino di dover venire a patti con la felicità, lentamente, a malincuore. Ma quando hai la bimba fra le braccia, che ti sorride, è difficile essere infelice, ti lasci trasportare e provi ad essere felice anche tu, che cazzo.

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