Ho incontrato Vinicio Capossela una notte di fine novembre, in un locale che fino agli anni ’60 era una casa di tolleranza, nel centro di Bruxelles. Il Goupil Le Fol sta aperto fino a tardi, e dal jukebox cantano Jacques Brel, Claude Nougaro ed altri lieti cliché. Vinicio aveva appena finito la sua tappa belga del tour Conciati per le feste a La Madeleine. Arrivavano trappiste al tavolo e si parlava di Emir Kusturica, Mastro Carfagna e di principi senza titoli nobiliari. Impacciato e incapace di trovare argomenti di conversazione – terrore dei silenzi che non nascondono niente – gli stavo raccontando che ero all’ultimo anno di un dottorato sull’autocratizzazione dei Balcani. Lui mi ha guardato sorridendo, con occhio luccicante: «Io invece sto studiando le sirene». Dopo otto mesi, da quel luccichio negli occhi – lampo di squama, ritaglio di coda evanescente tra le onde – è nato un tour.
Vinicio, come stai?
Beh, sono qui, frastornato dagli allarmi e dai canti delle sirene. Come un asino in mezzo alla fiera.
Un tour in tre movimenti, tre formazioni e tre scalette: il Mito, le Emergenze, e la Frontiera. Un fil rouge: le sirene. Quando nasce questa tue fascinazione?
Dal grande Tim Buckley. Tantissimi anni fa, grazie alla mia passione per Jeff, ho scoperto Tim e la sua canzone più struggente, Song to the Siren, per l’appunto.
Le sirene ti parlano di te. Ma tutti parlano delle sirene. Da Kafka a Pascoli. Passando per Buckley a Joyce. Anche Capossela.
Quando parliamo di sirene, almeno io, penso non soltanto alle sirene mitologiche, ma anche alle sirene degli apparecchi pensati per dare allarmi acustici. La sirena antifurto, antiaereo, la sirena delle forze dell’ordine, delle ambulanze. Tutti i suoni laceranti che interrompono il corso abituale delle nostre esistenze e ci segnalano che da qualche parte, per qualcuno, c’è una deviazione in corso. Sta cambiando molto in fretta il tipo di strada che si era intrapresa. Naturalmente se abbiamo i tappi nelle orecchie non avvertiamo il senso di allarme, oppure lo neutralizziamo. Quel senso di allarme che magari non riguarda sempre esattamente noi, da vicinissimo, ma di cui comunque possiamo sentire l’eco. Dei fatti di violenza che si impongono e che accadono nel mondo. È interessante la metafora di Ulisse e dei suoi naviganti. Lui ascolta il canto delle sirene, ma loro no, perché così possono portare in salvo la barca. Continuano a fare il loro lavoro, ecco. Un po’ quello che ci succede tutti i giorni. Noi siamo così presi dalle nostre vite che le deviazioni, gli allarmi, non sono tanto contemplati. A meno che non ci arrivino veramente vicinissimi, restano un po’ in sottofondo. Ed è quella la cera che bisogna togliersi dalle orecchie.
Marinai, classi subalterne a cui non è permessa la tentazione. Ulisse che se la può permettere, ha la precauzione di farsi legare: vuole ascoltare ma senza darsi la possibilità di lasciarsi andare. Echi di dialettica dell’illuminismo?
È proprio a quel passaggio di Adorno e Horkheimer a cui mi rifacevo. È molto interessante il discorso che applicano ad Ulisse, che da un lato si può permettere di ascoltare il canto, essendo re, proprietario terriero e avendo chi lavora per lui. Allo stesso tempo quella posizione, quelle responsabilità, quell’essere comunque parte della macchina della produzione e della ricchezza, non gli permettono di fare nulla di quel canto. È un canto che non traduce niente, è un canto che non incide sulla realtà. Lo si ascolta da legati in modo da non cedervi. E però allo stesso tempo lo si ascolta, quindi lo si riduce ad intrattenimento, che è quello che spesso riguarda proprio l’attività del canto.
Un canto, quello delle sirene, che guarda inevitabilmente e melanconicamente al passato.
Il vero pericolo del canto delle sirene è proprio il fatto che quando si accede a questo incantesimo ritroviamo tutte le parti di noi stessi o le persone – le voci degli assenti – che abbiamo perduto. La potenza del loro canto sta nel ricomporre un’unità nella nostra vita, che è sempre e comunque un’esperienza di continua separazione. La conoscenza che gli si attribuisce – per me – non è ciò che non si conosce, ma la conoscenza di sé stessi e il superamento delle frammentazioni. Quello che rende mortale del canto della sirena è il fatto di essere un canto incessante. Quindi una volta che si sta in questo ascolto, non è possibile fare altro. Cessa il desiderio di andare oltre. Credo che le ossa biancheggianti sui loro scogli siano ossa di morti beati. Le sirene omeriche non hanno modo di dare la morte se non per il fatto che chi le ascolta si lascia morire. Ma si lascia morire perché sta così bene. Ha trovato un’esperienza di grazia, che come tale – come anche per la musica – la si può reggere per breve tempo. Se fosse incessante, se fosse continua, ci porterebbe probabilmente alla morte, perché non crea la necessità di andare oltre. Preclude il futuro.
Come si affronta quindi la pericolosa seduzione delle sirene? C’è la possibilità di lasciarsi andare, c’è quella di mettersi i tappi nelle orecchie, e poi ce n’è anche una terza, quella di Orfeo: suonare o cantare più forte.
Nella società odierna, le forme di seduzioni sono tante. È tutto un modello molto seduttivo e individualizzante, e i rapporti tra individui si basano molto sulla seduzione, anche quella da due soldi. Su questo tipo di seduzione sicuramente fa molto bene cantare più forte, quindi costruirsi qualcosa di proprio, che vada oltre il riempimento di modelli seduttivi che non ci appartengono. Darsi una forza, una personalità, una consistenza per quel tuo stesso canto, affinché sia più forte di quello che si subisce. Se penso alle sirene degli allarmi, allora mi viene da dire che invece che subire la paura, cantare più forte possa essere la nostra possibilità vitale, anche di partecipazione attiva alle cose. Io non mi impaurisco quando canto più forte e canto qualcosa che mi appartiene, in cui credo, in cui esisto.

Nel tour in corso Capossela è accompagnato da Daniela Savoldi al violoncello, Alessandro “Asso” Stefana alle chitarre, Raffaele Tiseo al violino e Vincenzo Vasi a theremin, percussioni «e diavolerie varie». Foto: Elettra Mallaby
Qui forse stiamo uscendo dalla prima parte del tour sul Mito, quella appena conclusa, e stiamo entrando nella seconda, quella delle Emergenze. Due grandi città di mare a fine luglio, Genova e Trieste, e un lago, Garda.
Quello delle sirene è un tema ampissimo, pieno di simbolismi. Il primo è proprio quello delle emergenze: le sirene che lacerano. È una fase di grande violenza quella che abbiamo di fronte. Quello che sta succedendo a Gaza, ma non solo. L’imposizione dei rapporti di forza. La conseguenza della violenza sono appunto sirene di ogni genere, anche quelle della repressione delle forze dell’ordine. Se penso al nuovo cosiddetto decreto sicurezza, per cui si finisce arrestati per manifestare sulla tangenziale. Ma i simbolismi delle sirene vanno oltre, Da Omero ai pompieri, come titolava Meri Lao – grande studiosa di sirene e di tango, che purtroppo abbiamo perso qualche anno fa – e sono molti attuali. C’è una psicoterapeuta con cui ho preso contatto, Iolanda Stocchi, che da anni cura, fa terapia, usando anche il silenzio delle sirene. Se il maschile non ascolta il canto. Quindi la questione del rifiuto, la gestione delle emozioni, il rapporto tra maschile e femminile. Temi molto profondi, complessi e attualissimi. Un altro simbolismo molto importante è quello dell’essere ibridi. L’essere creature ibride, la cui tragedia non è essere due cose, ma non esserne probabilmente nessuna. Tra l’altro, in tutte le storie sulle sirene, a partire dal film di Walt Disney, la perdita della propria natura è sempre in funzione dell’umano. In tutte queste storie non c’è mai un principe che acquista la coda per rendere possibile un’unione. Ritorna sempre nel simbolismo delle sirene questa faccenda dell’essere ibridi, della scelta di dover rinunciare a qualcosa. Invece di acquistare qualcosa in più. A quali parti di noi dobbiamo rinunciare per potere vivere in relazione con l’altro. Nikos Katzanzakis propone una bellissima risposta: «Lasciamo la nostra porta aperta al peccato. Non chiudiamo le nostre orecchie al canto delle sirene, e non ci leghiamo, presi dalla paura alla prua di una grande idea. Neanche abbandoniamo la nave per perderci a baciare le sirene. Prendiamo le sirene con noi e viaggiamo tutti insieme. Questa compagni è la nuova ascesi».
La condanna delle creature a metà, simbolo di transizione e di passaggio da uno stato all’altro: il compromesso è sempre al ribasso per le sirene?
Ci sono due eccezioni, almeno che io conosco. La prima è una bella fiaba di Oscar Wilde, Il pescatore e la sua anima. Un pescatore si innamora di una sirena e rinuncia alla sua natura umana per prendere quella del popolo del mare. La seconda è un libriccino di Céline, che nemmeno si trova più. È un capolavoro, Scandalo negli abissi, dove la sirenetta – Pryntyl – è la vedette del corpo di ballo delle sirene. È proprio una riproduzione del ménage borghese: c’è Nettunone, il vecchio borghese ricco che corteggia la giovane e bellissima vedette. Sua moglie, che tiene molto alla sua bellezza ma per cui gli anni iniziano ad essere inclementi. Lui che fa tutti i favori a Pryntyl, però di nascosto, perché la moglie è gelosa e la fa punire. Pryntyl viene mandata tra il popolo degli uomini, dove finisce nella taverna, si imputtanisce, e scopre che c’è tutta questa fatuità dei sentimenti e delle cose del mondo. Però non perde mai, alla fine, la sua purezza e la sua natura. E quando ritorna nel mare, torna a cantare. Questo mi fa sempre pensare a una cosa che mi disse una volta una bambina di otto anni: «Le sirene cantano in sirenese». Quindi secondo me il sirenese non solo è la lingua della seduzione, ma anche la lingua dell’innocenza.
La stessa innocenza sirenica della nonna di Luna, in Giura di Stefano Benni, che la osserva sghignazzando a 80 metri di profondità, con la coda da sirena e una pipa subacquea.
Sirene che non sempre e necessariamente sono seduttrici, né sempre e necessariamente cantano. È molto interessante la lettura di Kafka ne Il silenzio delle sirene, con le sirene che alla fine si suicidano. E anche qui c’è un simbolismo importante: quello dell’abdicazione all’intrattenimento.
Ulisse che nella versione kafkiana diventa seduttore, con le sirene – sedotte – che cercano di trattenere il suo sguardo il più a lungo possibile.
Che è poi quello che fa chiunque faccia parte del mondo dello spettacolo: cercare di trattenere lo sguardo il più a lungo possibile. Io sto facendo la stessa fine delle sirene…
Un tour sulle sirene con l’obiettivo di non fare la fine delle sirene di Kafka. Tra tutte le sirene emergenziali-artificiali che hai menzionato però, non hai citato quelle delle navi.
Anche quella è una bella lacerazione. In passato ho parlato con gli emigranti che negli anni ’50 e ’60 andava negli Stati Uniti o in America del Sud, cambiando la propria vita su queste navi. Una cosa che mi ricordo chiaramente è lo struggimento che ricordavano quando sentivano, dal ponte, la sirena della partenza.
La migrazione, oltrepassare una Frontiera: il terzo movimento del tour, tra Sicilia e Sardegna.
Il concetto di frontiera è sempre un concetto di limite, di andare oltre. La frontiera spesso è quella più estrema, quella tra la vita e la morte. La verità ultima del canto di sirena, della poesia tutta, è proprio questo guardare nello specchio della morte, che come diceva Meri Lao è la cosa più rimossa. «Le distoglitrici, specchio di ogni possibile metamorfosi, continuano a parlare di morte a una civiltà che non vuole parlarne». Questa linea di separazione tra le nostri parti. La frontiera dello sguardo, lo sguardo che mostrifica chi si mostra. La sirena può essere vista come mostro se il tuo sguardo la veste di mostruosità. Poi c’è anche un fatto musicale della terza tappa: l’ultima parte del tour Sirene è anche l’espressione di una frontiera come suono. Due chitarre, un organo, un repertorio più evocativo di un paesaggio interiore di frontiera.
L’ultimo scoglio delle Sirene di Capossela: il 4 agosto ad Agrigento, nella Valle dei Templi. La cera la distribuite all’ingresso o occorre venire già legati?
C’è un episodio citato sempre da Meri Lao. Una variante in cui Odisseo è tornato sano e salvo in patria, ma si sono salvati anche i suoi compagni, a differenza del racconto omerico. Come per una specie di cena di classe, ogni anno lui – re di Itaca, nella reggia – organizza un bel banchetto con tutti i suoi naviganti compagni di viaggio, per raccontarsi un po’ tutte le loro avventure. C’è un invitato però che alla cena non si presenta mai, arrabbiatissimo con il padrone di casa. All’ennesima assenza, Odisseo lo va a trovare e gli chiede «Perchè ce l’hai tanto con me?». E quello risponde «Ma come, veramente non te ne rendi conto? Non non ti viene in mente perché?». Odisseo: «No, non capisco cosa ti ho fatto». «Tu ci hai privato del canto delle sirene. Non ce l’hai fatto ascoltare. L’avventura più grande di tutte te la sei tenuta solo per te». Odisseo torna a quel punto sulla difensiva. «Ma io l’ho fatto per il tuo bene», gli dice, «altrimenti non saremmo mai tornati a casa». «Ma cosa mi frega» gli ha risposto il navigante «di essere tornato a casa! A me interessava sentire le sirene, sentirle e perdermi nel loro canto».













