Rolling Stone Italia

Per Gemitaiz la concorrenza non esiste

Perché non è intercambiabile, non segue le mode della scena italiana, non ha paura di mostrarsi più introspettivo. Lo dimostra il nuovo album ‘Eclissi’, numero uno in classifica

Foto: Alessia Gunawan

Ascoltando l’ultimo album di Gemitaiz, Eclissi, sembra di non ascoltare neanche più un disco rap. Il suo sound attuale, come quello di una manciata di altri artisti italiani (tra cui i suoi amici Venerus e Mace, non a caso) travalica completamente i generi, fino a inventarne uno che fino a qualche mese fa non esisteva in Italia, ma neanche all’estero. È ancora in forma embrionale, ma è lì, c’è, si sente. E apre la porta a scenari finora inediti.

«Non vogliamo assomigliare a nessuno, infatti», conferma il diretto interessato, che nel 2023 festeggerà i vent’anni dagli esordi, e che quest’anno festeggia i dieci anni della label indipendente Tanta Roba a cui è storicamente legato da sempre. «Quando mi chiedono che tipo di musica facciamo in questa o in quella canzone non saprei rispondere, quindi forse tanto vale definirla bella musica. Qualcuno lo ha chiamato pop di qualità, e mi sta più che bene».

Eclissi è un lavoro particolarmente contemplativo, profondo, adulto: sicuramente diverso da come se lo aspettavano molti dei fan più giovani, abituati a esaltarsi con i suoi trick da rapper iper tecnico (e da produttore molto eclettico). Un lavoro decisamente introspettivo: «Introspettivo ci sta, come definizione», ride lui. «Meglio di triste! È dall’inizio che tutti mi chiedono di fare più pezzi conscious, stavolta li ho accontentati. Non mi aspettavo neanche io che sarebbe successo, però».

Non era una cosa voluta, quindi?
No. Come spesso accade nei miei progetti, il primo pezzo che ho selezionato per il disco è la prima traccia della tracklist, Adesso. Inizialmente l’avevo fatta per QVC9, ma riascoltandola ho pensato che forse per un mixtape era quasi sprecata, e ho deciso di tenerla per il disco. Da lì ho capito che il filone sarebbe stato quello, anche perché la pandemia ha avuto quell’effetto un po’ su tutti. Che poi non è che io me la sia vissuta male: ma avendo una relazione a distanza, in un periodo in cui c’erano un sacco di restrizioni, non è stato facilissimo. Anche quando io e la mia ragazza riuscivamo a vederci, eravamo costretti a rimanere chiusi in casa, non riuscivamo a vivercela con serenità: è stata un po’ oppressiva come situazione, e tutto questo si è riversato nei pezzi.

Tra l’altro, quando è scoppiata la pandemia eri pronto per il tuo primo tour nei palazzetti con MadMan, rimandato all’autunno 2022.
Sono ancora prontissimo (ride). Devo dire che però in quel caso non mi sono lamentato troppo, perché c’era chi aveva perso più di me. Tra i miei colleghi Salmo, ad esempio, che ha dovuto rimandare un tour mondiale e un concerto a San Siro. Per non parlare di chi invece si trovava davvero nella merda: non era certo il caso che piangessi io, che avevo semplicemente voglia di suonare in giro e non potevo.

Però è una situazione che ti ha comunque scatenato molte riflessioni, mi par di capire.
Io già normalmente sono medaglia d’oro di overthinking, figurati in queste circostanze! Contemporaneamente, però, la pandemia mi ha spronato a produrre tantissimo: se fossi stato più libero, dubito che sarei mai riuscito a fare due singoli scritti e interamente prodotti da me. Avendo un sacco di tempo per stare da solo, l’ho sfruttato: mi sono messo sotto a fare musica. Sia per i fatti miei – per fortuna sono una persona che sta bene anche da sola – che con gli altri. Con i musicisti con cui lavoro abbiamo fatto un paio di session durante la pandemia, una delle quali è diventata una specie di Covid session, a un certo punto, perché ci siamo contagiati a vicenda e un bel giorno ci siamo svegliati tutti e otto con la febbre… Per fortuna eravamo tutti nella stessa casa all’Argentario e non stavamo malissimo, quindi siamo riusciti a suonare anche in quelle condizioni.

Foto: Alessia Gunawan

Tornando ad Adesso, in quel pezzo scrivi: “La gente pensa sia facile / costruirsi da sola la lapide”. Spesso c’è una sorta di fascinazione per i comportamenti autodistruttivi altrui, o per le altrui disgrazie…
Certo, in quella barra c’è anche quel sottointeso. Sicuramente siamo noi stessi a scegliere di rovinarci la vita, a volte, perché non è che qualcuno ci imponga le scelte o i comportamenti, ma allo stesso tempo non è sempre facile giustificarli davanti al mondo. E poi c’è anche un altro significato: cercavo di sottolineare che nei miei dischi e nella mia musica scelgo tutto da solo, cosa che la rende molto personale, ma anche molto rischiosa, perché a volte essere così indipendente è un bel casino.

Nell’album sembra tornare anche spesso il tema del personaggio vs la persona, di Gemitaiz (per come lo percepiscono) vs Davide (per come ti percepisci tu). Come la vivi?
Non ho mai fatto grandi distinzioni tra Davide e Gemitaiz. Su certe cose questo mi penalizza: penso di essere l’unico rapper in Italia che non ha qualcuno che gli sta appresso tutto il giorno, tipo badante. Non ho un assistente personale: se devo andare a suonare al Primo Maggio, prendo un taxi da casa mia e vado a piazza San Giovanni, semplicemente. Quando mi fermano decine di persone per una foto, me la devo smarcare io. Glielo dico proprio: «Ne faccio una con tutti quanti insieme e poi mi lasciate stare, okay? Non costringetemi ad assumere un un energumeno che mi faccia da scudo tra me e gli altri».

Tu hai scelto consapevolmente di non averlo, l’energumeno.
Sì, perché in generale queste cose mi mettono molto a disagio. Figurati che ancora non ho neanche qualcuno che mi pulisce casa: lo so che è una stronzata, è un lavoro come un altro, ma l’idea di avere una persona che fa le cose per me mi fa sentire un po’ menomato. Finché posso, preferisco gestirmi le cose a modo mio: quando non si potrà più, o quando non mi andrà più, troverò un’altra soluzione, ovviamente.

Fai parte di un ristretto gruppo di rapper che non sembra dover temere troppo la concorrenza: i ragazzi della generazione successiva alla tua hanno spesso un successo molto meno longevo, sembra che nel mercato siano abbastanza intercambiabili. Fuori uno, dentro l’altro.
Beh, diciamo che sta alle persone cogliere l’opportunità di sfondare e fare qualcosa di diverso per distinguersi. Se non la cogli, vieni sostituito da chi lo ha fatto meglio di te. Ma credo che non sia una cosa negativa: meglio che ci siano troppi volti nuovi che nessun volto nuovo, anche se oggi ce ne sono veramente così tanti che perfino io spesso non so chi sono. Difficilmente ascolto rap italiano, a parte qualche canzone dei soliti noti: Coez, Marra, Gué. In generale mi piace la roba più contaminata, tipo l’album di Mace o quello di Liberato. Nel rap americano invece spazio molto, da Conway the Machine a Jack Harlow.

Eclissi è musicalmente molto contaminato, in effetti. E quando collabori con un cantante, come Neffa e Venerus, siete talmente ben amalgamati che a volte si fa fatica a capire quando finiscono loro e inizi tu, o viceversa…
È super arrangiato, sì. Anche per questo sono solo 13 tracce, abbiamo lavorato tantissimo a ognuna di loro. Mi piace essere più melodico, ogni tanto, ma solo quando mi viene spontaneo. Ogni volta, il pezzo con Venerus, ad esempio è nato nel corso di una session. In generale amo molto la musica cantata: negli ultimi mesi ero in fissa con Charlotte Day Wilson, un’artista canadese che fa contemporary R&B, ma poi mi sento davvero di tutto, dall’ultimo di The Weeknd al mixtape di FKA Twigs passando per gli Oasis e Nick Drake.

È anche un album che contiene un sacco di canzoni d’amore, sia malinconiche che felici. Da dove nasce l’esigenza di inserirne così tante?
Non me ne ero neanche reso conto finché non me l’hanno detto gli altri. Non ho trovato una spiegazione, però: sono uscite, tutto lì. Evidentemente era quello che volevo scrivere, a livello inconscio. Sono sicuro che sia un po’ destabilizzante per la gente.

Forse tanti altri rapper a un certo punto vorrebbero scrivere canzoni simili, ma non lo fanno per paura di destabilizzare i fan, appunto, o di esporsi troppo…
Li capisco, ma personalmente non mi pongo troppo il problema. Ho fatto tantissimi altri album e mixtape, quello che dovevo fare come rapper l’ho già fatto. E anche nei miei featuring recenti faccio soprattutto delle strofe rap senza compromessi, di quelle con mille rime. Per i miei dischi, però, ora la priorità è trovare qualcosa che non risulti monotono a me per primo: voglio poter riascoltare le mie canzoni e scoprire che mi piacciono. È normale che la visione cambi, con il tempo.

Anche la selezione del primo singolo, l’intimista title track, va un po’ controcorrente. Come mai questa scelta?
Mi è sembrata l’unica possibile. Ai tempi non avevo neanche ancora chiuso l’album, ma mi risultava già chiarissimo che non avrei potuto fare in altro modo. So che il testo non ha un mood da singolo, ma il sound mi piaceva talmente tanto che non ci ho pensato due volte.

È una canzone che può avere più letture, e una delle tante possibili è che parli di depressione. È effettivamente così?
Depressione non credo, anche perché da depresso in senso stretto non credo che riuscirei a scrivere canzoni. Può essere un brano cupo e introspettivo, quello sì. Ma a volte anche io sono così.

A proposito di riflessioni: quando mesi fa Baby Gang e Neima Ezza erano stati arrestati (accusati di una rapina e poi scagionati per “profili di lacunosità e debolezza” nella ricostruzione dell’accusa), eri stato uno dei pochi rapper noti a prendere posizione nei loro confronti.
Avevo scritto che, al di là di tutto, esultare per l’arresto di qualcuno è la cosa meno hip hop del mondo. Secondo me quelli che si sono esposti sull’argomento sono quelli che ci sono passati, da una situazione simile (nel 2014 Gemitaiz è stato arrestato per detenzione di marijuana ai fini di spaccio: ha sempre sostenuto che si trattasse di detenzione per uso personale, nda). Quando ero stato arrestato ricordo che un altro rapper abbastanza conosciuto nell’ambiente, una persona apparentemente molto parca e precisa, mi aveva insultato su Twitter. Non aveva capito l’assurdità del fatto che mi stavano rinchiudendo perché mi faccio le canne, forse. Da quando mi è successo, ci tengo a precisare con chi mi segue che non è il massimo festeggiare quando incarcerano un tizio, anche quando ti sta sul cazzo. Soprattutto se in teoria ascolti musica rap.

Il pubblico del rap italiano a volte sembra più forcaiolo di alcuni nostri governanti. Ne parlavamo con Fabri Fibra qualche settimana fa, in relazione a Propaganda, un singolo inequivocabilmente politico per molti versi. Quando gli ho chiesto se non aveva paura di inimicarsi i fan che votano Salvini e Meloni, mi ha risposto che quelli schierati a destra «non ascoltano certo artisti come Gemitaiz»…
E invece… (ride) Può capitare che anche i miei fan non capiscano fino in fondo quello che cerco di dire, ma non è compito mio spiegarglielo, alla fine. Se ci sono delle cose palesemente sbagliate è giusto dirlo, ma alla fine ciascuno percepisce la musica come preferisce. Fabri è sempre bravissimo ad avere più registri: chi non è tanto preso da quel tipo di messaggio ricorda solo le rime a effetto, il ritornello, il video. E poi c’è un pubblico più adulto e consapevole che capisce il pezzo fino in fondo.

È tutto nelle mani dell’ascoltatore, quindi? Perché nell’industria discografica si parla sempre più spesso di «musica funzionale»: funzionale a generare numeri su Spotify, ad essere trasmessa dalle radio d’estate…
Guarda, nel mio caso l’unica volta che sono riuscito a imbroccare un vero singolo radiofonico è stato per caso. Il mio record in classifica è ancora Senza di me, un pezzo estratto da un mixtape senza compromessi come QVC vol. 8, tra l’altro. Se ci pensi è assurdo, ma è la dimostrazione del fatto che se una cosa funziona, lo fa da sé, senza troppe paranoie dietro. Nell’album c’è un pezzo che secondo me in radio ci sarebbe stato bene, ma quando l’ho detto agli altri mi hanno subito stroncato…

E quale sarebbe?
Pornstar, con Sfera Ebbasta. È quel tipo di reggaeton che potrebbe piacere. Ne ho parlato anche con lui, ed è stato il primo a dirmi che la vedeva molto difficile. E io: «Perché parlo di scopare?». «No, mi sa che anche se cambi quella barra non c’è speranza». È sicuramente più esperto di me, quindi mi fido. Vabbè, ‘sticazzi! Tanto certe cose hanno anche un valore relativo, ormai. L’altro giorno ero al supermercato e c’erano due cassiere che parlavano. La prima diceva alla seconda: «Ma come, non conosci Coez? Ieri sono stata al concerto, è stato pazzesco!». A quel concerto c’ero pure io, ho cantato un pezzo sul palco con lui. Ero lì davanti a lei in attesa di pagare, e non ha manco capito chi ero, nonostante io sia uno fisicamente abbastanza riconoscibile, come dire. Lì capisci quanto quell’esposizione ti apre un tipo di popolarità diversa, che però è quasi legata a una sorta di riconoscimento facciale: se vai regolarmente in radio e in tv, anche chi di solito non ascolta musica sa chi sei.

Restando in tema di live, sei pronto a ripartire.
Sì, quest’estate abbiamo già 10 date in programma. È una bella paranoia, dopo tre anni fermo, perché il timore è un po’ quello di avere perso le skills che ti eri costruito con gli anni, però ovviamente sono felicissimo. In queste settimane sto riprendendo pian piano l’abitudine andando ospite nei concerti degli altri: Coez, Gianni Bismark, Mace al concertone del Primo Maggio.

Un’esperienza strana, immagino, quella del concertone, soprattutto dopo le polemiche seguite al taglio dell’esibizione di Mace.
Guarda, io al concertone quest’anno non ho voluto andare da solista nonostante me l’avessero proposto, perché dopo l’ultima volta – attesa spasmodica, ansia da performance tv, poi alla fine ti intervistano e nel sottopancia scrivono Sfera Ebbasta – facevo anche a meno. Però me l’ha chiesto Mace, e a lui non avrei mai detto di no. Ma già la scelta della scaletta ti fa capire tanto di come vanno le cose in Italia: uno come lui, che ha un singolo quattro volte platino ed è in radio da un anno, e che aveva una super band con tanto di sitar e modulari, suona per ultimo. È folle! In prima e in seconda serata ha suonato gente infinitamente meno nota e valida. Senza offesa, ma proprio non aveva senso. La musica è stata usata per veicolare il messaggio del Primo Maggio, e non viceversa.

Iscriviti