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Pensati gringo: i Selton incontrano il mito Ney Matogrosso

Il trio torna alle origini rifacendo un evergreen con un grande della música popular brasileira che si sente «più a disagio in quest’epoca che in quella della dittatura». Intervista a quattro: fare le cose a proprio modo e sentirsi sempre alieni, o “gringo” come dicono in Brasile

Foto: Simone Biavati (1), Pedro Gomes/Redferns (2)

Si sono presi tutto il tempo necessario per concentrarsi sulla musica in un periodo in cui il mercato spinge a condividere sempre nuovi contenuti, altrimenti «sembra che smetti di esistere». Alla fine i Selton stanno per pubblicare dopo tre anni un disco che in parte è un ritorno alle origini e in parte li descrive come stranieri nella terra in cui sono nati, il Brasile.

Si chiama Gringo Vol. 1 e nell’avvicinamento al 10 maggio, data di uscita, hanno pubblicato il brano attorno al quale ruota tutto il lavoro in studio: Sangue latino. Si tratta della versione italo-brasiliana dell’evergreen dei Secos & Molhados del 1973, che ora come allora vanta alla voce uno dei migliori cantanti della storia della musica popolare brasiliana, Ney Matogrosso. Una collaborazione prestigiosa che il trio formato da Daniel Plentz, Eduardo Stein Dechtiar e Ramiro Levy ci ha spiegato in questa intervista alla quale, a un certo punto, si è unito l’artista diventato all’epoca della dittatura militare brasiliana un punto di riferimento della controcultura.

In Sangue latino così come in tutto il disco ritorna un concetto: essere gringo. Che cosa significa?
Ramiro Levy: È una parola che ci piace molto perché ha tanti significati. In Brasile la si usa per descrivere qualcuno o qualcosa di difficile classificazione, che sembra arrivare da un altro pianeta. È gringo chi viene da fuori. Il bar degli italiani? È il bar dei gringo. Anche le musiche diverse dal solito si dice che suonano gringo.

Voi vi siete mai sentiti gringo, per esempio quando siete arrivati in Italia?
Ramiro: Parte tutto da là. Quando siamo arrivati eravamo un po’ dei gringo e lo stesso vale quando siamo tornati in Brasile da “stranieri”. L’Italia è poi diventata la nostra casa grazie agli alieni che abbiamo conosciuto qui, come Enzo Jannacci o Bruno Munari. Erano milanesi, ma si comportavano da gringo nel loro stesso paese. Il loro, come il nostro, è uno sguardo gringo che permette di vedere le cose da fuori.

Da Enzo Jannacci, a Max Pezzali, Daniele Silvestri, Malika Ayane e Willie Peyote, non vi mancano collaborazioni con artisti italiani. E avete dedicato a Pasolini una canzone. Vi sentite un ponte fra Italia e Brasile?
Ramiro: Il Consolato italiano in Brasile ci ha invitato a un tour per celebrare i 150 anni dell’immigrazione italiana e quindi, anche se non l’abbiamo cercato, ci sembra di fare da ponte fra le due culture.
Daniel Plentz: Forse perché ognuno di noi viene da un mix di culture e ci siamo incontrati per fare la musica che ci piace, senza pensare ad altro.

Siete stati definiti un gruppo pop tropicalista. Vi ritrovate in questa definizione?
Ramiro: È sempre stato difficile definirci, anche per noi. Anzi, non abbiamo mai cercato una definizione, cerchiamo semmai di trovare una strada per far sì che la musica sia in costante evoluzione. È una ricerca continua. Tornando a pop tropicalista, può sembrare una definizione semplicistica, ma in realtà coglie appieno l’intenzione di assorbire tante influenze e poi sputarle fuori come qualcosa di nuovo. È una sintesi, ma ci sembra azzeccata.

Sangue latino rappresenta un ritorno alle origini?
Ramiro: È un brano originale brasiliano degli anni ’70 con cui siamo cresciuti, quindi sì. C’è poi una seconda lettura, meno immediata, che è quella della parola “latino” che è la stessa in italiano e in portoghese. Italia e Brasile sono mondi molto legati. Ci fa piacere farlo notare attraverso una canzone.

Ma perché proprio Sangue latino?
Eduardo Stein Dechtiar: Una notte Ramiro ha sognato che la stavamo suonando. Abbiamo provato a farla appena svegli, ha acquisito per tutti un significato molto forte.
Ramiro: Perché richiama le nostre origini e nel contempo la voglia di costante trasformazione. La sua influenza è stata così forte che alla fine è diventato il pilastro di tutto disco, che è nato attorno a questo pezzo.

La vostra storia musicale inizia nel 2006 con la partecipazione al programma Italo spagnolo di Fabio Volo, registrato a Barcellona. In quell’occasione siete stati notati dal produttore di MTV Italia, Gaetano Cappa, che vi ha invitati nel nostro Paese per registrare un album. Da allora il mondo è cambiato, fra social e musica in streaming. Voi come vivete la trasformazione?
Ramiro: Ci viene in mente Rubber Soul dei Beatles. Ci sentiamo un po’ così, anime di gomma. Di fronte ai cambiamenti, l’importante è rimanere malleabili. Resta invece immutabile da 15 anni l’idea di fare musica per il piacere di farla, non per raggiungere chissà quali risultati.

Non a caso vi siete presi tutto il tempo necessario per fare questo disco.
Ramiro: La tecnologia permette di far musica in modo più semplice e immediato e questo ha tanti risvolti positivi. Però siamo arrivati al punto che bisogna fare uscire qualcosa a tutti i costi, altrimenti sembra quasi che smetti di esistere. Noi invece abbiamo deciso di concentrarci sulla musica che vogliamo fare, chiedendoci come risultare ancora rilevanti. Alla fine siamo arrivati alla conclusione che è necessario sentirci liberi togliendoci di dosso ogni pressione.

Come si mette mano a un evergreen come Sangue latino?
Ramiro: È stato molto naturale. Di solito ci facciamo un sacco di paranoie quando ci avviciniamo a dei classici, invece con Sangue latino ci siamo lasciati trasportare e già dalle prime versioni ci ha convinti. Facciamo sempre molte demo, almeno dieci per ogni brano, c’è tanta tanta ricerca intorno alla nostra musica.
Daniel: E poi ci sentivamo leggeri nell’affrontare questa sfida perché non avevamo idea che Ney Matogrosso l’avrebbe cantata con noi (ridono).

Che cosa ha detto quando ha ascoltato per la prima volta la vostra versione?
Ramiro: Intanto ci ha detto di sì, che era la cosa più importante. Per il resto, ci ha fatto i complimenti e si è scusato perché ha cantato un po’ più di quanto era in programma. Ma per noi avrebbe potuto andare avanti, è stata una benedizione collaborare con lui.

Farete un mini tour in Brasile, a Rio De Janeiro, San Paolo e Porto Alegre. La prima data in Italia sarà al MI Ami il 25 maggio.
Ramiro: Con noi sul palco ci saranno altre due musiciste, Giulia Formica, batterista, sassofonista e cantante, e Daniela Mornati alle tastiere e alle voci. Ci è piaciuto aggiungere nel disco un po’ di voci femminili per arricchire queste sonorità e le portiamo anche dal vivo. In Brasile saranno loro due le gringo.

Nella call irrompe una voce inconfondibile che esclama: «Bom dia!». È Ney Matogrosso, che con un ampio sorriso ci spiega perché ha deciso di collaborare con i Selton e cosa rappresenta per lui Sangue latino dopo tanti anni.

Ney, che cosa ti ha convinto a dire sì alla collaborazione?
Ney Matogrosso: Mi è sembrata interessante e mi ha colpito che una band brasiliana ne avesse realizzata una versione in italiano. Non è così comune.

Qual è il tuo rapporto con l’Italia?
Ney: Ci sono stato alcune volte. Ricordo una bella serata a Milano in un festival latinoamericano e un concerto ad Ascoli Piceno. Ci sono molti cantanti e artisti italiani che in Brasile hanno avuto successo e che ho apprezzato. Ma sono rimasto a Datemi un martello di Rita Pavone, che è della mia epoca.

Che consiglio ti senti di dare ai Selton?
Ney: Di suonare il più possibile, di girare tanto e di non fermarsi mai perché è in questo modo che le cose succedono. Anch’io coi Secos & Molhados ho suonato ovunque, dalle case private ai ristoranti, finché non è arrivato il successo. La gavetta è ancora fondamentale.

Loro mi hanno spiegato che rispetto alla musica fluida hanno un rapporto da “anime di gomma”, mentre a te, che hai vissuto anche un’epoca precedente, che effetto fa?
Ney: La musica in streaming non mi piace per niente, mi dà fastidio. È troppo compressa. Quando sento i miei brani non riconosco la voce. Non è il modo migliore di ascoltare musica.

“Bruciando contratti e tradendo i miei riti”, come cantate in Sangue latino, sembra il manifesto di un musicista chiamato a vivere e difendere la propria arte. È ancora valido?
Ney: Paradossalmente oggi sento che le parole che canto in Sangue latino sono ancora più importanti, almeno per me. All’epoca ero giovane e non avevo vissuto quello che cantavo. Per questo oggi, quando la sento, sembra appartenermi ancora di più. Quel pensiero è assolutamente personale. Ognuno ha i propri contratti da stracciare e i propri modi di reinventarsi. È una rivoluzione interiore, un metodo personale di farsi strada.

Sei stato un punto di riferimento nella cultura popolare brasiliana durante gli anni difficili della dittatura militare. Credi che la musica possa davvero cambiare il mondo?
Ney: È molto difficile che possa farlo oggi. Ti dirò, è più difficile oggi di quando c’era la dittatura. Quel che facevamo era così inaspettato che siamo riusciti a cambiare tante cose, anche se a un certo punto volevano ammazzarmi e hanno minacciato di farlo. Oggi invece è tutto così noioso che per assurdo mi sento più a disagio nella contemporaneità che quel periodo così complicato. La musica può cambiare il mondo di oggi? Sicuramente può influire sulle persone e ci sono periodi nei quali può essere più incisiva. E quello che stiamo vivendo non è uno di questi.

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