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Paul McCartney, il primo hipster. L’intervista esclusiva di Rolling Stone

«Alla fine l’età è solo un numero, lo puoi ignorare. Io lo faccio. E finché non interferisce con quello che faccio». Parola dell’ex Beatle che, a 74 anni, è in tour per il mondo
Paul McCartney - Foto di Max Vadukul

Paul McCartney - Foto di Max Vadukul

Paul McCartney suona la chitarra seduto su un divano nel suo ufficio di Londra. Canticchia tra sé mentre tenta di ricordare una melodia della sua adolescenza una delle primissime canzoni, mai registrata, che ha scritto con il suo amico John Lennon. «Era una cosa tipo…», suona un ritmo rockabilly e attacca a voce piena: “Dicevano che il nostro amore era solo divertimento / Il giorno in cui è iniziata la nostra amicizia / Non riesco a vedere la luna piena / Non c’è mai stata / Perché il nostro amore era solo divertimento”. «Si intitolava Just Fun», annuncia fiero, «mi ricordo che ho scritto il testo su un quaderno dei compiti che portavo sempre con me, e nell’angolo in alto a destra ho scritto: “Composta da Lennon e McCartney”. «Un inizio umile», ammette, «abbiamo iniziato così, e da lì siamo andati avanti».

È un momento straordinario della sua vita e Paul McCartney, 74 anni, al momento impegnato in un tour nelle arene e negli stadi in America, non rimane mai troppo a lungo senza suonare. Nel corso di due interviste, la prima a Londra e la seconda una settimana dopo a Philadelphia nel backstage di un concerto, McCartney inizia spesso a cantare quando deve sottolineare qualcosa: fa gli accordi di chitarra di un’altra delle sue prime canzoni, accenna una strofa di What’d I Say di Ray Charles o imita la voce di Mick Jagger in uno dei primi concerti dei Rolling Stones. A Philadelphia fa anche l’imitazione di John Lennon che canta una canzone di Gene Vincent durante il primo tour dei Beatles ad Amburgo. «Mi ha sempre affascinato l’idea di esibirmi davanti al pubblico», dice McCartney a Philadelphia. «Fin dall’inizio ho cercato di capire: “Qual è il modo migliore per rimanere fedeli a se stessi e ottenere anche l’approvazione della gente?». Indossa jeans e una maglietta a maniche corte blu, ed è seduto con i piedi nudi appoggiati su un tavolino. Il suo camerino non ha porta, è chiuso solo da una tenda. Per annunciarsi, chi viene a trovarlo deve suonare un campanaccio rosso piazzato sul tavolo vicino all’ingresso perché, ci tiene a sottolineare Paul: «Non si può bussare a una tenda».
Ha appena finito di fare un soundcheck che è stato un vero e proprio concerto: 12 canzoni, la maggior parte delle quali non verranno eseguite dal vivo stasera, tra cui I’ll Follow the Sun dei Beatles e Ram On, una rarità del suo repertorio solista del 1971. È in tour con la band con cui suona ormai da 15 anni, i chitarristi Rusty Anderson e Brian Day, il tastierista Paul “Wix” Wickens e il batterista Abe Laboriel Jr.. Sono passati esattamente 50 anni da quell’estate in cui lui, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr decisero di non fare più concerti: «Ne avevamo abbastanza di suonare su palchi allagati dalla pioggia con impianti audio schifosi», dice a proposito dell’ultimo tour, che è terminato al Candlestick Park nell’agosto del 1966. Il periodo folle degli esordi dei Beatles è stato celebrato da Ron Howard nel documentario The Beatles: Eight Days a Week, The Touring Years e da un album The Beatles: Live at the Hollywood Bowl che contiene canzoni remixate del ’64 e del ’65 (rivelazione: le note di copertina le ho scritte io, nda). McCartney ha anche pubblicato Pure McCartney, una raccolta di pezzi solisti e con gli Wings. Il suo tour finirà in ottobre al Desert Trip, il festival in California in cui suonerà insieme a vecchi amici, tra cui Bob Dylan, Rolling Stones e Neil Young.
«Rock da fossili, ma sarà divertente», ride McCartney. «Devo assolutamente chiamare Neil e chiedergli: “Che ne pensi, amico?”».
Nel suo ufficio di Londra, McCartney è circondato dalla sua storia, dai memorabilia dei Beatles e degli Wings a un vecchio jukebox pieno di 78 giri di Fats Domino, Wanda Jackson ed Elvis Presley, ma quando parla di musica usa sempre il tempo presente. Parla della sua recente collaborazione con Kanye West e dice che sta «cercando qualche nuova idea» per i testi del suo prossimo album. «Posso scrivere qualsiasi cosa, sono pieno di idee».
I Beatles però sono sempre vicini. Sono un punto di riferimento e un ricordo sempre vivo: «Mi è piaciuto parlare con te», mi dice alla fine di uno dei nostri incontri. Poi mi ricorda una volta in cui ha incontrato John Lennon, qualche anno dopo lo scioglimento dei Beatles: «Mi ha abbracciato. È stato emozionante, perché di solito non lo faceva mai, poi mi ha detto: “È bello avere un contatto fisico”. Non l’ho mai dimenticato. È bello avere un contatto fisico».

Paul McCartney fotografato dalla moglie Linda quando vivevano nella loro fattoria in Scozia. È lì che nacque l’album Ram

Arrivato a questo punto della tua vita perché esibirti è ancora così fondamentale per te?
Questa idea della piccola grande band mi piace. È la base stessa della musica che amiamo, è l’essenza di Nashville, dei club di Liverpool e di Amburgo. Una delle gioie più grandi è che quando facciamo l’inchino alla fine del concerto per ringraziare il pubblico siamo solo noi cinque. Ho anche imparato delle lezioni importanti, ero terrorizzato dall’idea di fare degli errori e invece scopri che va tutto bene, il pubblico apprezza quello che facciamo.

Qual è stato l’ultimo errore che hai fatto sul palco?
Non me lo ricordo, ma a Parigi ho cominciato Penny Lane dalla seconda strofa invece che dalla prima. Dovevo cantare: “A Penny Lane c’è un barbiere che mette in mostra le fotografie”, ma ho sbagliato. Allora ho pensato: “Ok, scambio le due strofe. Faccio la seconda, poi la prima e poi andiamo al ritornello”. La band giustamente ha pensato: “Ha saltato la prima strofa, quindi andiamo subito al ritornello”. È stato un disastro, ho dovuto fermarmi: “Stop, stop, stop! Abbiamo fatto un casino, ricominciamo dall’inizio”. Il pubblico è impazzito. Una cara amica che non c’è più, Cilla Black, mi ha detto: «Quella parte è stata bellissima, lo fai ogni sera?”.

Da ragazzino sentivi l’esigenza di intrattenere gli altri?
Credo di sì, se fai musica è difficile che non ti interessi se alla gente piace. Anzi, mi sorprende che ci siano persone a cui non interessa, che non hanno il desiderio di piacere agli altri. Qualcuno lo penserà davvero, ma per il resto, secondo me, è solo una facciata. Come quella strofa di Hey Jude in cui dico che chi fa l’indifferente e rende il suo mondo più freddo è uno stupido. Nei Beatles ero io quello che spesso finiva per trascinare gli altri, e credo di aver fatto un gran bel lavoro. Nessuno avrebbe mai alzato il culo dalle loro ville fuori città per venire in centro e fare Let It Be. Ok, il film è venuto fuori un po’ strano, ma il disco è buono. Molte delle cose che abbiamo fatto ad Amburgo sono state istigate da me. Mi ricordo che suonavamo in un locale che era sempre vuoto. C’era un cartello con scritto: “Birra, 1,50 marchi”, gli studenti entravano e dicevano: “Oooh, troppo caro”, e se ne andavano da qualche altra parte dove la birra costava meno. Dovevamo darci da fare. Il titolare del locale ci diceva sempre: “Mach schau!”, che vuol dire: “Fate lo show!”. Suonavamo sempre Dancing in the Street di Gene Vincent, e John era quello che cantava la strofa “Gonna dance in the street tonight! Hey yeah, everybody! C’mon, c’mon!” e riusciva a trascinare dentro gli studenti. A quel punto ci dicevamo: “Ora che sono qui, gli facciamo sentire le nostre canzoni”. E gli piacevano.

Com’è oggi la dinamica nella band? C’è qualcuno che si oppone a quello che dici?
Non funziona così, quelli erano i Beatles. Con i Wings succedeva meno, adesso tutti sanno che questa è la mia band. Per trovare un equilibrio, alle prove dico sempre chiaramente come stanno le cose. A volte non ho voglia di fare qualcosa e loro mi dicono: “Dobbiamo farlo, funzionerà”.

Per esempio?
Suonare in sequenza Golden Slumbers e The End. È stata dura e io ero pigro. Rusty ha suggerito Day Tripper, ma io non volevo farla, perché la parte di basso è molto difficile, come anche quella di Being for the Benefit of Mr.Kite. Queste erano le due canzoni che non volevo fare, ma i ragazzi hanno insistito. Allo stesso tempo sono un dittatore, ma non è un problema per nessuno. Almeno credo (ride). In fondo, siamo stati insieme più anni dei Beatles e degli Wings, le cose funzionano bene. E credo che continuiamo a migliorare perché cerchiamo la semplicità.

Ti immagini ancora a fare tour a 80 anni? Un tempo l’idea di farlo a 40 sembrava…
Inimmaginabile e inopportuna. Pensa che quando avevo 17 anni tra i compagni di classe di John alla scuola d’arte c’era uno che ne aveva 24 e a me dispiaceva per lui. Ero veramente triste per lui (ride), per noi era vecchio! Una volta Doris Day mi ha detto: “L’età è un’illusione”. Gliel’ho ricordato recentemente mentre le facevo gli auguri di compleanno. La gente dice che alla fine l’età è solo un numero, ma è un numero che diventa sempre più alto man mano che invecchi. Finché non interferisce con quello che faccio, non mi importa. Lo puoi ignorare. Io lo faccio.

Hai citato il film di Let It Be. C’è qualche possibilità che venga ripubblicato?
Ne abbiamo parlato così tanto che a volte mi sembra che sia già stato fatto.

Qual è il problema?
Non ne ho la minima idea. Io continuo a dirlo e tutti mi rispondono: “Sì, dovremmo farlo”. In realtà, il primo a opporsi dovrei essere io, perché non sono venuto fuori bene nel film.

Quando avevo 17 anni tra i compagni di classe di John c’era uno che ne aveva 24 e io ero davvero triste per lui. Per noi era vecchio!


Sembra che tu non abbia il pieno controllo dell’eredità dei Beatles come tutti pensano.
La Apple è una democrazia, e il mio voto vale uno. Le cose dei Beatles vanno avanti da sole. Qualcuno dice: “Ron Howard è interessato a fare un film”, e io dico sì o no. In questo caso ho detto sì, Ron è bravo.

Deve esserci una decisione unanime tra te, Ringo, Yoko Ono e Olivia Harrison?
Sì. Questo è il segreto dei Beatles: non può esserci tre contro uno. Nel periodo in cui la band si stava sciogliendo, abbiamo rovinato tutto facendo valere tre voti contro uno, ma adesso ogni cosa deve essere decisa all’unanimità. Le due ragazze sono i Beatles.

Ci sono situazioni in cui dici automaticamente di no? E che tipo di diritto di veto hai sulle canzoni dei Beatles se non sei titolare dei diritti di pubblicazione?
Non esiste un diritto di veto. La cosa che mettiamo bene in chiaro è che le canzoni dei Beatles devono essere trattate con gusto. Possono offrirci tutti i soldi che vogliono, ma esistono dei limiti. Per esempio, lo spot di un’automobile che consuma un sacco di benzina. Personalmente non accetterei mai un’offerta da McDonald’s, perché sono vegetariano. Lo show di Las Vegas Love ci è andato vicino. George conosceva un tipo del Cinque du Soleil e mi ha portato a vedere un loro spettacolo. Mi ha travolto, ho accettato subito l’idea di una produzione ispirata ai Beatles. Ma il clima generale era decisamente contrario: “No, è sacrosanto. Non potete farlo. Non dovete”. Io ho risposto: “Fermi tutti, non è la vostra musica!”.

Il pubblico ha con i Beatles un rapporto molto…
Possessivo. Ma noi abbiamo sempre cercato di ignorarlo. Capita di incontrare persone che ti chiedono qualcosa o vogliono qualcosa da te e tu rispondi: “No, mi dispiace. Sto cenando, devi andartene”. “Ma noi compriamo i vostri dischi”, e noi rispondiamo: “Se questa deve essere la conseguenza non comprateli più”. Lo abbiamo sempre fatto, Ringo più di tutti. I fan andavano a casa sua e lui gli chiudeva la porta in faccia: “Andate a fanculo”. Non ne voleva sapere. Devi per forza mettere un limite, altrimenti impazzisci.

Come definisci il tuo rapporto con Yoko Ono oggi?
Molto buono. Al tempo ci sentivamo minacciati. Lei se ne stava lì seduta sui nostri amplificatori, mentre registravamo i nostri dischi. Qualunque band farebbe fatica a gestire una situazione del genere. Noi ci abbiamo provato, ma non è andata bene, perché eravamo molto chiusi e uniti. Non eravamo certo sessisti, ma la regola era: le ragazze non entrano in studio. Quando John si è messo con Yoko, ce la siamo ritrovata seduta a fianco, oppure dietro al mixer. In mezzo a noi quattro.

Nonostante questo hai contribuito alla copertina dell’album di John e Yoko, Two Virgins, con la frase: “Assistere all’incontro di due grandi santi è un’esperienza che rende umili”.
La svolta è stata dire a me stesso: “Se John ama questa donna ci deve essere un motivo, quindi va bene così”. Mi sono reso conto che dovevo superare ogni forma di resistenza. All’inizio è stato difficile, ma piano piano lo abbiamo fatto. Ora siamo come due vecchi amici. Mi piace Yoko (ride). È così…Yoko.

Con che frequenza vi incontrate per discutere degli affari dei Beatles?
Non troppo spesso. Mi vedo molto con Ringo, perché è un ragazzo adorabile. Usciamo insieme, andiamo alle feste. Per quanto riguarda le riunioni di affari, mi tengo più in disparte. Ho smesso di andare alla Apple durante il periodo più difficile, quando i Beatles si stavano sciogliendo. Chiedevo a John Eastman (il suo avvocato e manager, fratello della moglie Linda Eastman, ndr): “Raccontami tutto quello che succede, perché io non ce la faccio a sedermi a quel tavolo”. Era troppo doloroso, era come assistere alla morte del tuo animale domestico preferito. Adesso mi occupo soprattutto di ascoltare le registrazioni e di contribuire al processo di approvazione. La maggior parte del lavoro sui Beatles è stato fatto.

C’è ancora qualcosa negli archivi che vale la pena pubblicare?
La domanda è proprio quella: vale la pena? I Beatles erano una grande band. Non importa cosa ascolti, anche cose che al tempo ci sembravano molto brutte, oggi sembrano bellissime. Perché sono i Beatles.

Potresti fare qualcosa con i primi nastri originali del White Album o di Sgt.Pepper’s e raccontare la storia dei quegli album come ha fatto Bob Dylan con le session del 1966 che ha pubblicato in un box set l’anno scorso.
Mi sono sempre piaciute le chiacchiere che si sentono nei nastri tra un take e l’altro. Tenevamo sempre un registratore a due tracce acceso, nel caso ci venisse l’idea di improvvisare qualcosa. Per la maggior parte è una cronaca dei nostri dialoghi: “Take 36, com’è venuta?”. Ce n’è uno che mi piace particolarmente, stavamo facendo I Saw Her Standing There e io ho detto: “Hey non posso suonare, non ho il mio plettro”. “E dov’è”, mi ha chiesto John. “Mi sa che l’ho lasciato nella borsa”. E lui: “Sei un inutile rammollito”. “Ah sì? Adesso di faccio vedere io”, tutto nel nostro accento strettissimo di Liverpool.

Sembrate due compagni di classe che si prendono in giro.
Eravamo una band navigata, ma la cosa più divertente erano proprio queste scene da corridoio della scuola, le chiacchiere e le battute. Per tornare alla tua domanda: ci sono altre cose negli archivi? Qualcuna. Vale la pena pubblicarle? Non lo so.

Prenderesti in considerazione un tour con Ringo?
Non ne abbiamo mai parlato. Siamo saliti sul palco insieme per la Rock and Roll Hall of Fame, ma un vero tour…

Sarebbe un messaggio sbagliato, tipo “reunion dei Beatles”?
Credo che nessuno di noi due ci abbia mai pensato, sia a farlo che a non farlo.
È solo che le nostre strade sono diventate parallele, con qualche incrocio ogni tanto. Ringo è un grande batterista, ha un tocco unico al mondo, ma andare in tour forse potrebbe essere complicato.

Sarai al Desert Trip con i Rolling Stones. Cosa pensi quando li vedi suonare?
Penso che sia un miraggio. Io vedo ancora la band che ho sempre conosciuto: ci sono Mick, Keith e Charlie, che sono sempre stati lì, e Ronnie, che si è guadagnato a pieno diritto il suo posto negli Stones. Vedo una piccola grande band di rock&roll, non bravi come i Beatles (sorride), ma comunque bravi.

Che potenziale avete visto tu e John in loro nel 1963, quando gli avete dato da registrare il vostro pezzo I Wanna Be Your Man? È stata la loro prima hit nella Top 20 in Inghilterra.
Osservavamo tutte le altre band che erano in giro in quel momento, riconosce vamo subito quelli che non valevano niente e quelli che potevano essere dei nostri rivali. Era utile sapere esattamente cosa stava succedendo nella scena. Avevamo sentito parlare degli Stones. Suonavano al Station Hotel di Londra, siamo andati a vederli, mischiandoci tra il pubblico. Mi ricordo Mick, che sale sul palco con una giacca grigia e fa la sua cosa con le mani (batte le mani velocemente). Un giorno, il tipo della Decca Records che aveva scartato i Beatles ha chiesto a George se conosceva qualcuno a cui valesse la pena far cantare un nostro singolo. Noi eravamo amici degli Stones e abbiamo pensato che I Wanna Be Your Man fosse adatta a loro, perché avevano uno stile alla Bo Diddley. Hanno fatto un ottimo lavoro, e mi piace vantarmi dicendo che siamo stati noi a dargli la loro prima hit. È andata proprio così.

Oggi le piccole grandi band come la tua e i Rolling Stones fanno concerti giganteschi. Faresti un tour in posti piccoli con una scaletta di pezzi nuovi? Ti prenderesti questo rischio?
Non sarebbe un rischio, l’idea mi attira. Stare stretti è una situazione che ti fa suonare meglio. Con i Beatles lavoravamo sempre nello Studio 2 di Abbey Road, ma quando abbiamo registrato Yer Blues siamo andati a cercare proprio la sensazione di stare chiusi in una scatola di sardine. Ci siamo chiusi in una specie di armadio con la batteria, gli amplificatori girati contro la parete e un microfono per John. Abbiamo fatto Yer Blues dal vivo ed è venuta molto bene. Fare un tour con una scaletta composta solo di materiale nuovo sarebbe un passo avanti. Vedi, questo è esattamente quello che dicevo a proposito dei Beatles: le idee arrivano da sole. Questa è un’idea nuova, l’hai proposta tu e noi potremmo anche farlo.

Io credo che quello attuale sia un momento esaltante: vai in un club, senti un gran disco di hip hop e fa il suo dovere alla grande


In All Day, uno dei pezzi che hai scritto e registrato con Kanye West, c’è un brano che hai scritto nel 1969 e che non hai mai usato. Raccontami la storia.
Io e Linda avevamo appena avuto la nostra prima figlia, Mary. Eravamo in clinica, io ero lì con la mia chitarra che mangiavo patatine e a un certo punto mi sono reso conto che, appeso alla parete della stanza, c’era un quadro, Il vecchio chitarrista cieco di Picasso. Lo avevo avuto davanti agli occhi per giorni. Il vecchio tiene la chitarra così (imita la posa del quadro). Mi si è accesa una lampadina in testa: “Che accordo sta facendo?”. Sembrava una chitarra con solo due corde, allora ho pensato: “Sarebbe bello scrivere una canzone usando solo due dita”, e così ho scritto questo (suona la melodia). L’ho raccontato a Kanye e gli ho fischiato il brano, il suo tecnico del suono l’ha registrato ed è finita in mezzo a tutti gli altri ingredienti che Kanye stava raccogliendo. Non ci siamo mai seduti veramente a comporre, parlavamo e ci scambiavamo idee. Quando ho ascoltato i tre pezzi che abbiamo firmato insieme, quello con Rihanna (FourFiveSeconds), Only One e All Day, mi sono detto: “Ho capito, ha preso il brano che gli ho fischiato quel giorno”. Un’idea del 1969 mi è tornata indietro sotto forma di hip hop urbano. Adoro il disco di Kanye.

Ti sei sentito come un vero collaboratore o solo come un aiutante? Di solito sei tu che gestisci il lavoro in studio e fai nascere le canzoni.
Abbiamo trascorso qualche pomeriggio insieme al Beverly Hills Hotel. L’unico accordo che avevamo fatto con Kanye era che, se non avesse funzionato, non avremmo detto niente a nessuno. Non sapevo quale fosse il suo metodo di lavoro. Mi avevano detto cose del tipo: “Ha una stanza piena di gente che scrive i riff, lui cammina avanti e indietro e dice: “Questo mi piace”. Mi ha ricordato Andy Warhol, e quegli artisti che usavano i loro studenti per dipingere gli sfondi dei quadri e cose del genere. È una tecnica molto usata. Mi sono detto: “Non so proprio come posso adattarmi a questo metodo, ma vediamo che succede. Sarà un fallimento annunciato”.

Credi che Kanye sia un genio?
Non uso mai quella parola (ride). Credo che sia un grande artista. Ho ascoltato il suo album My Beautiful Dark Twisted Fantasy mentre cucinavo e ho pensato: “È buono, molto innovativo”. Quando mi ha contattato ho detto subito: proviamoci.

Ascolti musica hip hop per piacere personale o per mantenerti aggiornato?
Diciamo, per farmi una cultura. Ascolto molto hip hop e ogni tanto vado anche ai concerti. Ho visto Kanye e Jay-Z quando hanno fatto il tour insieme. Ho visto Drake, è la musica di oggi.

Ti sembra importante come la musica che hai fatto tu nel 1966 o nel 1967? Si dice che il rock è morto, che ha fatto il suo tempo.
Non sono io a doverlo dire, il tempo darà tutte le risposte. Io credo che quello attuale sia un momento esaltante: vai in un club, senti un gran disco di hip hop e fa il suo dovere alla grande. Non voglio assolutamente mettere in paragone un pezzo hip hop con A Day in the Life. È come il reggae: non potrei mai fare un pezzo reggae, è una musica che lascio a Bob Marley e a chi ce l’ha dentro. E penso lo stesso dell’hip hop. Mi è piaciuto lavorare con Kanye e dare il mio contributo ad All Day. E poi, (sorride), il mio riff è il migliore di tutto il disco.

Lavorando con artisti più giovani come Kanye West o Dave Grohl ti sei mai sentito sotto pressione come nei Beatles, in cui eri spesso in competizione con John? Quella sensazione è stata sostituita in qualche modo?
No, non credo che potrebbe succedere. Certe cose semplicemente non possono più esistere. Io e John siamo cresciuti insieme, nello stesso ambiente e con le stesse influenze, lui sapeva che dischi ascoltavo io e io quelli che ascoltava lui. Abbiamo scritto le nostre primissime innocenti canzoni insieme, poi ci siamo ritrovati a scriverne altre che venivano registrate e pubblicate. Passano gli anni e le cose vanno sempre meglio, puoi avere vestiti sempre più belli e allora scrivi le canzoni giuste per abbinarle ai vestiti giusti. Siamo stati sulla stessa scala mobile, anzi, sullo stesso gradino della scala mobile, dall’inizio fino alla fine. Quell’epoca, quell’amicizia e quel tipo di legame sono assolutamente irripetibili.

C’è qualcuno a cui senti di poter chiedere consiglio oggi quando scrivi qualcosa?
Musicalmente? No. Mi baso sull’esperienza e penso a quello che succederebbe se lo facessi sentire ai Beatles. Il mio sistema di valutazione è quello.

E nella vita in generale?
Ho degli ottimi amici. Sono molto legato a Lorne Michaels, è uno che posso chiamare in qualsiasi momento per andare a bere qualcosa e parlare in assoluta sincerità. Ho i miei parenti, mio fratello e mia moglie. Nancy è una donna molto forte. Ma nella musica no, è molto difficile. Non c’è nessuno che può superare John. E John direbbe lo stesso di Paul.

Paul fotografato dalla moglie Linda quando vivevano nella loro fattoria in Scozia. È lì che nacque l’album Ram. A destra, Paul e Linda alla premiazione dei Grammy a L.A. il 16 marzo 1971

Il tuo ultimo album, New, è un disco emotivamente positivo e musicalmente allegro, ma è arrivato dopo una serie di album oscuri, persino tristi come Chaos and Creation in the Backyard. È stato difficile continuare a scrivere canzoni dopo la morte di Linda e il periodo doloroso a livello personale che hai attraversato dopo? (Nel 2008 ha divorziato dalla seconda moglie Heather Mills, ndr).
New è dedicato a Nancy (Nancy Shevell, la terza moglie, che Paul ha sposato nel 2011, ndr). È lei la cosa nuova nella mia vita. È stato un risveglio, lei mi ha fatto venire voglia di scrivere canzoni positive. La musica è come uno psichiatra: alla tua chitarra puoi dire cose che non diresti mai alle persone, e ti darà delle risposte che le persone non sanno darti. Le canzoni tristi, però, hanno un valore: ti succede qualcosa di brutto, non vuoi reprimerlo e quindi lo tiri fuori usando le note della chitarra. Sul mio prossimo album ce ne sono un paio che sono un po’ scioccanti (fa una smorfia). È una cosa che funziona, con le canzoni lo puoi fare. È il blues, il posto dove metti le cose.

Tua figlia più piccola, Beatrice, ha 13 anni. Cosa sa della tua storia?
Con i figli è divertente, la loro reazione di solito è: “Ok, papà è famoso. Che noia”, e poco più. Vengono a un concerto e dicono: “Mi è piaciuta Back in the U.S.S.R.” oppure: “Come si intitola quell’altra?”. E tu: “All My Loving”, “Ah ecco, mi è piaciuta anche quella”. Poi, quando crescono, cominciano a rendersene conto. Vanno al college e qualcuno gli dice: “Hey, mi piace molto Ram”. E loro: “Cos’è?”. “Un disco di tuo padre”.

Com’è la tua vita da padre di famiglia quando non sei in tour?
I miei figli sono tutti grandi tranne Beatrice, con cui ho la custodia condivisa e quindi passo metà del tempo. Cerco di essere presente. Mi alzo la mattina e preparo la colazione, li porto a scuola, parlo con gli insegnanti per sapere come va, faccio le donazioni per le aste scolastiche. Faccio tutto quello che un padre deve fare, poi salgo su un aereo, vengo in America e faccio la rockstar.

È stato difficile negli anni ’70 trovare l’equilibrio tra la musica, la fama e la famiglia? Tu e Linda avete cresciuto i vostri figli in una fattoria.
Erano i tempi della cultura hippie, facevamo scuola in casa ai nostri figli, sono stato io a insegnargli a scrivere. Mi piaceva. Quando hanno cominciato ad andare a scuola, li affidavamo a dei tutori mente eravamo in tour. Mi facevo spiegare il programma di studi, geografia, storia, matematica, e cercavo di organizzare la cosa nel miglior modo possibile. Siamo riusciti a crescerli bene, con Linda dicevamo sempre: “La cosa più importante è che siano di buon cuore”. Lo sono tutti, e sono anche molto intelligenti.

Tutti i figli dei Beatles, i tuoi, Sean e Julian Lennon, Dhani Harrison e Zak Starkey sono tutti ragazzi forti e sensibili. Alcuni sono anche riusciti a crearsi una propria carriera nell’ambito della musica. Come hanno fatto i membri della più grande band del mondo a essere degli ottimi padri in mezzo a tutta quella follia?
Grazie alle nostre radici di Liverpool. Avevamo famiglie forti, la mia in particolare. La zia di John era severa, ma nel modo giusto. Ringo è figlio unico e i suoi erano fantastici. Siamo cresciuti a Liverpool, tra i lavoratori, in un ambiente dove non ti è permesso alzare la cresta. Nella mia famiglia c’erano un sacco di bambini, te ne davano sempre in braccio qualcuno e alla fine ti abituavi. In quella di John no, ma ha imparato dopo. Grazie a queste radici, tutti e quattro avevamo la sensibilità di fare sempre la cosa giusta, come succedeva nelle nostre famiglie. Avevamo un obiettivo comune, una forma di saggezza condivisa, nella vita e nella musica.

C’è un album che, secondo te, non è stato capito o è stato sottovalutato? Quando hai ripubblicato Ram nel 2012 ha avuto recensioni grandiose, eppure quando è uscito nel 1971 è stato stroncato.
Quel disco mi è semplicemente ritornato in testa, ma non passo il tempo a riascoltare il mio catalogo. L’unica cosa che faccio è cercare dei pezzi da inserire nella scaletta dei concerti. Tipo, non so, Love Me Do. Penso: “Forse questa dovremmo farla”.

Diciamo che sei in una posizione unica: abbastanza vecchio da vedere i tuoi album prima disprezzati e poi elogiati qualche decennio dopo.
Già, io pubblico i dischi e poi sono così stupido da andare a vedere cosa ne pensano i critici. C’è stato uno del New York Times che ha stroncato Sgt.Pepper’s quando è uscito. La cosa terribile è che una cosa del genere ti provoca una sensazione di rifiuto nei confronti delle cose che tu stesso hai creato. Ha un effetto sulle tue insicurezze e i tuoi dubbi, anche se per scrivere quella canzone hai già dovuto superare molte delle tue insicurezze e dei tuoi dubbi. Ti rimane solo l’odore della musica, una folata di qualcosa che non è molto buono e ti resta appiccicato addosso. Poi, a un certo punto, vieni salvato. Un giorno mio nipote Jay mi ha detto: “Ram è il mio album preferito di tutti i tempi”. Per me era un disco morto e sepolto, poi l’ho ascoltato e ho detto: “Wow, ora capisco quello che stavo facendo”.

Sei rimasto deluso dal fatto che il tuo ultimo singolo, Hope for the Future, non sia diventato una hit?
Sì, pensavo che sarebbe andato bene, ma non è stato così.

Sono cambiate le tue aspettative su cosa sia una hit rispetto a quello che sapevi nel 1966?
Ho rinunciato a cercare di capirlo. Non è possibile. Prendi, per esempio, l’ultima raccolta Pure McCartney. Mi chiamano e mi dicono: “È al numero tre in classifica”. E io: “Wow, che figata, Quanto ha venduto?” “15mila copie”. “È uno scherzo? Un tempo erano poche 15mila copie al giorno”. È così che funziona adesso, a meno che tu non sia Rihanna o Beyoncé. Non mi aspetto che il mio prossimo album venda molto, ma lo pubblico lo stesso, perché ci sono canzoni che mi piacciono. Farò del mio meglio. La scena è cambiata, ma questo non mi disturba, perché io ho vissuto i momenti migliori, i tempi in cui vendevo 100mila copie al giorno di un pezzo come Mull of Kyntire. Ho provato quella gioia e adesso è finita. Ma non è successo solo a me. Nessuno dei miei contemporanei ce l’ha più, anche se sono ancora piuttosto in gamba, perché le cose sono cambiate. Ma sai una cosa? Noi abbiamo vissuto quell’epoca, ed è stata fantastica.

L’intervista è stata pubblicata su Rolling Stone di settembre.
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