Rolling Stone Italia

Parcels: niente disco, solo funk

A soli 20 anni, e senza avere pubblicato un album, hanno già fatto innamorare i Daft Punk. Una giornata a Milano con la stilosa band elettro-pop nata sui banchi di un liceo australiano
Foto di Alessandro Treves

Parcels. Foto di Alessandro Treves

«All’inizio non eravamo neanche sicuri che fossero loro. Cioè, dai, come potevano essere davvero loro?», sorride dietro ai baffetti Jules Crommelin, giovane voce e chitarra dei Parcels. E invece erano loro: Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter, i Daft Punk. In carne e ossa, senza maschere da robot. Panico. I Parcels se li sono trovati davanti al naso, dopo essere scesi dal palco del loro primo showcase a Parigi. Erano i primi mesi del 2016 e i cinque ragazzetti australiani avevano appena firmato con la Kitsuné, label e casa di moda parigina. Sapevano di essere andati bene, perché la folla del piccolo club che ospitava il live stava reclamando il bis, ma mai si sarebbero immaginati un finale di serata simile. «Ci hanno detto: “Domani venite in studio da noi a fare una jam?”. Solo questo. Eravamo sotto shock».

Il risultato di quell’incontro è Overnight, un singolo che trasuda Daft Punk da ogni ogni colpo di cassa, ogni soffio di Fender Rhodes, ogni strimpellata di Stratocaster funky à la Chic. Quello è il pezzo che ha lanciato i Parcels in orbita. Quattro mani robotiche li hanno presi e catapultati nella ionosfera del pop, producendo loro un singolo. E questi pazzi, a malapena ventenni, che fanno? Non lo inseriscono nel primo album. Parcels esce ad ottobre, ma dei robot transalpini nemmeno l’ombra. Roba che se fosse successo a me, avrei chiamato il disco “A Me i Daft Punk Hanno Scritto Un Pezzo, A Te?”. «Bel nome!», risponde Patrick, uno dei due tastieristi. «Ma abbiamo preferito chiamarlo con il nome della band. Con i Daft Punk sono bravi tutti a spaccare. Volevamo fare le cose per conto nostro, dimostrare cosa sappiamo fare».

Per loro, mi spiega Jules con la prudenza di chi probabilmente ha firmato dei contratti di riservatezza, l’esperienza con i Daft Punk è stata utile soprattutto da un punto di vista pratico: «Per capire come scrivere brani semplici, ma micidiali. E registrarli senza sbavature». Dopo tutte queste belle parole riesco quasi a convincermi anche io: escludendo i Daft Punk hanno fatto la cosa giusta. Ma c’è l’ultima canzone del disco che non fa tornare i conti. Si chiama Credits e ha un featuring di tale Dean Dawson, per farla breve è un groove funky con sopra una voce sexy e baritonale, di certo non quella di Jules, che elenca le persone da ringraziare per l’album. È una traccia davvero comica, soprattutto quando provate a cercare questo Dean Dawson su YouTube e vi ritrovate a guardare un gigantesco rapper di colore, tatuatissimo, che rappa in tedesco. Dev’essere un caso di omonimia: non può essere lui l’unico featuring del disco di esordio dei Parcels. «E invece è lui!», scoppiano a ridere tutti. «È un rapper tedesco, molto famoso negli anni ’90, che lavora nello studio di Berlino dove abbiamo registrato. Era perfetto per leggere i crediti del disco».

Mentre ridiamo, mi accorgo di una cosa. Si sono disposti tutti a semicerchio attorno a me nella “stanza”, un grosso container adibito a camerino – grazie al cielo, condizionato –, piazzato nel bel mezzo dell’Ippodromo di Milano. È la loro prima volta in città, convocati per il Milano Summer Festival. Jules, stilosissimo e molto attento al guardaroba, come i suoi compagni, dopo poco esclama: «Va detto che qui la gente si veste davvero bene». Non tutti sono d’accordo. L’unico che era già stato in città in veste di turista, il batterista Anatole, è rimasto un po’ deluso dall’ambiente milanese: «Quando sono venuto la prima volta credevo di ambientarmi col mio look, ma qui si prendono tutti troppo sul serio». Discussioni inevitabili per una band scoperta prima dalla stampa di moda, e poi da quella musicale.

Il concerto è praticamente un throwback a 10 anni fa: aprono gli MGMT e a seguire l’imponente show dei Justice. Solo in un secondo momento sono stati aggiunti i Parcels, forse proprio perché sono il giusto mezzo aristotelico fra l’indie rock e la dance da cassadrittari. «Ci accostano spesso alla disco, perché la nostra musica è molto funky. In realtà cerchiamo di esplorare tutto lo spettro della musica col groove», ci tiene a precisare Jules, che nel frattempo sta mangiucchiando degli acini d’uva: «L’ultima cosa che vogliamo è essere una disco-band». Conveniamo tutti che ormai il buon nome del genere è stato irrimediabilmente infangato dall’industria discografica. Da musica di ribellione di quel sottobosco di ripudiati che era la New York gay e nera dei primi anni settanta, è stata svuotata del suo messaggio, resa un balletto frivolo e pieno di falsetti. E la colpa è anche dei vari John Travolta e Bee Gees. I Parcels sono musica da ballare, ma da lì alla Febbre del sabato sera c’è di mezzo una galassia.



Nel programma della serata Jules e gli altri suonano per primi, eppure non sembrano minimamente turbati all’idea di aprire per i loro idoli di quando erano dei pischelli. Pare quasi che non vedano l’ora di salire sul palco, nonostante i due anni di tour alle spalle. «Rispetto all’anno scorso siamo persino rilassati. E poi girare non ci pesa. Se pesasse a quest’età, sarebbe un problema», prosegue Jules, che stando ai miei calcoli è uno dei più giovani del gruppo, alla veneranda età di 20 anni. «In più ci hanno dato un tour bus per le date in Europa. È una figata», interviene Patrick, scatenando l’approvazione di tutti gli altri. «Vuoi mettere? Stiamo di più ai festival dopo lo show, ci godiamo l’aria del posto con più calma e poi ci rimettiamo in viaggio». Per esempio a giugno, dopo la data al Bergen Fest, sono rimasti tre giorni a esplorare boschi e montagne dell’entroterra norvegese. Non è difficile immaginare che, ai loro occhi, i paesaggi nordici siano qualcosa di completamente esotico. Sono tutti nati e cresciuti in Australia, ma si sono trasferiti in Europa appena ne hanno avuto la possibilità. Alle spiagge bianche e un po’ fighette della loro Byron Bay, l’estrema punta orientale del continente australiano, un paio di anni fa hanno preferito il gelo di Berlino, quello che ti penetra nelle ossa. «Ma non c’è alcuna prova che trasferirsi qui possa aiutarti nella musica», mette tutti d’accordo Noah, il bassista. È il più basso della cricca, ma è senza dubbio il più esplosivo. Immaginatevi un colibrì alimentato a nitrometano, che tiene in braccio un basso elettrico. Mentre suona, si dimena facendo ondeggiare i sui boccoli biondi da surfista, in un tripudio di slappate di basso e pantagruelici sorsi da una Peroni in lattina. Dopo il live ci becchiamo sotto il palco: «Chi, quelli? Si fottano, proud to be Australian!», commenta, quando gli chiedo degli spettatori che qualche minuto prima hanno urlato “Allez les bleus” dal parterre, per ricordare la vittoria francese contro i suoi Socceroos al Mondiale in Russia. La difesa della terra natìa trova consensi, Patrick forse è l’unico a pensarla diversamente: «In Australia non c’è una scena musicale precisa», dice, confermando la tesi che qualche anno fa mi aveva sottoposto un suo connazionale, Kevin Parker dei Tame Impala. «Finisci per ritrovarti isolato nella tua stessa musica. Qui, invece, ci sono tante scene musicali in uno spazio ristretto. Quindi circola tutto più in fretta».

Il problema è pressoché irrisolvibile nel loro Paese d’origine, perché l’Australia è una terra immensa. Nessuno dei Parcels è mai stato in vita sua lungo la costa Ovest. Nemmeno a Perth, la città più grande del fronte occidentale dell’isola. «Sei fuori? Sono tipo cinque ore di aereo. E chi c’ha voglia di farsele?», ridacchia Louie, l’altro biondissimo tastierista della band. Parole che, dette da uno nato a 17mila chilometri di distanza da qui, suonano perlomeno un po’ strane.

Iscriviti