Open to Baby Gang | Rolling Stone Italia
Cover Story

Open to
Baby Gang

Tutti hanno un’opinione su di lui, pochi ci hanno parlato. Negli ultimi anni Zaccaria Mouhib è stato al centro della cronaca musicale, ma soprattutto giudiziaria. Siamo andati a trovarlo nella comunità dove sta scontando una parte della sua pena, un posto “open to meraviglia” sul Lago di Como. Ci ha raccontato la sua vita, un po’ documentario crudo e un po’ gangster movie. Ci sono cose che rivendica e altre che non rifarebbe. Il finale è aperto: «Devo pareggiare il male col bene, solo allora sarò libero»

Foto: Gabriele Micalizzi per Rolling Stone Italia

Per incontrare Baby Gang, il fotografo Gabriele Micalizzi, il diretur di Rolling Alessandro Giberti ed io dobbiamo raggiungere la sponda est del Lago di Como, una location open to meraviglia come vedete dalle immagini della nostra digital cover. C’è uno strano silenzio, interrotto solo dal soffio della Breva che muove i sassolini sulle rive del Lario, mentre superiamo l’ultimo bivio: da un lato le indicazioni per un’abbazia medievale dove i monaci venivano a meditare, in mezzo la scritta sul muro “Padania”, dall’altro la comunità terapeutica dove Zaccaria Mouhib sta scontando ai domiciliari parte della pena di 4 anni e 10 mesi – è già passato per il carcere di Monza – per la sparatoria avvenuta a Milano nella notte tra il 2 e il 3 luglio dell’anno scorso.

Non riesco a immaginare un posto più lontano di questo dalla strada raccontata dal giovane rapper nei suoi testi. Chissà se l’ambiente zen possa essere d’aiuto perché è qui, secondo il suo legale, che «Baby Gang vuole curarsi da abuso di droghe e alcol e cambiare vita».

Già, la vita di Baby Gang, un bel casino, 21 anni di cui gli ultimi dieci passati tra comunità e carcere. Zaccaria, fumando sigarette appoggiato alla finestra di una stanza della comunità, prova a raccontare a Rolling la sua storia e ci sentiamo subito spettatori di un film, senza capire bene quanto ci sia di fiction e quanto di documentario. Del resto, ci dirà alla fine dell’intervista mentre scende il sentiero che lo porta alla riva del lago, uno dei prossimi progetti è quello di «fare cinema, magari una serie». Ha diretto lui gran parte dei suoi video e ogni sua canzone del nuovo album Innocente è scritta con in testa le immagini del suo passato.

Sicuramente oggi è lui il regista del suo destino, di musicista e di giovane uomo con un passato pesante alle spalle. Il finale è aperto, anche se qualche idea, come leggerete, ce l’ha già.

Cercare informazioni e notizie in rete su di te è un casino: Baby Gang non è solo un rapper, è un fenomeno sociale sempre più diffuso, e spesso le notizie tra il Baby Gang e le baby gang si mischiano fino a confondersi.
Il nome Baby Gang è una condanna, ma non me lo sono scelto, mi chiamano così da sempre, da prima che facessi musica. Già da piccolino ho fatto delle cazzate, nel 2013 c’era la scritta sui muri “Zaccaria ruba” e mi ero fatto fare la lattina di Coca-Cola personalizzata con inciso Baby Gang (di entrambe mi mostra una testimonianza fotografica sul telefonino, nda).

Nel 2013 eri a Lecco e avevi 13 anni…
E giravo con le bandane, vestito come Tupac e 50 Cent.

Il tuo nome d’arte non deve essere di grande aiuto quando – come succede spesso – ti trovi nei guai con la legge. È così?
Ho fatto processi dove non mi parlavano di reati, ma solo di musica. Dicevano che nei testi inneggiavo alla violenza, ma non c’era nessuno che sapesse anche solo un titolo di un mio pezzo. Li invitavo a occuparsi di legge che alla musica ci penso io.

Sei arrivato da poco in questa comunità, prima eri nel carcere di Monza. È lì che hai scritto il nuovo album Innocente?
No, lì non facevo niente, era un carcere punitivo, non avevo i beat, era già tanto che avessi la penna. Stavo a guardare il muro e fumavo, non volevo fare neanche il giorno d’aria. Il disco l’ho fatto in un mese, mi sono chiuso in uno studio appena sono uscito.

Cosa ti mancava del mondo fuori dal carcere?
Guidare, se mi avessero dato anche solo un’ora fuori sarei andato a scannare in autostrada per sentire il vento in faccia. Respiravo solo odore di galera, entrava dappertutto.

Foto: Gabriele Micalizzi per Rolling Stone Italia

In un’intervista a Muschio Selvaggio del 2021 avevi detto di preferire il carcere alla comunità…
Ai tempi sì, ero una testa di cazzo e non avevo niente da perdere, poi ho iniziato a capire. Prima dicevo al mio compagno di cella di lasciarmi il letto fatto che sarei tornato dopo un giorno, non volevo vedere la libertà. Era meglio vedere di fronte la guardia e fare il detenuto che avere uno di 22 anni in comunità che mi voleva insegnare la vita, quando io avevo già passato la guerra.

Di che guerra parli?
Se avessi fatto il rapper a 15 anni e avessi raccontato quello che facevo allora – furti, rapine, spaccio – avrebbero buttato via la chiave della cella. Ora invece campo con la musica, il massimo che posso fare è litigare. Però anche quando non faccio niente, non mi sento al sicuro, ho paura che vengano ad arrestarmi. Non riesco a dormire, fino alle 5 sto sveglio perché a quell’ora arrivano i mandati di arresto. Alle 7, quando so che non vengono più, mi addormento.

E cosa fai quando non dormi?
Scrivo, mi faccio dei film pensando al mio passato. Ogni mia canzone nasce così.

Mi aspettavo che questo disco, dopo tutto quello che hai passato, fosse più rabbioso e incazzato. Cosa è successo?
Sono solo stufo, sono in comunità da quando ho 11 anni, a 15 sono andato in galera la prima volta. Al carcere minorile era un guerra, come nei film, quello per maggiorenni è più tranquillo, c’è chi ha famiglia fuori o un lavoro, ma non ci sono più i criminali di una volta, solo tossici, pazzi, scemi. Mentalmente è un inferno. Vedevo l’orrore, gente con le bocche cucite. Mi isolavo con le cuffie e un unico CD, quello di 50 Cent. Riescono a farti passare la voglia di farti ascoltare musica.

È stato difficile tornare a fare musica dopo questa esperienza?
Avevo paura di uscire e non saperlo più fare. Ho pensato che non avrei potuto parlare ancora di minchiate, reati, galera, ma grazie a Dio mi sono ripreso.

Foto: Gabriele Micalizzi per Rolling Stone Italia

Nelle carceri dove sei stato ultimamente, San Vittore e Monza, conoscevano Baby Gang?
C’era gente dentro da venti o trenta anni, senza Facebook o social, parlavano solo di criminalità.

C’è qualche tuo collega che ti è stato vicino mentre eri in carcere?
Più i fan, conservo ancora una lettera di uno di loro e nei momenti difficili la rileggo sempre.

Però ci sono molti featuring di rapper italiani in questo disco: Lazza, Guè, Emis Killa, Baby K…
Solo perché a differenza di prima, quando ho collaborato con nomi grossi della scena francese e internazionale, ho voluto fare un disco italiano.

Credi che qualcuno di questi prenderà le tue difese al di là della musica?
Ognuno oggi pensa al suo, servono le palle per appoggiarmi e andare contro il sistema. Il rapper che ce le hanno si possono contare sulle dita di una mano.

E i tuoi coetanei? Anche loro sono tutti allineati a quello che chiami sistema?
I miei coetanei non sono come i ragazzi di tanto tempo fa che scendevano in piazza a protestare, o come i francesi, che manifestano se gli aumentano la benzina di 20 centesimi. Qui non gliene frega un cazzo del futuro, stanno su Instagram e su TikTok, sono svogliati.

Per cosa vorresti manifestare?
Per l’ingiustizia, quella che ho vissuto quando non ero nessuno e che vivo ora. Sono stato dentro otto volte, poi mi hanno mandato un mese da innocente a San Vittore e stavo per impazzire. Molto spesso quello che c’è scritto sui fogli di accusa non è vero. E l’ingiustizia c’è anche fuori dalla galera, quando mi bloccano le date e non mi fanno suonare in giro: io quella sera in Corso Como (lo scorso ottobre quando dopo una rissa Baby Gang, insieme ad altri, è stato accusato di aver gambizzato due ragazzi, condannato a una pena di 4 anni e 10 mesi che ora sta scontando in comunità, nda) non ci sarei dovuto essere, perché avrei dovuto cantare a un concerto che era stato annullato.

Chi è che non ti vuol far suonare? I promoter dei locali?
Non solo: i questori, la politica, Salvini che parla di Baby Gang.

Foto: Gabriele Micalizzi per Rolling Stone Italia

Sempre a Muschio avevi detto: se c’è riuscito Salvini a fare il politico posso farlo anche io. Era una provocazione?
No, non lo era, io mi sento sempre un bambino perché ho paura di diventare adulto: vedo i loro ragionamenti chiusi, come fossero robot, vedo ignoranza ovunque, politici e giudici che si sentono intelligenti e non lo sono.

All’inizio del settembre scorso, prima delle elezioni, hai fatto un post sui social in cui invitavi a votare Berlusconi. Sembrava uno scherzo…
Ma non lo era. E alla fine ho avuto ragione, ha vinto.

Ha vinto la destra.
Sapevo già che Giorgia Meloni avrebbe vinto. Mi bastava aprire TikTok e Facebook, era ovunque.

E sei contento che abbia vinto lei?

Non mi importa, io sto con Berlusconi perché è l’unico che ha fatto qualcosa per la riforma della giustizia. Non ha chiacchierato ma ha agito, non solo per pararsi il culo lui, l’ha fatto per tutti. Qui nessuno parla di galera, sembra che la gente al posto che andare in carcere vada su Marte, ma le galere sono vere e proprie città. Berlusconi ha capito che lì dentro c’è anche molta gente innocente, dice di essere innocente anche lui, magari è vero, chi lo sa. Prima su questo la pensavo diversamente: chi entrava in gabbia per reati sessuali, contro le femmine, i bambini, i genitori doveva prendere mazzate, ma da quando sono stato arrestato senza aver fatto nulla non mi fido più. Non tocco nessuno neanche se mi dicono che ha ammazzato trenta bambini, perché magari è innocente, non l’ha fatto. E io ho paura.

Di cosa?
Che mi accusino di una cosa gravissima che non ho fatto né farei, tipo un stupro, come è successo a molti – anche calciatori famosi – che poi in alcuni casi si sono dimostrati innocenti. Se mi mettono dentro per furto o rapina me ne sbatto, sono uno di strada, ma se mi dovesse capitare una cosa del genere sarebbe la fine di tutto, di me e di Baby Gang. M’ammazzerei. La giustizia è troppo spesso è ingiusta, ti vuole fottere.

Come ci difende da questo tipo di ingiustizia?
Impossibile. Me la stanno facendo ancora pagare per un videoclip che ho girato in mezzo alla strada con Neima Ezza che è finito con una sassaiola con gli sbirri. Anche la vicenda delle cinque rapine di cui mi hanno accusato – e alla fine assolto – non è una cosa normale, sembra decisa a tavolino. L’unico mio reato è stato litigare e andare in giro armato…

Però tu stesso ora rappi “ho fatto cose che non rifarei”.
Sì, in tante cose ho sbagliato, le ho fatte sotto psicofarmaci, ma so di essere una persona di cuore. Mi prendevo dieci pastiglie e andavo a litigare con gli sbirri o i pusher cattivi, non facevo brutto solo sui social come fanno gli altri rapper.

Foto: Gabriele Micalizzi per Rolling Stone Italia

Sembra una puntata di Gomorra. Lo guardavi?
Sì, ma la realtà è spesso peggio di un film. Se dovessi raccontare certe cose che ho fatto la gente non ci crederebbe, quindi che le racconto a fare? Ho passato tanti momenti da solo in cui, sotto la pioggia a Lecco alle tre di notte, fradicio, pensavo: «Che vita di merda! Possibile che la vita sia così brutta?».

Adesso lo pensi ancora?
No, per fortuna sono molto credente. Ho fatto del bene e del male, ho fatto anche del male per far del bene: rubavo sui treno e poi andavo dai barboni e gli portavo un sacchetto di McDonald’s o di brioche o gli davo cinque euro. C’è una bilancia di Dio, devo pareggiare il male col bene, ce la farò, e allora sarò libero.

Ti stai descrivendo come un Robin Hood in tuta e sneakers.
Noi eravamo poveri, ma ci vestivamo da rapper americani. La nostra generazione è responsabile di aver introdotto i buttafuori nei negozi, perché rubavamo di tutto. Dormivamo per strada e ci lavavamo alle fontanelle, ma l’orgoglio ci faceva vestire meglio di quelli ricchi. Poi a un certo punto in stazione mi sono messo a guardare i barboni, i tossici, i pusher e ho capito che non avrei voluto fare quelle fine. E sono diventato un artista.

Tornando alla bilancia di Dio di cui parlavi, so che hai tentato di fare qualcosa per i ragazzi di Lecco, chiedendo al Comune il permesso per un progetto di riqualificazione del territorio. Come è andata a finire?
Che il sindaco mi ha dato il Daspo! Volevo solo il suo consenso per un progetto, ai soldi ci avrei pensato io, volevo costruire qualcosa per i giovani perché a Lecco non c’è nulla. È per questo che andavamo in giro a fare casino, perché non c’era alternativa. Cosa devi fare a 15 anni? Andare a vedere il lago e stare lì seduto? Ora quando voglio girare un video in strada arriva subito una pattuglia, sembra che fare musica sia diventato un reato.

Quando ti vedremo a Sanremo vorrà dire che le cose saranno cambiate?
Il mio obiettivo è salire su quel palco e dire le cose come stanno, mandare affanculo tutti. Alla gente piace sentire solo quello che vuole, io voglio urlare nell’orecchio di quelli col potere tutto ciò che non vogliono sentire.

Foto: Gabriele Micalizzi per Rolling Stone Italia

Nel disco rappi “morirò rich come Mbappé”. I soldi sono sempre al primo posto?
No, davanti a tutti, prima di mia madre e di mio padre, c’è l’orgoglio. L’unico sopra l’orgoglio è dio. Io fin da piccolo giravo solo con ragazzi africani più grandi appena arrivati dal villaggio del Senegal, ho fatto più strada della gente di strada. A 10 anni ero l’ultimo a tornare a casa. E me ne sono andato via facendo disperare mia madre. Non volevo andare a scuola, soprattutto non volevo farmi togliere la coperta per svegliarmi. Uscivo con la rabbia, avevo già in mente di voler fare altro nella vita..

Quanti anni avevi nella foto che hai messo come cover dell’album?
È di quando mi hanno mandato in comunità a Torino, avevo 12 anni. Ero già andato via di casa, dormivo sui treni, nei sotterranei. Ero il più piccolo in mezzo ai pusher che lavoravano nei boschi, i barboni, poi alla fine altri ragazzi mi hanno seguito. Eravamo in undici, andavamo a Bergamo alla Caritas a prendere i letti e le coperte e le portavamo sotto i ponti di Lecco, come fosse un orfanotrofio. Per un anno ho vissuto così, tra la spazzatura.

Potevi rimanere a casa tua, no?
Odio le regole. Spesso sono stupide.

Nella tua musica non ci sono le storie che mi stai raccontando. Perché?
Se avessi messo tutto quello che ho dentro non ci sarebbe stato spazio per niente altro. Io ho solo da svuotare, non ho nulla da mettere. Ma molto me lo tengo per me.

Foto: Gabriele Micalizzi per Rolling Stone Italia

Hai o hai avuto degli esempi che volevi seguire?
No, fin da bambino sentivo che sarei diventato qualcuno, volevo solo seguire la mia strada.

Avevi o hai il mito della violenza?
No. Come dico nel pezzo con Emis Killa, io facevo il bullo solo con chi bullizzava gli altri, non me la prendevo mai con chi non aveva fatto nulla. Ho delle regole: non tocco nessuno che sia con una ragazza, se vedo il mio peggior nemico passeggiare con la moglie o la figlia lo lascio stare. Non faccio quello che pensano gli altri e per cui mi accusano: non siamo ragazzi di strada violenti, non sono cattivo, non rapino i vecchi o i bambini.

Nella canzone col feat di Rondodasosa, Mama Africa, rendi omaggio alla tua terra d’origine. Che legame hai con quel posto?
Avrei voluto andare lì a girare il video del pezzo, ma ora come sai non posso. Lo dico anche in una canzone con Tedua che “sono più negro dei negri italiani”. Nessuno mi può dire che non devo usare la parola negro: sono cresciuto con zie africane che mi preparavano da mangiare pranzo e cena, ho dormito da loro, non è che sono arrivato adesso per fare il G-Unit della situazione con quattro finti amici africani reclutati come bodyguard come fanno altri rapper. Mi piacerebbe anche tornare in Marocco perché lì mi sento libero, non ho occhi addosso.

Dove in Marocco?
Vengo delle favelas di Casablanca, il mio posto si chiama Colombia. Quando in Gustavo canto “se entravano le armi in Marocco ora i maranza erano a fare Baghdad” è di quel posto che parlo, dove fanno scoppiare le bombole per cucinare anche solo per festeggiare una partita di calcio.

Tua madre e tuo padre dove stanno?
Qui vicino a Lecco.

Che rapporto hai con loro?
Ora meglio, hanno visto che sono cambiato, gli ho sempre detto di fidarsi ma temevano facessi una brutta fine. Quando a 14 anni ho detto a mio padre che volevo fare il cantante, dopo avergli fatto vedere i video di Lil Wayne, lui mi diceva che avevo sempre gli occhi rossi, che ero sballato e che sarei diventato un barbone. Si metteva a ridere e guardando il nipotino piccolo diceva: «Se tu diventi un cantante lui diventa Presidente degli Stati Uniti d’America».

Cosa fanno i tuoi?
Mio padre fa l’ambulante, si alza alle 6 di mattina. Per mia madre ho già fatto quello che volevo, l’obiettivo di tutti i rapper, comprargli casa e quindi ora sono a posto. Il resto, soldi e macchine, sono solo in più.

Hai fratelli o sorelle?
Ho un fratello che gira sempre con me, ma nessuno sa che è mio fratello. Voglio farlo crescere come me, stessa mentalità, dritto, col rancore, senza privilegi magari dati dalla popolarità. Ho dovuto fare la guerra per diventare quello che sono e così dovrà fare anche lui: vuol diventare un calciatore, e io sono sicuro – segnatevelo – che ce la farà.

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Foto: Gabriele Micalizzi
Art Director: Alex Calcatelli per LeftLoft

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