Oneohtrix Point Never, intervista: «Siamo complici del disastro Trump» | Rolling Stone Italia
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Oneohtrix Point Never: «Siamo complici del disastro Trump»

La bestia nera dell'elettronica è tornato con un album con cui infrangere nuovi tabù. Ma non parlategli di ‘accelerazionismo‘.

Oneohtrix Point Never: «Siamo complici del disastro Trump»

Oneohtrix Point Never non porta più il suo tipico cappello dei Boston Celtics. Al suo posto, Daniel Lopatin ne porta un altro nero, con la scritta “New World Video” sotto un logo rosso. «È la compagnia che ha prodotto Hellraiser», racconta la bestia nera dell’elettronica contemporanea, seduta dietro a un cestone di frutta nella sede londinese di Warp. «In realtà l’altro l’ho perso, ma avevo comunque bisogno di un cambiamento». Si fosse limitato al berretto, ora Daniel passerebbe per regista (se glielo dici ti sorride compiaciuto) anziché camionista. Invece, la voglia di cambiamenti ha coinvolto anche Age Of, il disco che l’ha portato persino a rompere il tabù di cantare su un proprio pezzo.

Davvero non hai mai cantato prima d’ora?
L’ho fatto in un pezzo di Rifts, un disco del 2009, ma nessuno se lo ricorda. Al college scrivevo delle canzoni più o meno psichedeliche, per sola chitarra e voce. Poi ho scoperto i computer. E da lì, ciao.

In ogni caso l’autotune è una novità per te. Sembri quasi Yung Lean.
Che stiloso, lui. Quando ero giovane però non c’era l’autotune. Oddio, in realtà esisteva.

Certo, c’era Cher!
Molto prima di Cher, lo usavano negli anni ’80 per correggere la voce della gente stonata. Solo che faceva cagare, quindi non lo usava nessuno. Già in Garden of Delete avevo scritto delle linee di voce, che poi ho deciso di affidare ai synth. Mi piace cantare, è un ottimo modo per esprimere concetti poetici. A volte ci vogliono le parole.

Quindi non ti stai trasformando da produttore ad artista vocale come hanno già fatto Arca o, boh, Kanye.
Non penso. Sono in costante transizione, è quella la natura di OPN. Negli ultimi due anni poi ho lavorato molto con cantanti, avendo prodotto Anohni, David Byrne, FKA twigs… C’è un pezzo nel disco, The Station, che inizialmente avevo scritto per Usher. Ma non gli dev’essere piaciuta.

Ma l’hai scritta così a caso, Rifts, pensando a lui, o l’hai conosciuto?
L’ho conosciuto. C’è gente che propone featuring via mail, ma io non ce la faccio. Devo percepire affinità di persona. Comunque a te sembrerò Yung Lean, ma io quando mi sono riascoltato ho pensato: “Cazzo, sono Paul Simon”.

Eri un metallaro? Perché non riesco a spiegare tutti quei clavicembali e gli arpeggi barocchi.
L’estate in cui ho registrato il disco, l’ho passata da solo a guardare film di Kubrick. Ho affittato questa casa al confine col Connecticut, in una cittadina un po’ inquietante dove la gente gira con le magliette degli Slipknot e probabilmente vota Trump. Guardavo film di tre ore e poi mi alzavo e registravo. Penso che il clavicembalo sia uno strumento incredibile perché è monotonale, come se fosse musica elettronica di 300 anni fa. E poi è affilato e aggressivo, e io in queste cose ci sguazzo. Ma non mi definirei un ex metallaro. Diciamo che ero timidamente accettato nella scena hardcore di Boston.

Però stavi sempre sulle tue, magari eri anche straight edge…
Le droghe per me sono sempre state un veicolo introspettivo, qualcosa per esplorare la mia mente. Ero un ragazzo molto chiuso in me stesso. Non ha aiutato il fatto che sia cresciuto in New England e poi mi sia trasferito a Boston. Che posto di merda. Genera anche gente interessante, eh, dalla musica alla commedia, ma è soltanto la risposta a una città rigida e noiosamente fissata con lo sport.

Come mai hai omesso il complemento nel titolo del disco?
L’ho chiamato Age Of perché credo che la parte più interessante della vita sia quella sussurrata, non nei libri di Storia. È stupido dare titoli alle epoche, per me è più importante lasciare a ognuno definire la propria. Non puoi avere tutte le risposte quando le cose vanno di merda. Dove eravate tutti quando il mondo stava andando a puttane con Trump? E adesso tutti a dare etichette e risposte? È patetico.

Non sei molto ottimista sul futuro…
Trump è solo un piccolo step che porterà a un futuro di gran lunga peggiore. L’altro giorno ho postato su Instagram una story con un breve aneddoto. Ci sono Tom e Jerry che fanno le loro solite lotte. Tom infila il fucile in un buco nel muro per sparare a Jerry che sta nell’altra stanza, ma finisce per spararsi da solo. È esattamente la nostra epoca. Ora siamo tutti spaventati, ma abbiamo iniziato a farlo quando era troppo tardi.

Quindi vorresti essere apolitico nella tua musica, ma non ci riesci.
Non sono un tipo politico, ma certe cose non posso proprio ignorarle. Mi piace fantasticare sulle cose quotidiane, è un modo per trovare la verità di tutto ciò che sta fuori dal mio studio. Ecco perché nelle grafiche del disco mi rifaccio alla storia di Gargantua e Pantagruel. È una splendida amplificazione della vita di tutti i giorni. Personaggi che vivono letteralmente nella merda ma che si ritrovano in un’avventura fantastica. D’altra parte però questi personaggi si fondono fisicamente con l’utensile del loro lavoro, cosa che incarna molto l’ansia dell’uomo moderno, e la mia in particolare.

Tempo fa si è parlato tanto della teoria accelerazionista anche nella musica. In pratica, qualcuno ha affibbiato dei canoni estetici ben precisi alla filosofia politica che mira ad accelerare i meccanismi perversi del capitalismo, così da distruggerlo. Fra i tanti artisti inseriti nel suo manifesto ci sei anche tu. Sei d’accordo?
Nella maniera più assoluta, no. Quando sento quella parola metto la mano sul revolver. Anche se adoro gli scritti di Nick Land, è davvero inconcepibile negare la complicità di chiunque con il capitalismo. Non puoi farlo con un iPhone in mano. È come un culto: sei così accecato dalle tue convinzioni che non ti rendi conto della complessità della cosa contro cui lotti. Non credo a chi crede di sapere tutto, né tantomeno a chi parla di utopia o di arcobaleni dietro l’angolo. Sono solo dei fanatici.

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