Omar Pedrini: «Sono un sopravvissuto come Vasco, Keith Richards e Ozzy» | Rolling Stone Italia
La vita sospesa

Omar Pedrini: «Sono un sopravvissuto come Vasco, Keith Richards e Ozzy»

Intervista: il nuovo disco ‘Sospeso’, le quattro operazioni al cuore in 18 mesi, i ragazzi di Ultima Generazione, la spiritualità. Ma anche la fallita reunion dei Timoria e il rapporto con Renga: «Il problema è che si trombava la mia fidanzata e lo negava»

Omar Pedrini: «Sono un sopravvissuto come Vasco, Keith Richards e Ozzy»

Omar Pedrini

Foto: Jarno Lotti

Se fosse possibile redigere un manuale per diventare rocker, questo non dovrebbe prescindere dall’esperienza umana e artistica di Omar Pedrini, un “cane sciolto” che ha saputo rimanere fuori dalla mischia e crearsi attorno una rete sociale che tanti altri, più esposti alle luci della ribalta, possono soltanto sognarsi. E quando torna con un disco, ormai più o meno a distanza di 6-7 anni, è dalla musica che è giusto partire ma per arrivare a tanto altro.

Non a caso l’album Sospeso, in uscita domani – il diciottesimo in totale, fra gli undici con i Timoria e i sette da solista – comincia da quello che lui stesso ha definito «il mio calvario», e cioè i problemi di salute che lo affliggono da tempo, per poi passare a empatizzare con le sofferenze del pianeta. In queste nove canzoni e un’Ave Maria, non c’è distanza fra la sfera personale e quella collettiva, tornando alla migliore tradizione dell’impegno civile del rock.

Per l’occasione lo abbiamo incontrato, e nonostante tutto quello che ha patito – da ultime quattro operazioni al cuore in 18 mesi – ha dimostrato di avere ancora voglia di incidere nel dibattito pubblico da parte di un artista come non si vedeva da un pezzo. Nei nuovi brani tratta temi come il cambiamento climatico, sprona gli attivisti di Ultima Generazione (che cita esplicitamente), invita la politica al dialogo e al cambiamento, si rivolge ai giovani da «cattivo maestro» ma per sollecitarli e non per frenarli, oltre a sottolineare a tutti gli altri che «quando siamo felici facciamoci caso».

La sua è un’esistenza di chi ha molto vissuto e non si è risparmiato nulla, nel bene e nel male. Così, grazie a questo nuovo lavoro in studio, siamo risaliti ai ruggenti anni ’90 fra alcol, droghe e notti insonni. All’esplosione del rock alternativo in italiano che ha conquistato il Palalido con i Timoria capofila, e alla rottura con Francesco Renga sulla quale parla senza remore: «Non l’ho odiato perché mi ha trombato la fidanzata, ma perché lo negava dicendo in giro che l’avevo cacciato». Un rapporto che, nonostante la riappacificazione, non è ancora risolto. L’ennesimo “sgarbo” nel 2017, con la reunion a un passo e con il collega che, invece di presentarsi all’incontro, manda il manager a declinare l’invito preferendo l’ennesimo Sanremo. Pedrini ha riunito tutte le tribute band e riportato live Senza vento dopo 25 anni in quella che considera «la più grossa figata che ho fatto nella mia vita».

In questa lunga chiacchierata, poi, c’è spazio per l’Omar più intimo. Le numerose operazioni al cuore, come quella dove disse ai medici: «Non fatemi uscire l’anima». Il conforto del buddhismo e il riavvicinamento alla Chiesa cattolica grazie a Papa Francesco e ai preti che «mettono il corpo a supporto delle proprie idee». La tv, che fu tra i primi a frequentare e dalla quale è scappato («la gente non mi parlava più delle mie canzoni»). I social scoperti tardi e per caso che lo hanno riportato al suo pubblico «che pensava fossi morto o scomparso». E una certezza che non lo ha mai abbandonato, da buon anarchico e pacifista: «Io sono nato incendiario e morirò piromane».

Dopo quello che hai vissuto, un po’ per il titolo Sospeso, un po’ per l’assenza di ospiti nel disco, ci si aspettava un lavoro musicale tutto incentrato sulla malattia. Invece questo lavoro contiene molto di più: la questione climatica, il sostegno agli attivisti di Ultima Generazione, una canzone dedicata a tua figlia e idealmente a tutti i giovani e persino un’Ave Maria.
Sì è un disco tutto per il pianeta. Ho sempre avuto un forte impegno ecologista, da quando con i Timoria pubblicammo 2020 SpeedBall ed era il ’95. Purtroppo si è avverato quello che cantavamo, ma allora ci diedero dei catastrofisti. Oggi è impossibile guardare fuori dalla finestra senza notare che questo è il tema centrale. Come quello delle guerre, dove parliamo solo di quelle che ci fanno vedere. Io sono attivista per il Tibet che non trova più spazio, ma è ancora in corso la pulizia etnica. Il problema è che nessuno vuole inimicarsi la Cina. Così sono tornato all’esempio di artisti che amavo, come Neil Young o i R.E.M., che parlavano di queste cose 30 anni fa quando non interessavano a nessuno. Per trovare tracce di ecologismo in Italia bisogna risentire Celentano.

Oggi però in pochi in musica trattano temi sociali.
Per noi che veniamo dagli anni ’90 era un obbligo. O eri impegnato o non facevi questo mestiere. Io capisco perché i giovani hanno bisogno di leggerezza. Non condivido invece i vecchi, come me, che li criticano. Loro hanno bisogno di evadere, noi avevamo bisogno di tirare dentro gli altri. Ma se c’è qualcosa di oggettivo è il cambiamento climatico, che tu sia di destra, sinistra, giovane o vecchio.

Omar Pedrini - Diluvio Universale

Anche perché al momento del Diluvio universale, per citare il primo singolo estratto dal disco, non ci sarà tempo per questi distinguo.
Esatto, è la giusta guerra. Ed è paradossale che non lo abbiamo ancora capito tutti. Sospeso è un disco ecologista, ma fa un passo avanti rispetto a Pianeta blu che era in Che ci vado a fare a Londra?. Quel pezzo era nato quando prendevano in giro Greta Thunberg. Stavolta vedo che sul carrozzone stanno salendo in tanti. Se c’è gente che lo fa per interesse ben venga, tanto primo o poi questo percorso dovremo farlo tutti. Io sento una osmosi tra la mia condizione e quella del mondo.

Ho visto diversi ragazzi che spalavano il fango dopo l’alluvione in Romagna che avevano come sottofondo proprio Diluvio universale.
Mi hanno mandato i video. Da un lato mi è spiaciuto per quello che è accaduto, dall’altro mi ha fatto piacere che quella canzone gli desse speranza. Adesso siamo in tanti a sensibilizzare, ma bisogna andare oltre. È il momento dei fatti, altrimenti continueremo soltanto a parlare e a inquinare. Va bene discutere, va benissimo studiare, ma è il momento del cambiamento. E ho citato Ultima Generazione per dimostrargli la mia vicinanza.

L’aver preso le difese degli attivisti per il clima ti ha portato a scontrarti persino con un tuo grande amico, lo scrittore Mauro Corona, che a Cartabianca su Rai 3 ha invocato punizioni severe.
Per la prima volta ho litigato con un amico come lui. L’ho chiamato e non mi risponde. Sarà incazzato, ma sono sicuro che gli passerà. Intanto che un uomo come Mauro Corona, sensibile e attaccato alla natura, che si sveglia la mattina e parla con il picchio verde, li veda come nemici mi ha fatto capire quanto sono invisi all’opinione pubblica. Io sono un anarchico pacifista e anche loro sono pacifisti. Adesso dobbiamo parlargli. La prima mossa sbagliata del governo è stata processarli.

Da artista non ti indigna che spesso gli attivisti imbrattano le opere d’arte?
Te lo dice uno che ha curato festival e mostre d’arte, il solo vedere l’acqua blu della Fontana di Trevi o il van Gogh imbrattato mi ha fatto stare male. Possiamo discutere dei metodi, alcuni antichi come bloccare il traffico, altri più nuovi verso le opere d’arte, ma intanto hanno attirato l’attenzione di tutti senza tirare un sasso. Io ricordo negli anni ’80, quando ero studente di scienze politiche in Statale a Milano, che c’erano ancora i rigurgiti degli anni ’70 e venivano lanciate le molotov. Il passo verso la violenza è brevissimo e non dobbiamo lasciare quei ragazzi in mano ai violenti. Il G8 di Genova l’abbiamo già vissuto. O vogliamo esacerbare gli animi? Prima o poi, se non ascoltati, diventeranno violenti e da Ultima Generazione si trasformeranno in Ultima Degenerazione. Da parte mia pretendo che la politica gli dia delle risposte concrete.

Eppure, a parte il tuo disco, si fatica a trovare altri artisti che in musica sostengono queste cause. Come te lo spieghi?
Non possiamo pretendere che Calcutta scriva dei testi come De Gregori. I ragazzi di oggi vogliono le sue canzoni per le bellissime melodie che è in grado di creare e perché racconta i loro bisogno e i loro disagi. L’arte è taumaturgica. E se li vogliamo curare con l’arte non possiamo proporgli un disco come Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi, per citare i CCCP che sono tornati insieme e sono uno dei miei gruppi preferiti. A 16 anni li ho visti dal vivo a Reggio Emilia.

Insomma, non ti senti un boomer.
Amo i giovani e non faccio parte di quelli che dicono «ai miei tempi era tutto migliore». Ora i vecchi rocker criticano aspramente il disimpegno, al di là dei generi. Ma io da docente del master in Cattolica per 16 anni di fila ho avuto a che fare con ragazzi dai 20 ai 27 anni. Li provocavo, da buon “cattivo maestro”, e parlandoci ho capito che i loro problemi li conoscono bene, più di noi alla loro età. Se non sono “sdraiati”, come li aveva definiti Michele Serra, vanno in piazza a protestare.

Sarà che il cellulare, con internet e i social li ha resi più consapevoli?
È la struttura che determina la sovrastruttura.

Che rapporto hai con la tecnologia?
Quando mi sono trovato con il culo per terra per fortuna c’è stato qualcuno che mi ha fatto capire l’importanza dei social. Era il 2013, senza contratto discografico, ormai pensavo soltanto alla docenza e dal nulla mi chiamò il Teatro Parenti di Milano per chiedermi se avessi qualcosa da proporgli. Poco prima conobbi l’attore Nicola Nocella sul set di un film di Pupi Avati, del quale avevo scritto la canzone portante. Quando l’ho incontrato, dopo aver saputo che era un mio fan e dei Timoria, ci ho rivisto John Belushi.

E cosa c’entra con l’importanza dei social?
Abbiamo chiacchierato molto e a un certo punto mi dice: «Da tempo ho uno spettacolo da proporti, ma non riuscivo a contattarti perché non hai i social». Così abbiamo unito la proposta del Teatro Parenti con il suo spettacolo su John Belushi, Sangue impazzito è diventata la colonna sonora del suo ultimo giorno di vita e abbiamo avuto un mese di sold out. Ma per promuovere lo spettacolo lui mi ha aperto Facebook e Twitter, Instagram ancora non c’era in Italia. Da allora ho capito quanto sono utili. Le persone pensavano fossi morto o scomparso, invece mi hanno permesso di ritrovare il pubblico.

Foto: Jarno Iotti

Neanche la tv, dopo che sei stato fra i primi rocker a frequentarla e a condurre programmi, ti aveva permesso di mantenere il tuo pubblico?
Quando a causa della malattia non ho potuto suonare, mi sono dedicato alla tv e sono stato criticato perché i rocker allora non dovevano andarci. Sono passato da Match Music, Rai 5, Sky Arte e Gambero Rosso, ma ho capito che mi allontanava dalla musica e, in controtendenza, sono scappato.

Invece da qualche anno c’è la fila di musicisti che vogliono fare tv.
Ma io sono un cane sciolto, un bastian contrario. Vedevo che la gente mi fermava e non mi parlava più delle mie canzoni e non potevo sopportarlo. È quello che dev’essere successo anche a Morgan, che ha cavalcato molto bene X Factor. Tanto che non avevo capito perché non aveva deciso di continuare a fare tv. Quando ci andavo io non c’erano neanche i social.

Lo spettacolo teatrale di cui mi stavi parlando aveva un titolo che era tutto un programma per uno come te che ne ha passate di tutti i colori.
Si intitolava Quando siamo felici facciamoci caso. Il mio dovere è dire alla gente che è fortunata, quindi che non deve rompere i coglioni. Deve uscire e spaccate il mondo, aiutare gli altri, gli ultimi in particolare, evitare l’inquinamento. Non possono impegnarsi soltanto le persone che hanno scampato qualcosa di grave. Io ero programmato per morire a 27 anni e sono ancora qui.

Ti senti un sopravvissuto?
Sì, come Vasco Rossi, Keith Richards o Ozzy Osbourne faccio parte dei sopravvissuti.

Nel disco, fra le tante cose, parli fra le righe della tua malattia al cuore che da anni ti fa entrare e uscire dagli ospedali. Qual è stato il momento peggiore?
Tre anni fa. Mi hanno trovato peggiorato, solo che per tutto il 2021 ho dovuto aspettare ad operarmi perché tutti i reparti erano diventati Covid. La prima è andata male, la seconda non ha risolto, la terza nemmeno, alla fine ne ho fatte quattro in 18 mesi. A un certo punto ho pensato «sto partendo». Anche perché ti convinci che non te lo dicono se stai per crepare.

Ogni volta, scherzo del destino, i problemi al cuore sembrano tornare a farti visita nei momenti di ripartenza.
La prima nel 2010, quando mi sono presentato a Sanremo senza i Timoria. Ho vinto il premio della critica come miglior testo con Lavoro inutile, ero convinto di rinascere anche senza la band e due mesi dopo cado per terra e non c’era più musica, soltanto le cure.

Cosa ricordi di quel periodo?
Che sono entrato in ospedale dicendo ai medici: «Non fatemi uscire l’anima». Però mi sentivo arrivato a pagare il conto degli eccessi del passato, tra droghe e alcol. Credo di aver dormito un anno nei quindici anni precedenti. Solo che mi sono salvato e mi ero convinto fosse finita lì. Infatti dopo ho vissuto con un grande entusiasmo, ho mantenuto qualche vizietto, perché credevo di averla sfangata. Invece 12 anni dopo, quando mi innamoro di mia moglie, è proprio lei a dirmi che devo essere operato. È figlia di un cardiochirurgo.

Quando tutto sembra andare per il meglio il tuo cuore torna a farti pagare il conto.
Mi stava saltando tutto e mio suocero mi ha spiegato che ogni 4-5 anni dovrò sempre fare una o più operazioni, per tutta la vita. Adesso non ho più niente di mio, sono bionico.

Come si reagisce a livello umano a una condizione del genere?
Ho frequentato un ashram tibetano, lì ho imparato che il mio calvario era quello e come trasformarlo in positività. La spada di Damocle sulla testa ce l’ho come tutti, solo che io me ne rendo conto. Ma è bello anche essere utile agli altri.

In che modo?
Per esempio la settimana scorsa mi ha scritto una ragazza che stava male e attendeva una operazione complessa e le ho risposto: «Sai cosa faccio quando capita a me? Vado a vedere i bambini nel reparto pediatrico». Ho la pelle d’oca a raccontarlo. Guardandoli dal vetro o nella sala giochi insieme alle loro mamme capisco che loro sono molto più sfortunati e, comunque vada, a me è andata bene. Mi auguro di aver dato un po’ di forza anche a lei.

È l’esserti avvicinato alla spiritualità che ti ha portato a coltivare questa positività?
L’aver frequentato un ashram, il buddhismo e la mia adesione alla causa del Dalai Lama, ma a un certo punto mi sono reso conto che con Papa Francesco mi stavo riavvicinando a una parte della Chiesa cattolica. Che è forse è la cosa più trasgressiva, per uno come me. Dopo aver abbandonato del tutto la passione politica con la scomparsa di Marco Pannella, ho notato che i politici migliori oggi sono certi preti. Prima Don Gallo, poi Don Ciotti e adesso Don Bruno Bignami, con il quale ho collaborato per salvare Nonna Quercia, una pianta secolare a Castelvetro piacentino. Sono loro che mettono il corpo a supporto delle proprie idee e mi hanno dato tanta forza. Per questo ho scritto il brano Dolce Maria, che è contenuto nel nuovo disco.

Una conversione?
Non proprio perché anche in quel pezzo mi pongo ancora dei dubbi. Ma Cristo, che si può credere sia il figlio di Dio o meno, sicuramente è stata una figura filosofica anarchica, un po’ socialista, che come tutti i pacifisti, con Gandhi, Martin Luther King o John Lennon, è stato ucciso. Se sei pacifista sei scomodo, rompi le palle un po’ a tutti.

Nel disco è presente anche un brano dedicato a tua figlia, Una e unica. I tuoi tre figli come hanno vissuto i momenti bui dei ricoveri e delle operazioni?
Il primo figlio maschio è ormai grande e si è abituato. Non gliel’ho mai fatto pesare. Per lui è una routine vedermi entrare e uscire dagli ospedali. Uno ha solo due anni, quindi non si è ancora accorto di niente. Ma mia figlia, che ne ha dieci, comincia a farmi domande. Prima dell’ultimo ciclo di operazioni mi ha regalato un braccialetto costruito con le sue mani. In quel momento mi sono commosso e ho capito che iniziava a comprendere che il papà non usciva a fare una passeggiata.

Coi Timoria ai tempi di ‘2020 Speedball’. Foto press

Facendo un salto all’indietro di molti anni, qual è stato il momento migliore dei Timoria?
Io i Timoria li divido in due fasi, quelli con Renga e quelli senza Renga. Il momento migliore della prima fase è il disco d’oro, che è stato anche il primo del rock alternativo in italiano. E la consacrazione il concerto al Palalido del ’96, perché fino ad allora ci suonavano soltanto gli stranieri. Dovevamo esibirci al Rolling Stone, solo che erano stati venduti mille biglietti in pochi giorni e così Claudio Trotta, allora nostro promoter, propose di spostare il concerto al Palalido. Un live fantastico, un sold out con mille persone rimaste fuori.

È quando una band arriva all’apice che iniziano i problemi?
Se ti riferisci all’allontanamento di Francesco Renga, non è stato dovuto a problemi nella band, abbiamo litigato per una donna. Il problema è che lui si trombava la mia fidanzata dell’epoca. Dopo anni lo posso dire perché lui ci ha giocato per molto tempo non ammettendolo e dicendo in giro che lo avevo cacciato. Non l’ho odiato perché lo aveva fatto, ma perché lo negava. Fu un trauma pazzesco. Poi un giorno si è scusato e mi ha invitato a cantare a un suo concerto. Ma prima non potevo guardare in faccia chi mi aveva tradito. Poi uscì Sole spento, altro disco d’oro, che è il momento migliore della seconda fase dei Timoria.

Non dev’essere stato facile anche a livello artistico proseguire.
La casa discografica mi faceva capire che senza Renga non valevamo più un cazzo. Tanto che Sole spento sarebbe stato l’ultimo disco da contratto e non ci avevano chiesto di rinnovare. Ci consideravano finiti.

Ricordo che per un periodo al posto di Renga subentrò Sasha Torrisi.
Sì, quella fu una mia idea ma non funzionò. Molti mi consigliavano di fare dei provini, ma a me non convincevano. Mi piaceva il cantante dei Karma, David Moretti, solo che era astemio e allora non pensavo ci sarei andato d’accordo a lungo. Alla fine la scelta è ricaduta su Sasha, che ci seguiva da tempo. Non volevo sostituire Renga, ma avviare una sorta di svolta West Coast. Purtroppo quella formula non funzionò e da lì nacque Sole spento cantata da me, più per necessità che per diletto.

Visto che vi siete riappacificati ne approfitto: a quando la reunion dei Timoria, Renga incluso?
Prima soffrivo a questa domanda, adesso no. E posso dire che nel 2017 mi chiamò il discografico dicendomi che nel 2018 cadevano i 25 anni di Viaggio senza vento. Volevano ristamparlo, uscire in CD, vinile e anche organizzare la tournée. Era il momento della reunion e io, che fino a quel punto non volevo saperne nulla, mi sono convinto. Così ci ho provato convocando i Timoria.

E perché non si è fatta?
Ci diamo appuntamento nello studio di un avvocato per parlarne, ma prima di tutto per rivederci perché erano anni che non lo facevamo di persona. Io arrivo con un vassoio di pastiera napoletana, tanto per mettere in chiaro quale fosse il mio spirito più che positivo. Erano tutti presenti, persino Illorca in sedia a rotelle (a causa di un incidente stradale, ndr), mentre Renga ci ha mandato il suo manager. Io permaloso come sono, puoi immaginare come l’ho presa…

Vi ha dato delle spiegazioni?
Ha detto che non poteva partecipare perché aveva Sanremo. Era il settimo o l’ottavo che faceva, non poteva rinviare all’anno dopo? Anche perché con il suo pop melodico non è che stesse andando così bene come prima. Ho messo da parte l’orgoglio e cercato comunque di convincere il suo manager perché sarebbe stato positivo a livello di immagine per tutti, lui compreso. L’etichetta era così convinta di sostenerci che aveva proposto Marracash o Fabri Fibra con i quali collaborare.

Ma non c’è stato nulla da fare.
Purtroppo no. Renga non ha accettato. Allora guardo gli altri e gli dico che potevamo farlo comunque. Loro hanno preso tempo e sono spariti tutti. Sono rimasto da solo con un pugno di mosche. Renga fece quel Sanremo e non gli andò benissimo, arrivando tra gli ultimi.

La tournée di Senza vento tu però l’hai realizzata comunque.
Sì, perché la Universal era decisa ad andare avanti nella ristampa dell’album, allora ho avuto un’altra idea. Mi avevano proposto di chiamare Piero Pelù, ma non me la sentivo con quella formula. Poi mi sono ricordato di quanta gente canta ancora le nostre canzoni e ho fatto un sondaggio sui social fra le tribute band. Dal censimento ne sono saltate fuori ben nove. E quando sono andato a sentire dal vivo i Precious Time sono rimasto a bocca aperta…

Cosa ti ha colpito?
Al Druso di Bergamo avevano di fronte 550 paganti. E quando sento il cantante, Davide Apollo, mi accorgo che ha una voce straordinaria. Non solo simile a Renga, ha delle doti personali. Insomma, erano in programma soltanto sei date, ma la tournée è andata avanti per 48 in totale. Al Fabrique di Milano c’erano 2300 paganti, non li facevo dai tempi di Senza vento. Ma il momento migliore è stato quando i membri di tutte le tribute band sono saliti sul palco e abbiamo cantano insieme Freedom. Alla gente è arrivato lo spirito di questa scelta e credo sia stata la figata più grossa che ho fatto nella mia vita. Ma non ho vinto io contro Renga o gli altri Timoria. Ha vinto la nostra musica.

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