Omar Pedrini: «Non ho nessuna intenzione di smettere di suonare» | Rolling Stone Italia
«Vivo, ma non del tutto»

Omar Pedrini: «Non ho nessuna intenzione di smettere di suonare»

Non ci sarà un addio alla scena live, ma un rallentamento dell’attività per via del «cuore tenuto assieme con lo scotch». In attesa del concerto a Milano e del «tour a rate», intervista a un rocker a cui tutti vogliono bene e che sa parlare con tutti, «preti e pregiudicati»

Omar Pedrini: «Non ho nessuna intenzione di smettere di suonare»

Omar Pedrini

Foto: Jarno Lotti

Ok, lo sappiamo ormai da un po’ di tempo, ma onestamente resta difficile pensare che, da qui a qualche mese, i giorni da rocker di Omar Pedrini saranno qualcosa di cui parlare solo al passato. Forse per rassicurarci, il buon Omar ha tenuto a dirci che il suo non è un addio alla musica, né tanto meno un saluto definitivo alla scena live, ma solo un inevitabile riduzione dell’attività. L’unica vera rinuncia, quella sì a tempo indeterminato, riguarda il lato elettrico della faccenda, per via dei troppi sforzi imposti da quel tipo di show e che il suo stato di salute non gli consentirebbe più di fare come vorrebbe.

Dopo una prima serie di concerti di commiato in giro per l’Italia, Pedrini ha aggiunto una data il prossimo 18 gennaio ai Magazzini Generali di Milano, sua città d’adozione. Il concerto sarà anche l’occasione per celebrare i dieci anni dall’uscita di Che ci vado a fare a Londra?, l’album che ne sancì la rinascita artistica e umana.

Che significato ha per te Che cosa vado a fare a Londra?
Resta il mio album solista a cui forse sono più legato, non solo perché mi permise di tornare in gioco dopo essere stato costretto dalla mia salute a sparire dal giro, ma anche perché venne accolto in modo straordinario. Inoltre ad esso sono legati ricordi indelebili, come la collaborazione con Noel Gallagher e i Folks, ma anche per i nove mesi di tour che ne seguirono. Che mi portarono a rischiare ancora la pelle, ma furono tra i più belli della mia vita. E per celebrarlo abbiamo pensato di invitare proprio il leader dei Folks, Michael Beasley. Il giorno dopo l’album sarà anche finalmente ristampato da Virgin Music, con l’aggiunta di due bonus acustiche, Veronica e We Are All Dead, registrate con lo stesso Michael e con Ron, che ai tempi ci aiutò con il suo studio.

Non sei milanese di nascita, eppure, se non fosse per la cadenza che tradisce ancora le tue origini bresciane, potremmo pensare davvero che tu sia nato nel capoluogo lombardo. Non a caso, sei uno degli artisti non milanesi che abbia cantato la città di più e con più cura.
Sono qua da 23 anni ormai, quindi inevitabilmente la città fa parte di me e viceversa. Facendo parte di quella schiera di artisti che in genere vengono definiti cantautori, difficilmente parlo di cose di fantasia, tendo a parlare delle mie esperienze dirette. Così come prima avevo cantato la mia provincia d’origine, in seguito mi sono trovato a farlo di Milano e ne ho parlato in quantità. Sulla qualità invece non mi pronuncio, perché non sta a me dirlo. Mi viene subito in mente Milano non è l’America, ma anche Sud Europa con i 99 Posse, che trattava il declino della grande bolla della Milano da bere, Milano come capitale immorale. Poi c’è quella che canto in Non è divertente e quella di Un Aldo qualunque sul treno magico, con la coca e i party a fare da padroni, “come è bella Milano quando sei un vincente, quante feste ad invito, quante facce contente”. E poi c’è quella più poetica, se vogliamo, che ho descritto in Il cielo sopra Milano che arriva dall’aver potuto vivere in prima persona un cambiamento come quello legato ai grattacieli e al lento scomparire della vecchia città, quella più romantica e jannacciana. Vivendo da molti anni nel quartiere Isola, ho potuto vedere tutti i passaggi di questa trasformazione, dagli scavi ad ogni parte delle costruzioni. Ma allo stesso tempo avevo ancora vivo il ricordo del mio arrivo qui, il piccolo contrabbando, chi vendeva il fumo e le signorine sulla strada con cui spesso passavi le sere a parlare. Quindi sono arrivato che era un quartiere off, trafficone, e l’ho visto trasformarsi in un posto à la page. Non sono contrario al progresso, ma mi mette nostalgia vedere il ciabattino o il fornaio che provano a resistere di fronte a tutto ciò.

Era e rimane una città ambivalente quindi per te, un concetto un po’ morrisionano se vogliamo. Mi viene in mente L.A. Woman, che è un po’ descrizione della città, con le sue contraddizioni e un po’ una donna che seduce.
Sì, assolutamente. Dalla fine degli anni ’80 ho iniziato a comprendere tutte le contraddizioni di quel decennio, tutto quello sfarzo che non si poggiava su basi culturali di nessun tipo e la mia paura è solo che la “nuova” Milano finisca per fare la stessa fine. Non dobbiamo dimenticarci che questa è una città che è stata resa grande dalle sue intelligenze, dagli scrittori, gli architetti, gli artisti. E anche da chi è venuto da fuori come me ma ha cercato di dare qualcosa. Non dobbiamo perdere quel sapere. Per questo ho dedicato il mio ultimo album a gente come Andrea Pinketts, Giovanni Gastel e Matteo Guarnaccia. Da un certo punto di vista, venire da fuori e diventare milanese d’adozione mi ha aiutato ad avere una visione diversa. Non avevo mai pensato a Morrison, me lo fai notare tu e lo prendo come un grande complimento, che mi terrò stretto nei momenti difficili. In effetti però Milano ti ammalia e illude come una top model che, a un piano più profondo però rischia di non avere anima. O meglio, tendi a non vederne l’anima. Di questo ho paura: che Milano perda la sua anima o la nasconda fino a non renderla più visibile.

Il tema della violenza sulle donne è più attuale che mai e in questo senso la tua sensibilità è sempre stata elevatissima. Nel tuo libro Angelo ribelle, parlando dei momenti passati dalla parrucchiera che ti teneva quando tua madre lavorava, ricordi i racconti delle clienti, le violenze che subivano e che ti sentivi dalla parte dei cattivi. Così come nel recente video di Dolce Maria, che hai girato prima degli ultimi tragici fatti di cronaca e che hai voluto posticipare proprio per non sembrare opportunista.
Sì, il punto è proprio quello: io sapevo di non far parte di quelle persone orribili, ma solo il fatto di appartenere al genere maschile mi disturbava. Il mio era un quartieraccio, ma crescere circondato da donne è stato salvifico. Mia moglie ci tiene a dire che mi ama come maschio, ma proprio perché alla base di quel maschio c’è un tipo di sensbilità mutuato proprio da quelle esperienze. Già il video di Nina di qualche anno fa era una dichiarazione d’amore per le donne, ma Dolce Maria è forse il brano più trasgressivo che abbia fatto, perché ho anche messo in piazza il mio lato più spirituale. Quando ho scritto il testo ho pensato a Maria come a una donna, è una Maria umana scesa sulla terra. È una madre che ha perso un figlio giovane. Come mi è capitato di dire, questa è una preghiera per il mondo, in cui io prego per quelle che secondo me sono le piaghe del mondo di oggi: l’errata distribuzione delle ricchezze, la forbice economica, la sete di denaro e la mancanza di attenzione per il pianeta. E, in particolare, la violenza di genere. Siccome mi piace scrivere le sceneggiature dei miei videoclip, ho pensato che fare un video in cui descrivere tutte queste cose sarebbe stato rischioso. Temevo potesse venirne fuori un’accozzaglia di cose tutte affrontate in modo troppo superficiale. Quindi ho deciso di concentrarmi sulla cosa più urgente. Poi, il giorno in cui avremmo voluto pubblicarlo ha finito per combaciare con quello della morte di Giulia ed eravamo così scossi che non ce la siamo sentiti. Era una questione di delicatezza, visto che già il video finiva con l’immagine forte di Maria fatta donna che viene picchiata a sangue. Perché anche lei farebbe quella fine oggi.

Omar Pedrini - Dolce Maria

Dici che parlare del tuo lato spirituale sia la cosa più oltraggiosa che hai fatto, ma in realtà il tuo percorso e la tua poetica sono sempre stati in bilico fra sacro e profano.
Nonostante gli abusi degli anni passati abbiano inevitabilmente lasciato dei segni sul mio cervello, credo di essere ancora perfettamente in grado di analizzare il mio lavoro, ma non lo faccio mai. Non voglio mai che la mia parte intellettuale finisca per diventare un limite alla mia creatività o un giudizio troppo critico di quello che faccio. Lascio quindi che siano gli altri a farlo, bene o male non mi interessa. Però è vero, ho sempre oscillato tra due opposti. Non ho mai conosciuto il grigio, un po’ come l’arte contemporanea, in cui il concetto di base sono gli opposti: il bianco e il nero, il vuoto e il pieno. Che poi potrebbero essere anche il bene e il male della filosofia, dalla Grecia a Nietzsche e Schopenhauer, o Eros e Thanatos. Infatti vado d’accordo con gli ultrà e i pregiudicati e, allo stesso tempo, con molti preti. Preti combattenti, chiaramente. I gesti politici più belli degli ultimi vent’anni sono stati fatti da sacerdoti, quelli uccisi dalla mafia, Don Gallo e Don Ciotti, che hanno cercato di colmare il vuoto scandaloso e dozzinale della politica. L’ultimo politico a cui ho creduto, con tutte le sue contraddizioni, è stato Marco Pannella. Oggi siamo arrivati al punto che le cose più progressiste arrivano da Papa Francesco. Per questo per l’Immacolata ho voluto portare la mia personale Ave Maria in Vaticano in occasione del pasto comune per i senzatetto presieduto dal cardinale Konrad Krajewski, che proprio insieme a Francesco quattro anni fa a aperto le porte di Palazzo Migliori a decine di persone senza fissa dimora.

Prima hai citato un Aldo qualunque sul treno magico, un disco di culto, amato tantissimo dai pochissimi che lo hanno, come dici tu. Il recupero di Fresco, risuonata per il nuovo disco, arriva dalla voglia di farlo riscoprire?
Quello mi farebbe molto piacere, perché quel disco (l’ultimo dei Timoria, nda) avrebbe meritato una sorte diversa. Il motivo del recupero di Fresco, però, è molto più semplice. Quando ho finito Sospeso, io e chi mi circondava eravamo soddisfatti e l’unico problema sembrava quello di scegliere un singolo tra diversi pezzi che ci sembravano adatti a diventarlo. Poi, uno dei miei collaboratori mi ha preso da parte e mi ha detto: «Sai cosa, questa volta manca proprio una ballatona pedriniana». Io mi trovavo in ospedale e, sebbene fossi riuscito spesso a scrivere in quella situazione, non riuscivo davvero a trovare le parole per descrivere i miei sentimenti. Era uno di quei pochi momenti in cui la mia proverbiale positività era venuta un po’ meno e l’unica cosa che a cui riuscivo a pensare erano cose semplici, come un bicchiere di vino in riva al fiume con una canna da pesca. Quando qualcuno mi chiamava e mi diceva che non vedeva l’ora di vedermi, di andare a una mostra o a cena con me, io rispondevo: «Se ne esco, lo faremo sicuramente». A furia di ripetere quella parola ho capito che la ballatona pedriniana ce l’avevo già in casa ed era proprio Fresco. Proprio in quei giorni il mio chitarrista Carlo Poddighe aveva trovato un Hammond del ’63 e, visto che la versione dei Timoria era stata fatta con un sintetizzatore, le abbiamo ridato freschezza con l’aggiunta dello strumento che avrei voluto anche ai tempi.

In quel disco, per altro, c’era anche un’altra canzone in qualche modo a tema ospedaliero che secondo me è una delle cose migliori che tu abbia mai scritto, Lulù.
È vero, Lulù era un’infermiera con cui ho avuto una relazione durata tre anni. Avevo una stima e un rispetto infiniti nei suoi confronti perché aveva una dedizione incredibile per il suo lavoro. Mi ricordo che io tornavo alle 5 dai miei concerti, spesso in condizioni discutibili, e l’unica cosa che riuscivo a fare era buttarmi a letto. Ogni volta, però, trovavo lei che si preparava per andare in ospedale. Stavamo insieme una mezz’ora davanti a un caffè e poi lei andava via. Mi fa pensare a tutte le canzoni che ho scritto che hanno come titolo il nome di una donna. Dovrei metterle tutte insieme e farci un disco.

Ma davvero hai intenzione di smettere con la musica dal vivo? Sinceramente, spero ancora che sia una cosa quasi scaramantica, o una dichiarazione alla Kiss, che prima di smettere davvero ci hanno messo vent’anni.
Non ho nessuna intenzione di smettere di suonare e la musica continuerà ad essere il mio mestiere, però è arrivato il momento di smettere di tirare la corda del mio cuore tenuto insieme con lo scotch. La mia vita è una commedia, lo sai. Una commedia che mi ha portato a sposare la figlia di un cardiologo. Quando ho iniziato l’ultima serie di concerti, mio suocero venne a vedermi e alla fine mi disse: «Non te lo dico da cardiochirurgo, ma da nonno dei tuoi figli. Questa cosa non può andare avanti, è troppo pericolosa». Quella cosa mi ha colpito molto. Per questo il tour non ha ancora tutte le date fissate: è un tour a rate. Dopo un paio di concerti passo infatti un po’ di giorni in osservazione per vedere quanto ogni show incide a livello cardiovascolare. Sai, poi la scienza magari tra un paio d’anni avrà inventato una macchinetta che impedisca alla mia aorta di non rompersi più. Però in questo momento sono costretto a fare un passo indietro. Di sicuro scriverò e voglio tonare ad occuparmi di colonne sonore, come ho fatto ormai tempo fa con Pupi Avati. Poi per fortuna negli ultimi anni il teatro canzone è diventato una delle mie occupazioni principali e quella è una cosa sostenibile. Quell’Omar lì credo che ce la farà ancora per un po’. In realtà mi sento una via di mezzo tra i Kiss che ora diventeranno degli avatar e Ozzy, il cui corpo gli dice di mollare ma che continua a promettere di andare avanti. Nel rock‘n’roll esistono delle categorie: i morti nel suo nome come Hendrix o Cobain, i sopravvissuti come Keith Richards e Iggy e gli ammaccati, come me e Ozzy. Vivi ma non del tutto, che hanno bisogno di qualche aiutino per andare avanti a fare il loro mestiere.

Da esponente della cultura musicale degli anni ’90 hai sempre avuto una spinta fortissima alla condivisione e alla contaminazione. Hai sempre detto: se ti piace la mia musica, ascoltati questi dischi, leggi questi libri, capisci da dove arrivo. Qualcosa di simile a quello che faceva proprio uno come Cobain. Tu che traccia pensi di aver lasciato invece?
Ogni artista lascia una sua traccia, lunga o breve che sia. Se un giorno ci sarà anche solo un piccolo graffio su un tavolo lasciato dal mio passaggio, vorrei proprio che fosse la parola contaminazione. Ho sempre cercato di non essere un artista solitario, chiuso in un solipsismo sterile. Mi sono sempre sentito parte di un flusso, di una moltitudine. Per questo sono stato orgoglioso quando, nel 2019, il Club dei lettori italiani mi ha conferito una targa per lo stimolo dato alla lettura grazie alle mie canzoni. Ogni artista contiene moltitudini, fatte dei film che ha visto, dei libri che ha letto e di ogni cosa che ha inglobato. Per quello per me era normale mettere Jodorowsky e Ferlinghetti nello stesso disco, perché l’obiettivo di chi aveva un ruolo politico allora, ma anche oggi, mi sembrava invece quello di tenere la gente nell’ignoranza. Non scopro certo io che l’arte abbia sempre fatto paura al potere. Mia madre, che non aveva potuto studiare, quando parlava a cena sembrava una laureata, perché aveva colmato tutte le sue mancanze studiando e interessandosi a tutto. Forse è la più grande eredità che un figlio possa ricevere. Oggi la curiosità sembra qualcosa da boomer, ma è fondamentale. Per quello parlo di gente come Pasolini, delle figure anarchiche che mi hanno formato o dei grandi pacifisti. Forse sono un illuso, ma cerco di lanciare un messaggio che possa creare proprio quel tipo di eredità.

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