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Omar Pedrini: «Ferlinghetti è stato il più grande rocker anarchico della storia»

Il musicista, che l'ha conosciuto e ci ha lavorato assieme, racconta il poeta ed editore della Beat Generation. «Era un pacifista combattente, un pilastro del Novecento che non si prendeva sul serio»

Foto: Walter Pescara, per gentile concessione di Omar Pedrini

«Mio padre, che ha 83 anni, mi ha chiamato subito perché sapeva quanto fossi legato a lui. Temeva fossi disperato. Gli ho detto che ero triste, ma che 101 anni, dopo tutto, sono una buona età per lasciare il mondo».

Omar Pedrini, cresciuto immerso nell’immaginario della Beat Generation, da avido lettore delle opere di Lawrence Ferlinghetti si era trasformato in caro amico dell’autore di A Coney Island of the Mind. Un rapporto iniziato ai tempi dei Timoria e conclusosi idealmente nel dicembre del 2019, quando Pedrini ha aperto il suo concerto al Fabrique di Milano con Lawrence: A Lifetime in Poetry, film documentario di Giada Diano e Elisa Polimeni. «In pratica è stato l’ultimo concerto della storia di Milano prima della pandemia. Lui era felicissimo del film e dell’idea di usarlo al posto di un gruppo spalla. Quando tutto ripartirà, saremo un po’ più soli».

Hai avuto la fortuna di condividere parte della tua esistenza con uno dei tuoi miti di ragazzino, una cosa che non capita a tutti. Tu che hai condiviso tanto con lui, puoi dirci chi era Lawrence Ferlinghetti o quantomeno chi era il tuo Lawrence Ferlinghetti?
Beh, Lawrence era il più grande rocker anarchico della storia. Ma non solo. Se penso a lui, la cosa prima cosa che ci terrei a dire è che Lawrence era l’amico più giovane che avevo. Era talmente vivo e attivo che sembrava un trentenne. Un trentenne sveglio, mi viene da specificare. Quindi mi mancherà tanto il suo essere così attivo e fortemente legato a ogni epoca in cui è vissuto. Ci sono artisti capaci di segnare un’epoca, ma sono pochi quelli che riescono a estendere l’onda lunga della propria opera così a lungo. Se ci pensi, solo due anni fa fece quella famosa invettiva contro Trump e aveva 99 anni. Pensa a un centenario che decide di travestirsi da Statua della Libertà, con tanto di maschera, per protestare contro l’elezione di un presidente degli Stati Uniti. Faceva tutte queste cose in modo fortemente ironico, perché in fondo era un giocherellone. Chi lo conosceva sapeva bene che Lawrence amava prendersi in giro. In ogni occasione in cui ho potuto condividere qualcosa con lui, non ho mai avuto la sensazione che si prendesse sul serio, che ti facesse pesare il fatto di essere uno dei pilastri della cultura occidentale del secolo scorso.

Un giocherellone che però non si faceva intimidire da nessuno.
Sì, infatti l’ho sempre ritenuto una sorta di ossimoro vivente. Era un pacifista combattente, un rivoluzionario pacifico. Aveva il coraggio di combattere per le cose in cui credeva, ma sempre accompagnato da quel lato comico, quasi caricaturale. Pensa che quando Trump mise insieme la sua squadra di governo, lui mi scrisse: sta mettendo i militari al governo degli Stati Uniti, questo è il segno che siamo di fronte a un quadriennio fascista in America. Aveva già capito come sarebbe andata, perché aveva vissuto praticamente ogni tragedia del Novecento. Il fatto di essersi recato a Nagasaki poco dopo lo scoppio della bomba atomica lo aveva segnato e aveva finito per condizionarne pesantemente l’esistenza. Ripudiava la guerra in ogni forma e non a caso credo sia stato uno dei più grandi pacifisti della storia. Non dimenticherò mai il suo meraviglioso slogan: ridi spesso, mangia bene e ama sempre. Io ci aggiungerei: combatti per i tuoi ideali. Per questo spero che possa restare vivo il ricordo della sua energia. Io sicuramente ne farò tesoro e cercherò di portarne sempre avanti il ricordo.

Anche per non relegarlo solo al ruolo di padre della Beat Generation…
Lui non amava che lo definissero il padre della Beat Generation, ma di fatto lo era. Non lo amava perché riconosceva i meriti agli scrittori che aveva aiutato a pubblicare quelle opere. Si è sempre attribuito meno meriti di quelli che aveva. Ma la sua figura culturale aveva a che fare anche col suo essere anarchico. Fu il primo a portare quel senso di libertà che oggi riconosciamo alla cultura americana di quegli anni, in qualche modo diede l’imprinting a tutto il movimento. Nella vita ho avuto due maestri, uno era Ferlinghetti e l’altro Veronelli. Entrambi avevano in comune il fatto di essere stati processati per oscenità e di aver subito l’onta di vedere un proprio libro messo al rogo. Quando si trovò a difendersi per aver pubblicato Ginsberg, Ferlinghetti si appellò alla libertà di pensiero e di opinione e fu il primo che ebbe coraggio di farlo. Con quel gesto, in qualche modo ha cambiato la Costituzione americana.

Cosa ti resta invece delle tue collaborazioni con lui?
L’ultima cosa che abbiamo fatto insieme risale al 2017, per il mio ultimo album Come se non ci fosse un domani. Grazie alla mia grande amica Giada Diano, che ha passato moltissimo tempo con lui a San Francisco, abbiamo scritto Desperation Horse. Forse solo Patti Smith ha avuto la fortuna di poter scrivere un brano a quattro mani con Ferlinghetti e quello resterà sempre uno dei punti più alti della mia vita da autore di canzoni. Il suo testo è meraviglioso. Già ai tempi di El Topo Grand Hotel dei Timoria, mi aveva permesso di utilizzare la sua poesia Poetry As Insurgent Art, che non era ancora stata pubblicata su una raccolta ufficiale e il fatto che un suo scritto fosse uscito in anteprima su un disco dei Timoria mi era sembrato un traguardo impossibile. Però il momento più intenso fu forse quando decise di venire a Brescia per vedere la casa del padre, che era morto d’infarto prima che lui nascesse. In quell’occasione fummo anche tra i protagonisti di una performance Fluxus: lui dipingeva e recitava, declinando il verbo fluxare insieme a Francesco Conz, mentre io suonavo la chitarra. Da quel viaggio nacque anche lo splendido libro di Giada Diano intitolato Io sono come Omero, una delle cose migliori mai scritte su Ferlinghetti.

Ferlinghetti aveva anche fama di essere uno che preferiva i fatti alle parole. Era così?
Era di un’umanità straordinaria, profondamente votato agli ultimi, agli scarti della società. Quando giravi con lui era un continuo fermarsi agli angoli delle strade. Dava retta a tutti e più erano in difficoltà e più ci si perdeva. Era esattamente quello che speravi che fosse. E poi veniva rapito dai bambini, perché in fin dei conti era rimasto un fanciullino. Era riuscito a non perdere il legame con quella parte di sé e grazie a questo riuscito a mettere in pratica l’ideale di rendere la propria vita un’opera d’arte.

Nel 2014 ho subito la mia seconda operazione al cuore, l’unica non d’urgenza della mia vita. I medici mi avevano detto che sarebbe stato meglio operarmi, perché la situazione stava peggiorando e avrei potuto prendere il male in anticipo. Io però non ne volevo sapere. Mi ero appena ripreso dal disastro seguito alla prima operazione. Ero tornato a suonare, a incidere e il mio eroe Noel Gallagher mi aveva concesso gli studi per registrare il mio album. Insomma, non ascoltai il monito dei medici e finii per crollare sul palco, a Roma. In ospedale ero a pezzi e scrissi come sempre a Giada, ringraziandola di tutto e dicendole di salutarmi tanto Lawrence. Poche ore dopo mi arrivò una e-mail. «Caro amico mio, se ce l’ho fatta io a quasi 90 anni, ce la puoi fare anche tu. Sono lì con te». Entrai in sala operatoria col sorriso sulle labbra.

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