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Omar Apollo: «Nessuno credeva in me, mi ringrazio da solo per non aver mollato»

Il musicista messicano è passato da lavorare al McDonald’s a vincere un Grammy. Lo abbiamo intervistato in attesa del suo nuovo album e delle date italiane a Torino e Milano

Foto: press

«Mi piace andare dove le cose sono scomode o complesse». Esordisce così, Omar Apollo, ma lo fa con una voce rilassata che rimanda più all’adottiva California che all’Indiana che gli ha dato i natali. Fresco di pubblicazione del singolo Spite che anticipa il suo prossimo disco, mentre chiacchiera me lo immagino in modalità relax, mentre si gode una pausa dalla messa a punto di quello che ha definito parlando con Rolling Stone US il suo disco migliore. Così decido di lasciarmi cullare, senza opporre resistenza, da quel suo modo di parlare lento, melodico, ninnante. In contrasto con lo spirito di uno che di riposo non se n’è preso molto, negli ultimi anni, non senza patirne le conseguenze. Ma d’altronde, dice, «fare musica non è facile. Ecco perché gli ho dedicato gran parte della mia vita».

Il più giovane di tre fratelli figli di immigrati messicani della classe operaia di Guadalajara scappati dalla violenza delle gang (il padre attraversò il confine nel 1979, all’età di 23 anni, per anni inviò lettere alla futura moglie, che nel 1992 finalmente lo raggiunse) Omar Apolonio Velasco, classe 1997, è cresciuto a Hobart, Indiana, che definisce «un posto un po’ di merda», dove ha imparato da solo a suonare la chitarra. «La musica mi ha dato una vibrazione, una scintilla, e da quando l’ho scoperta non l’ho mollata mai, anche quando nessuno credeva che avrei mai combinato un cazzo».

Dopo aver guadagnato decine di migliaia di ascolti su SoundCloud, Apollo ha firmato un contratto con Artists Without a Label nel 2017, poi è passato alla Warner e da lì rapidamente è stato «risucchiato in un vortice di uscite, apparizioni televisive e tour». Da quando nel 2022 ha pubblicato il suo album di debutto Ivory, una miscela lussureggiante di r&b e hip hop, mischiata la trap latina e corrido messicani, che rimbalza tra la turbolenta Tamagotchi prodotta da Pharrell e ballate struggenti e romantiche come Evergreen, Apollo ha collaborato con Kali Uchis, Daniel Caesar e C. Tangana, ha aperto i concerti del tour di SZA, ricevuto una nomination ai Grammy come miglior artista emergente, e s’è esibito due volte al Tonight Show. E un certo Barack Obama lo ha inserito nella playlist dei suoi consigli musicali. Ma soprattutto, e questa è la parte del lavoro che al contempo ama e patisce di più, è partito per un tour tutto suo, durato mesi, tra Nord e Sud America.

Questo 2024, tuttavia, sarà per lui l’anno della conquista del Vecchio Continente. Italia compresa, dove si esibirà il 4 giugno alle OGR di Torino e il 5 al circolo Magnolia. La maratona continua, insomma, e per reggere, dice, «ho dovuto scoprire me stesso». Quel senso di chiarezza è cruciale per Apollo, che tende a voler lasciarsi guidare dal suo istinto. Ciò ha significato, per esempio, lasciare lo scorso anno Los Angeles per Londra, dove ha aperto un negozio a Little Venice, quartiere «bellissimo, ma un po’ troppo tranquillo».

Londra e le sue nuvole gli si addicevano meglio del sole californiano, perché questo è più che mai un momento in cui afferma di essere attratto da argomenti difficili, piuttosto che da quelli leggeri e luminosi. Sta facendo emergere le sue emozioni «e non ne sono intimorito; per dirti, ora finisco un pezzo e penso: wow, l’ho scritto davvero con tutta l’anima».

Apollo è in una fase in cui sente di star «solo cercando di dare il massimo, e sto maturando in me l’idea che quando lascerò questa Terra saprò di aver fatto del mio meglio. Questo è tutto ciò che mi interessa».

Pensieri molto umani per uno che porta il nome del dio della musica, delle arti mediche e delle profezie, che nel tuo caso si è avverata.
Apollo è un dio molto figo. Ma a dire il vero non ho scelto questo nome per il suo significato mitologico, sarebbe stato troppo presuntuoso, no? Mi sono ispirato ai film della serie Rocky, prendendo il nome del suo grande avversario, Apollo Creed. Amo i training movies, e penso che l’allenamento estremo di uno sportivo sia molto simile alla fatica che comporta fare un album, in comune c’è questa ossessione del dover fare sempre meglio, dare sempre di più. Ho guardato molti combattimenti di Muhammad Ali e Mike Tyson. C’è uno stato mentale distruttivo in cui dai tutto te stesso, al punto che tutta la tua vita viene consumata. Ma poi ad aspettarti c’è la gioia.

Infatti quello che colpisce della tua musica è proprio la continua ricerca, che sembra quasi una lotta giocosa tra generi, stili, sonorità. Il tuo nuovo singolo Spite è parte di questo percorso: quando e come è nato?
Fammi pensare… Sai che non mi ricordo esattamente quando l’ho scritta, ma di sicuro è passato del tempo. Ci ho lavorato con alcuni dei miei più cari amici, quelli con cui amo scrivere canzoni perché c’è sinergia. Parla di una relazione a distanza ma che è comunque molto intensa, piena di emozioni contrastanti. Racconto di come la distanza mi possa rendere un po’ matto, un po’ arrabbiato, ma anche adrenalinico, affamato.

Cosa ti dà in più scrivere insieme ad altre persone?
Se quelle persone sono i miei amici, mi rilasso di più, mi diverto di più, quindi cerco di farlo spesso. Poi capita, invece, di collaborare con professionisti che non conosco intimamente, e lì è puro lavoro, stimolante, ma pur sempre lavoro. Però capita di rado.

Nel video di Spite ci sono delle coreografie fantastiche: chi è il coreografo? Sei sempre stato un ballerino così abile?
Grazie mille, mi prendo il complimento con piacere, ma andrebbe fatto soprattutto al coreografo che è Keone Madrid. Sono un suo grandissimo fan da quando ho 14 anni. Lui ha creato coreografie pazzesche per Justin Bieber, Billie Eilish, per i BTS, Mark Ronson, Kendrick Lamar. Quando ha accettato di collaborare a Spite ho realizzato un sogno. Keone ha questo modo di lavorare molto interessante, per il quale osserva con attenzione come una persona si muove naturalmente, per poi amplificare certe caratteristiche e farle diventare passi di danza. Comunque sì, ho iniziato a ballare quando avevo più o meno undici anni: ho ballato con il Ballet Folklórico de México de Amalia Hernández, che è una famosa compagnia di danza folcloristica con sede a Città del Messico, per poi passare all’hip hop e al popping. Poi è arrivata la musica, e mi sono fermato, ma ho scoperto di ricordarmi abbastanza cose da non far impazzire Keone!

Negli ultimi due anni non ti sei fermato un attimo: nel 2022 è uscito il tuo primo disco Ivory, poi è arrivata la nomination ai Grammy, ma allo stesso tempo hai fatto un tour lunghissimo: è stato più eccitante o stressante? E come ha imparato a gestire un periodo così intenso?
Non ho imparato, non sono bravo a gestire nessun momento, non solo quelli pieni di impegni. Di mio, sognerei un approccio più sostenibile, più rilassato, che però non si sposa bene al raggiungimento di un certo livello. Però ci sto lavorando, ma è molto difficile per me. Ci sono persone che stanno benissimo nella condizione di essere sempre super impegnati, io non tanto.

In Ivory canti sia in inglese che in spagnolo: come decidi quale lingua si adatti meglio ad una canzone?
C’è una canzone che si chiama En El Olvido, che è un tradizionale corrido messicano mariachi. Quindi non ci ho nemmeno pensato: doveva essere in spagnolo. Quando canto r&b e soul, a volte ci metto lo spagnolo, ma non spesso. La vita che vivo è bilingue, ma è principalmente in inglese. E la mia musica è un riflesso della mia vita.

Chi è stata la tua prima crush musicale?
Il primo nome che mi viene è Juan Gabriel (considerato l’Elvis Presley messicano, ha vinto più di mille dischi d’oro e di platino e ha esportato la musica popolare messicana nel mercato discografico statunitense ndr). A casa, suonavano queste ballate melodrammatiche in lingua spagnola dove ragazzi e ragazze sembravano letteralmente piangere dentro ad una canzone. Sono la prima cosa a cui torno quando scrivo sono queste canzoni d’amore non corrisposte.

Che cos’ha, secondo te, in più un ragazzo che vuole fare musica ma che viene non da una metropoli ma da un piccolo stato come l’Indiana? È forse più affamato?
Sono situazione molto diverse, ma credo che nascere in un luogo come il Midwest ti metta a dura prova se desideri diventare un artista nella vita. Sono cresciuto a Hobart, nell’Indiana, che è una terra piatta, con molti parcheggi, terreni agricoli e campi di grano. Ricordo queste giornate infinite, senza nulla da fare, ma davvero nulla. Sono stato per un po’ questo ragazzino allampanato che bazzicava i parcheggi e lavorava in un drive-thru McDonald’s mentre cercava di dare il via alla sua carriera di cantante. Ballavo, mi truccavo gli occhi, facevo musica, facevo foto, ogni giorno. Poi quando avevo finito la prima versione di Ivory ho mollato tutto per andare in un piccolo cottage nell’Oregon e rifare tutto da capo. Ho buttato ogni singola canzone e sono ripartito da zero, e in tre mesi la versione definitiva del disco era pronta. Questo per dire che il contesto conta, ha un peso, ma la tua determinazione ne ha di più.

Chi ha creduto in te fin dall’inizio?
Uh… Onestamente: nessuno.

Tu.
Sì, quello di sicuro. Ah, anche il mio manager, che è al mio fianco da quando ho 19 anni. A un certo punto anche i miei amici avevano cominciato a dirmi “dai Omar, cercati un lavoro”, “dai Omar, frequenta qualche corso, impara a fare qualcosa ”, volevano che prendessi in considerazione altre opzioni, volevano rendersi utili. Però per me non era utile, in quel momento, sentire così poca fiducia nel mio progetto. Mi ringrazio da solo per non aver mollato.

I tuoi genitori hanno avuto una vita dura: qual è il più grande insegnamento che ti hanno trasmesso?
Senza dubbio l’empatia verso gli altri esseri umani. Prendersi cura degli altri, aiutarli, avere delle piccole attenzioni che scaldano il cuore. dai miei genitori ho imparato a dare sempre amore. Se tu venissi a casa mia con le scarpe sporche di fango, mia madre te le laverebbe subito, se tu avessi la febbre ti farebbe del brodo caldo, farebbe di tutto per farti stare meglio. Li ho visti cercare di far star meglio gli altri per tutta la vita, ed è la stessa cosa che provo a fare anche io.

Che rapporto hai con il successo? C’è qualcosa di lui che ti spaventa?
Ci penso tanto, sai. Penso soprattutto al fatto che l’attenzione su di me posso disturbare la mia cerchia di persone più intime. Però poi guardo i miei amici, quelli che mi porto dietro da quindici anni, e li vedo sereni, felici per me. Quindi mi dico: se non dà fastidio a loro, perché dovrebbe darlo a me. Amo i fan, mi piace fare le foto con loro, adoro stare in tour, sentirli che cantano le canzoni, ma come ti dicevo all’inizio, a volte vado in calo di energie, mi sento stanco, e lì arrivano i momenti di sfiducia. Però, appunto, ci sto lavorando. Credo che la ricerca dell’equilibrio sia un lavoro che riguarda ogni singolo essere umano.

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