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Oltre i Guns N’ Roses: Matt Sorum racconta la sua vita al limite

Nell'autobiografia 'Double Talkin' Jive' e in questa lunga intervista il batterista rievoca alti e bassi vissuti nella band di 'Use Your Illusion', ma anche l'estasi dei primi concerti, l'incontro con Tori Amos, i Cult, il successo dei Velvet Revolver, la nuova vita meno sregolata: «Coi Guns era come stare su una nave pirata»

Foto: Enzo Mazzeo. Styling: Giovanni Marazzi/Isaia Beverly Hills. Make-up: Judith Koppelmann

Matt Sorum è uno di quei personaggi indissolubilmente legati all’immaginario delle rockstar hollywoodiane vecchia scuola: ha compiuto 60 anni ma ne dimostra una decina di meno, cura maniacalmente i dettagli delle sue apparizioni pubbliche e ha un arsenale di storie di vita vissuta che farebbero invidia a chiunque. Quello che lo differenzia da molti suoi colleghi, semmai, è che non solo ha fatto parte di una band che con lui ha toccato il tetto del mondo, i Guns N’ Roses dei due Use Your Illusion, all’inizio degli anni ’90, ma ha raggiunto il successo anche prima e dopo i suoi trascorsi alla corte di Axl Rose e soci, godendo di un carriera costantemente alla ribalta, cominciata in giovanissima età come batterista dell’esordiente Tori Amos e poi dei Cult, e proseguita all’alba del nuovo millennio con la superband Velvet Revolver, di cui facevano parte altri due ex Guns, il chitarrista Slash e il bassista Duff McKagan.

Musicista esperto, dunque, dotato di un drumming solido e ricercato, quello di Matt Sorum è uno dei nomi ricorrenti quando si parla di superband, appunto. Alcuni lo ricorderanno alla guida dei Neurotic Outsiders, insieme allo stesso Duff, all’ex Sex Pistols Steve Jones e al bassista John Taylor dei Duran Duran. Poi nella cover band di lusso Camp Freddy, insieme a Dave Navarro (Jane’s Addiction) fra gli altri, con cui era solito animare le serate del Sunset Strip invitando sul palco una serie di ospiti che ha dell’incredibile per la quantità di leggende della musica (e non solo) coinvolte. Più recentemente si è anche unito agli Hollywood Vampires del trio Alice Cooper/Johnny Depp/Joe Perry e ha fondato i Deadland Ritual con Steve Stevens (Billy Idol) e Geezer Butler (Black Sabbath). In mezzo, per non farsi mancare nulla, un tour dietro le pelli dei Motörhead. E molto, molto altro.

Difficile evitare il name dropping quando si parla di Matt Sorum: tutta la sua carriera lo ha visto affiancarsi a molti mostri sacri del rock e anche oggi che si è per lo più ritirato dall’attività musicale, oltre ad aver lasciato Los Angeles per la più tranquilla Palm Springs, Matt non riesce a starsene con le mani in mano. Suona infatti per puro diletto con l’amico Billy Gibbons degli ZZ Top e finalmente ha trovato il tempo per pubblicare la sua attesissima biografia, Double Talkin’ Jive: True Rock ‘n’ Roll Stories from the Drummer of Guns N’ Roses, The Cult, and Velvet Revolver, pronta da tempo ma la cui uscita è stata rinviata più volte a causa della pandemia.

Lo abbiamo incontrato nella sua Palm Springs, oasi felice in pieno deserto californiano dove vive già da alcuni anni con la moglie Ace Harper, che al momento della nostra intervista era in dolce attesa (Lou Ellington Sorum, la prima figlia per entrambi, sarebbe nata pochi giorni dopo). I tempi in cui la sua vita andava di pari passo con i cliché della solita triade “sex, drugs and rock’n’roll”, descritti con dovizia di particolari nel libro, sembrano più lontani che mai, eppure il batterista di origini norvegesi li racconta con grande trasporto misto a una velata nostalgia, forse anche per chiudere il famigerato cerchio e cominciare ufficialmente un nuovo capitolo della sua vita. Di certo, ad ascoltarlo non ci si annoia mai.

Il libro autobiografico è diventato da tempo una sorta di tappa obbligata nella carriera di un musicista. Sei stato in qualche modo influenzato da qualche tuo ex compagno di band quando hai deciso di metterti al lavoro su Double Talkin’ Jive? Per esempio Slash o Duff. Quest’ultimo ne ha fatti addirittura due.
No, direi di no. Non ho letto né il libro di Slash, né quelli di Duff. Forse perché siamo stati a stretto contatto per buona parte delle nostre vite. Più o meno per lo stesso motivo non sono riuscito a guardare il film dei Mötley Crüe. Sai, ero anche lì (ride). In tutta onestà, non sono mai stato un gran lettore, anche se devo dire che ultimamente sto imparando a vivere in maniera più rilassata, dunque avrò anche più tempo per leggere.

Quanto ci hai messo a scriverlo?
Più o meno due anni. Mi capitava di mettermi a scrivere per tre o quattro giorni di fila e poi di prendermi delle lunghe pause, perché ero esausto. Poi c’è anche voluto molto tempo per revisionarlo. Rivivere la mia vita in quel modo è stato un processo catartico.

Foto: Enzo Mazzeo

Quali sono i primi ricordi della tua infanzia a Orange County che ti vengono in mente?
Sono cresciuto vicino alla spiaggia e i miei ricordi sono legati ad essa. Tutti i miei amici erano surfisti e io non ero molto bravo con la tavola. Ma per conquistare le ragazze bisognava esserlo (ride). Ecco perché mi sono messo a cercare qualcosa che mi appassionasse al punto da potermi esprimere al meglio delle mie possibilità, ed è in quel periodo che mi sono imbattuto nella batteria. Ho avuto la fortuna di avere un ottimo maestro, di cui parlo anche nel libro: è stato lui a spronarmi a perseguire una carriera da professionista. E poi, sai, erano gli anni ’70 e vivevo a Orange County, un posto magnifico in cui crescere. Il rock’n’roll viveva un periodo florido, con band come Led Zeppelin, Black Sabbath, Alice Cooper, Deep Purple… Io e i miei amici prendevamo la macchina e per vedere i concerti guidavamo fino al Forum di Los Angeles. Bellissimi ricordi, quelli.

Qual’è stato il primo concerto a cui hai assistito?
I Kiss. A quel tempo i biglietti dei concerti costavano intorno ai 5 dollari, una cifra che non sempre riuscivamo a racimolare. Il giorno del concerto, naturalmente sold out, io e il mio amico Randy ci procurammo 11 dollari e guidammo fino al Forum, decisi a trovare un modo per entrare. Una volta giunti sul posto ci dirigemmo verso la cassa e, con nostro sommo stupore, la ragazza allo sportello ci disse che era il nostro giorno fortunato e che aveva ancora due biglietti, quinta fila centrale, per esattamente 5 dollari e 50 centesimi l’uno. Non potevamo crederci! Comprammo i due biglietti e ci fiondammo all’interno dell’arena. Non appena raggiungemmo i nostri posti cominciò a suonare la band di supporto, i James Gang, di cui fece parte anche Joe Walsh. Quello fu un momento importante per me, era il 1975 e avevo 15 anni, e quelli che stavano per salire sul palco erano i Kiss di Dressed to Kill: il mio primo concerto in assoluto.

Ha soddisfatto le tue aspettative?
Ricordo che durante l’assolo di batteria di Peter Criss, Randy si girò verso di me esclamando «Ehi, tu sei bravo quanto lui!». E io «Davvero?» (ride). In realtà cominciai a pensarlo sul serio. I Kiss erano il tipo di band che faceva canzoni facili da suonare. Un po’ come Smoke on the Water o Paranoid, sono tutte canzoni che chiunque può imparare. Qualche tempo dopo andai a vedere Alice Cooper. Era il tour di Welcome to My Nightmare. Comprammo un sacchetto di mariujana – all’epoca con 10 dollari si riusciva a comprarne un sacchetto alto quattro dita – e rollammo una ventina di canne, molte delle quali le fumammo per strada, sulla Plymouth Valiant del mio amico. Arrivammo con i sensi decisamente annebbiati e, nonostante ciò, ricordo molti particolari, tipo che eravamo seduti in diciassettesima fila (ride). Il concerto cominciò con questo filmato in cui Alice Cooper vagava per un cimitero e dalle casse usciva la voce del grande Vincent Price. A un certo punto Alice sbucò dal video in carne e ossa e noi, che ormai eravamo strafatti, balzammo in aria dallo spavento (ride). Il concerto fu fantastico.

Non molti sanno che sei uno dei co-fondatori dei Y Kant Tori Read, la band che portò alla ribalta Tori Amos.
Ero molto giovane e in quel periodo mi dedicavo a un repertorio tipicamente top 40, una situazione molto comune in America. In sostanza, se l’obiettivo era quello di mantenersi con la musica, bisognava imparare le top 40 songs, le canzoni più trasmesse in radio, in modo da poter trovare facilmente ingaggi nei locali. Io suonavo cinque sere alla settimana in questo club vicino all’aeroporto di Los Angeles, adiacente all’hotel Marriott. Una sera stavo camminando nella lobby, quando notai una ragazza seduta al piano che suonava questa musica di stampo classico, ma dalla melodia inconfondibile: Bad Company, il brano dei Bad Company, appunto. Mi avvicinai e le chiesi «Ehi, ma chi sei?». «Mi chiamo Tori», rispose. «E di dove sei?». «Di Baltimore». Esattamente in quel momento, nella lobby di quell’hotel, le dissi «Io e te dobbiamo suonare in una band insieme». E così trovai altri musicisti per completare la line-up e cominciammo a suonare nei dintorni di Hollywood.

Gli eventi che portarono allo scioglimento del gruppo, sono descritti in maniera molto particolareggiata nel libro.
Non troppo tempo dopo aver formato la band, ci scritturò un locale della Valley, il Sasch, su Ventura Boulevard, dove suonammo regolarmente per circa due anni. Le cose cambiarono quando ci arrivò una proposta di contratto da parte di Jason Flom (in quegli anni a capo di Atlantic Records, nda). Da quel momento, infatti, Tori non si fece più sentire per almeno un mese. Provai a chiamarla ma nulla da fare. Fino a quando non venni a sapere che era in studio a registrare il disco. In pratica, la casa discografica aveva deciso di sostituire tutti i musicisti e di tenere soltanto Tori. Quello è stato il mio primo, vero impatto con la brutalità del music business. Nessuno chiamava nessuno, non ti dicevano niente. Le cose si scoprivano soltanto quando erano già successe. Quando finalmente riuscii a parlare con Tori e mi spiegò dunque le intenzioni della casa discografica, io ebbi comunque la forza di darle la mia benedizione, dicendole che si trattava di un’occasione irripetibile, e che doveva sfruttarla. In fin dei conti, Tori era una straordinaria artista solista, scriveva tutta la sua musica, era capace di scrivere anche quattro o cinque canzoni al giorno.

Eppure, un’altra sorpresa era dietro l’angolo…
A un certo punto Tori mi richiamò dicendo «Ehi Matt, puoi venire in studio? Le cose non stanno funzionando con il nuovo batterista». Non potevo crederci. Naturalmente accettai, conoscevo bene quei brani e non avevo problemi a suonarli. Il disco venne così completato, sebbene non ebbe alcun successo, tanto che Tori quasi rischiò di perdere il suo contratto. Fortunatamente per lei, qualche tempo dopo se ne uscì con Little Earthquakes, sui cui demo, fra l’altro, avevamo lavorato insieme, e quello fu invece un grande successo, che lanciò definitivamente la sua carriera. Le nostre strade si separarono definitivamente, io da lì a poco mi sarei unito ai Cult e, sebbene al tempo quella separazione sia stata dolorosa, oggi mi rendo conto che è stato senz’altro meglio così, per entrambi.

L’hai mai più rivista?
Sì, molti anni dopo, e intendo dopo i Cult e i Guns N’ Roses. Mi trovavo a Las Vegas, nella lobby dell’Hard Rock Hotel, insieme a mio padre. A un certo punto mi accorsi che Tori stava entrando con tutto il suo entourage. Io parlavo con mio padre ma la seguivo con lo sguardo e lei, ad un certo punto, immagino dopo aver riconosciuto la mia voce, si girò esclamando «Matt?». Non la vedevo da quindici anni, forse di più. Quella sera mi invitò al suo concerto. Lei non suona mai i brani di Y Kant Tori Read, perché il disco non ha avuto successo ed evidentemente non li considera più rilevanti, ma a un certo punto, nel bel mezzo di quello show, si fermò in maniera drammatica, come era solita fare, le luci puntarono su di lei e, rivolgendosi alla sala, esclamò «Matt, sei qui? Questa canzone è per te». E partì a suonare proprio un estratto da quel disco, Cool on Your Island. Io mi guardai intorno, dalla balconata, e non sapevo se dovevo alzarmi in piedi (ride). Occasionalmente Tori parla ancora di quell’episodio con la stampa, e la cosa mi fa molto piacere. È ancora oggi un’artista straordinaria, davvero incredibile.

Foto: Enzo Mazzeo

Come hai accennato tu stesso, e seguendo una logica temporale che avrebbe caratterizzato tutta la tua carriera, non molto tempo dopo la fine dell’avventura con Tori, un un’altra grossa occasione ti si presentò davanti: unirti ai Cult per il tour di supporto a un disco importante come Sonic Temple.
Diciamo che i Cult sono stati il mio battesimo di fuoco. Con loro ho suonato per la prima volta nelle grandi arene. A Hollywood c’erano alcuni batteristi molto richiesti, che suonavano con molti artisti. Io stesso, a un certo punto, ho fatto parte di una decina di band contemporaneamente. Passavo da una prova all’altra e nel frattempo facevo i concerti, guadagnando un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Il mio obiettivo era quello di riuscire a mantenermi senza dover andare a lavorare. Volevo vivere di musica, insomma. I Cult stavano cercando un batterista e una sera andarono al Forum a vedere Robert Plant e Jimmy Page, che in quel periodo suonavano con Pat Torpey. Pat era uno di quei batteristi che riuscivano a ottenere gli ingaggi migliori e le nostre strade si erano incrociate spesso. Lui, per esempio, aveva suonato con Jeff Paris, e quando lasciò la band fui io a sostituirlo. Gli stessi Cult erano intenzionati ad offrigli un ingaggio, ma lui decise di rinunciarvi perché stava mettendo in piedi la sua band, i Mr. Big, dunque consigliò loro di rivolgersi al sottoscritto. Non fu l’unico a fare il mio nome. Anche Steve Jones dei Sex Pistols, con cui avevo suonato, lo fece. E come lui, Terry Nails, un grandissimo bassista con cui ero amico e che conosceva i ragazzi dei Cult. Venni dunque invitato a fare un’audizione e ricordo che Terry fu molto chiaro: «Matt», mi disse, «hai una batteria nera?». E io risposi di no, che la mia era rossa. «Uhm… Mi raccomando», continuò, «vestiti di nero e non mettere gli stivali da cowboy. E fai qualcosa con quei capelli». Al tempo avevo questa montagna di ricci biondi, che Terry mi consigliò di lisciare. «I Cult hanno un’immagine un po’ gothic, un po’ biker e molto anni ’70». Il look era importante all’epoca, bisognava avere tutte le credenziali a posto. Nel momento in cui si cercava di entrare in una band era necessario adeguarsi anche allo stile visivo.

Com’è andata l’audizione?
Quando mi presentai in studio c’erano Billy Duffy e Jamie Stewart, il loro bassista originale. Non vedevo però Ian Astbury. «Il nostro cantante non c’è, è fuori città», mi dissero, con quel loro accento British. E cominciarono dunque a chiedermi di suonare alcuni dei loro brani. Io mi ero preparato a dovere, avevo studiato tutti gli album… Love, Electric… li sapevo fare da cima a fondo. Cominciammo dunque a suonare Sanctuary, Rain, Love Removal Machine, Wild Flower, Little Devil… Io suonavo nelle band top 40, dunque ero abituato ad imparare 40 canzoni alla settimana. E infatti loro apprezzarono la mia performance e mi dissero: «Hai fatto un buon lavoro, ma dobbiamo comunque confrontarci con Ian. Ti contatteremo». Tornai dunque a Burbank, dove vivevo a quel tempo. Avevo preso in affitto questa specie di soppalco in un magazzino, senza acqua. Per fare la doccia e mangiare dovevo andare da un amico. Sua mamma mi faceva anche le lasagne (ride). Per uscire da quella situazione avevo dunque bisogno di un ingaggio stabile, che mi garantisse una paga settimanale fissa. Ricordo che tutti mi chiedevano com’era andata l’audizione e io rispondevo che non sapevo. Ero molto scaramantico e non volevo dare l’idea di credere di avere l’ingaggio in tasca. Per circa tre settimane tenni dunque la bocca chiusa, finché non ricevetti un’altra chiamata dalla band, per dirmi che Ian era arrivato. Mi ripresentai dunque nello stesso studio, dove c’erano sempre Billy e Jamie ad accogliermi, ma questa volta, a un certo punto, fece il suo ingresso trionfale anche Ian: era proprio come me lo immaginavo, con il cappello con il teschio, la croce al collo, gli occhiali scuri… Rifacemmo con lui i brani che avevo suonato con Billy e Jamie qualche settimana prima. A un certo punto Ian si girò verso di me e disse «Ok, sei dentro. Ma smettila di sorridere così tanto».

La tua carriera cominciava dunque a prendere una piega diversa.
Subito dopo essere entrato nella band mi presentai agli uffici del management (il manager della band era Howard Kaufman), dove incontrai questo leggendario tour manager inglese, Jimmy Eyers, che appena mi vide esclamò «Ehi Matt, alla band non piace la tua batteria rossa. Te ne serve una nera. Ti ho procurato un contratto di endorsement, scegli quella che vuoi». Non ci potevo credere. «Davvero? Ed è gratis?», risposi (ride). Quello è stato il mio primo contratto di endorsement. Mi sentivo come un bambino in un negozio di caramelle: tamburi gratis, piatti gratis, bacchette gratis. Un sogno. Subito dopo incontrai Howard, che mi diede un ottimo salario, e a quel punto mi sembrava di aver vinto la lotteria. Howard mi disse che dopo cinque giorni saremmo partiti per il tour, e che ne avevamo quattro per fare le prove. La prima data sarebbe stata a Vancouver, in Canada, in apertura ai Metallica, che erano impegnati nel tour di supporto a …And Justice for All. L’inizio di una lunga serie di nuove avventure e di un periodo bellissimo.

Foto: Enzo Mazzeo

Conoscevi i Guns N’ Roses nel tuo periodo pre-Cult? Loro a quei tempi erano ancora una club band, e in fin dei conti siete cresciuti musicalmente negli stessi ambienti di Hollywood…
Non li ho mai visti dal vivo a quei tempi. E ad essere sincero non ricordo nemmeno perché. Forse per il fatto di non avere molti soldi, o magari perché non avevo l’eta giusta per andare ai loro concerti. Quando i Guns N’ Roses hanno cominciato davvero a esplodere io ero già in tour con i Cult. Loro si erano presi una lunga pausa dopo Appetite, passarono quattro anni da quel disco alla mia entrata nella band e in quel lasso di tempo ci siamo solo incrociati. Fu Slash a propormi di unirmi al gruppo: venne con Duff a vedermi suonare con i Cult, a Los Angeles, e mi chiamò alla fine di quel tour. Il giorno che alzai la cornetta e mi resi conto che c’era lui dall’altra parte della linea, capii che la mia vita era arrivata a un nuovo bivio.

In effetti ti sei trovato di punto in bianco a registrare un doppio album attesissimo come Use Your Illusion I & II, a cui sarebbe seguito un tour mastodontico e leggendario. Quando siete entrati in studio pensavate che si sarebbe trattato di un classico album singolo, mentre in corso d’opera Axl comunicò alla band che aveva in mente un doppio. C’è qualche canzone, su quei dischi, che al tempo avresti voluto escludere?
Quando entrai nella band rimasi colpito dal fatto che in studio c’era questo grande pianoforte a coda. I Guns N’ Roses erano famosi per aver pubblicato un disco selvaggio come Appetite, e io stesso provenivo da una band molto rock. La cosa, dunque, mi spiazzò. Non avevo idea che Axl suonasse il piano. Quando cominciammo dunque a registrare le ballad, come November Rain, Estranged o Don’t Cry, il mio stupore aumentò ancora di più. Nemmeno sapevo che Don’t Cry sarebbe diventata un singolo. Ricordo però che trattammo November Rain con molta serietà. Il fatto è che c’era davvero tantissima musica, avevamo registrato 34 o 35 canzoni, talmente tante che oggi faccio anche fatica a ricordare tutti i titoli (ride). Di quelle canzoni pensavamo che ne avremmo scelte una dozzina, in modo da ottenere, appunto, un grande album da 13 canzoni, il meglio di quello che avevamo registrato. Questo finché Axl non ci comunicò quali erano i veri piani. E non ti saprei nemmeno dire quali brani avrei escluso, lo stesso Axl non saprebbe risponderti. Era entusiasta di avere così tanto materiale da poter passare i successivi tre anni in tour. Cosa che, effettivamente, successe.

Nei due Use Your Illusion si sente un fill di batteria ricorrente, che hai ribattezzato “Pat Boone Debbie Boone” per il modo in cui suona, e tu stesso hai detto più volte che si era trattata di un’idea di Axl. Quante volte ne hai parlato, nel corso degli anni, soprattutto con gli altri batteristi?
È vero, molti batteristi mi chiedono di quel fill. Io e Axl eravamo seduti sul pavimento dello studio, A&M Records (oggi Henson Recording Studio, a Hollywood, nda), a mangiare caviale e bere shot di vodka russa, ascoltando Elton John. Axl amava Elton. Tutti gli altri erano già andati via, eravamo rimasti solo io e lui, e stavamo passando dei bei momenti a chiacchierare. Axl sapeva essere una persona molto affabile, genuina e divertente, oltre che molto generosa. Quella sera, infatti, decise di comprare tutto quel caviale molto costoso, che io ancora non mi potevo certo permettere. Ascoltavamo Don’t Let the Sun Go Down On Me di Elton John, appunto, quando mi chiese se i fill li potevo suonare così, con quei suoni grossi… tum-tum-tum-cshhh… Voleva, appunto, un qualcosa di ben riconoscibile, che scandisse certi momenti della canzone e diventasse dunque una sorta di trademark. Allora me ne venni fuori con quel “Pat Boone Debbie Boone”, un fill che ripeto 21 volte in November Rain. Quando lo eseguivo all’inizio del brano, negli stadi, la gente impazziva. E se ancora oggi se ne parla, direi che ho fatto qualcosa di buono.

Nel libro descrivi il tuo rapporto iniziale con Axl in termini molto positivi. A un certo punto, però, quando il suo temperamento comincia a prendere il sopravvento e ritardi, interruzioni e disordini diventano quasi una costante ai vostri concerti, decidi di confrontarti con lui e, da lì in poi, le cose fra voi sarebbero cambiate. In quel momento hai forse avuto il sentore che la band stessa non sarebbe durata?
Oggi sono convinto che se le cose fossero andate diversamente, senza gli eccessi che ci contraddistinguevano sotto ogni punto di vista, non sarebbe stato altrettanto bello. I Guns N’ Roses erano costantemente sotto i riflettori, il pericolo era nell’aria e nessuno sapeva mai cosa sarebbe successo. Ma proprio per questo i nostri show erano così grandiosi. Molte band, al giorno d’oggi, trattano tutto questo come un business qualsiasi: fanno dischi, salgono sul palco a una certa ora… Per noi non era così. Eravamo la band più grande al mondo e intorno a noi succedeva di tutto, la situazione era sempre fuori controllo. Se potessi tornare indietro e rivivere quel periodo probabilmente avrei cercato di mediare di più, cercando di essere più accomodante con tutti, ma al tempo non ragionavo così, mi godevo il momento. In fondo avevo dei fratelli e pensavo che essere in una band non era poi troppo diverso. E comunque, anche quelle sere che nel backstage la situazione sfuggiva di mano, poi sul palco eravamo capaci di esplodere. Axl sprigionava sul palco tutta la rabbia che si portava dentro, trasformandola in uno show sensazionale. Quando ripenso a quel periodo, vedo un momento di grande rock. Un momento magico.

Dunque non avevi paura che sarebbe potuto finire tutto da un momento all’altro?
Non puoi mai sapere quando certe cose finiranno, perchè è nella natura stessa del rock. Se guardi a tutte le grandi band, ai momenti più importanti della storia del rock, le cose non andavano poi molto diversamente. Io stesso ho fatto parte di un paio di band con quelle caratteristiche (ride). In fondo, è proprio quel senso di anarchia che spesso ci spinge a voler entrare a far parte di un ambiente simile. Se frequenti musicisti rock, saprai benissimo che le storie che raccontano sono molto simili: divorzi, alcolismo… a volte anche abusi. Axl stesso li ha vissuti e noi lo capivamo. La musica, in un certo senso, ci ha salvati. Eravamo una gang, non c’era nulla di costruito a tavolino a quei tempi. Non abbiamo mai fatto discorsi del tipo «Bene, ora andiamo in tour e facciamo un sacco di soldi». Non abbiamo mai parlato di queste cose. Non erano i soldi a stimolarci, allo stesso Axl non importava nulla dei soldi. E questa è una cosa che col senno di poi mi rende orgoglioso. Il music business non era ancora dominato dalle grandi corporation come Live Nation o AEG, gente a cui rendere conto di tutto. Per noi era un vero e proprio Far West. Eravamo come su una nave pirata. E non parlo dei Pirati dei Caraibi (ride).

Foto: Enzo Mazzeo

Il tuo libro offre uno spaccato del mastodontico e leggendario Use Your Illusion Tour come ancora non ci era capitato di leggere, forse perché, per loro stessa ammissione, la memoria di alcuni dei suoi protagonisti riguardo a quegli eventi è un po’ offuscata. La tua, invece, sembra funzionare decisamente bene…
A quei tempi bevevamo tutti molto ma per qualche motivo, e nonostante tutto, i miei ricordi di quel periodo sono piuttosto vividi. E a volte, mentre vivevo quei momenti così straordinariamente assurdi, pensavo che un giorno li avrei potuti raccogliere in un libro. Lo dicevo quasi per scherzo (ride). Nei tre anni e mezzo dello Use Your Illusion Tour sono uscito tutte le sere. In realtà ne ho saltata una soltanto, e per questo motivo la ricordo bene: ci trovavamo da qualche parte nello Stato di New York, e mi svegliai una mattina dopo l’unica notte del tour che, appunto, non avevo passato a qualche party. Quando incontrai Dizzy Reed mi disse «Ehi Matt, non sai cosa ti sei perso ieri sera» (ride). Ecco, quello era lo spirito: eravamo giovani e non volevamo perderci nulla. Potevamo mangiare tre pizze e bere quantità industriali di birra senza nemmeno ingrassare. A quei tempi bevevamo ogni sera fino allo sfinimento, andavamo a dormire e il giorno dopo lo facevamo di nuovo. Oggi, dopo una serata come quelle, mi servirebbero almeno tre giorni per riprendermi (ride). In fin dei conti avevo sognato per tutta la vita di avere un’opportunità del genere e ho voluto sfruttarla fino in fondo. Devo comunque dire che, quando salivamo sul palco, eravamo sempre sobri e molto concentrati. Con qualche eccezione, certo. Ancora oggi mi capita di guardare i video di quel periodo e di pensare che eravamo una grande band. Sul palco eravamo invincibili. I festeggiamenti cominciavano dopo il concerto. Ogni sera eravamo in una città diversa. E ogni sera era una celebrazione. Quelli sono stati senza dubbio fra i momenti più belli della mia vita.

Dopo i Guns N’ Roses non ti sei certo adagiato sugli allori. Ti sei infatti riunito ai Cult, con i quali hai pubblicato un album memorabile come Beyond Good and Evil; hai fatto parte degli Slash’s Snakepit, anche se solo per poco tempo, e dei Neurotic Outsiders; ma, soprattutto, hai co-fondato i Velvet Revolver, una delle ultime, grandi rock’n’roll band della nostra era. Com’è stato far parte di un gruppo che hai contribuito tu stesso a portare al successo rispetto alle tue passate esperienze con band già molto famose quando sei entrato a farne parte?
Quando abbiamo formato i Velvet Revolver non pensavamo che avremmo mai più fatto parte di una band di grande successo. Io, in particolar modo. Molti di noi possono ritenersi già molto fortunati se riescono a raggiungere il successo una volta sola… per quattro o cinque anni suoni in una band che gira il mondo e poi basta. Per noi, invece, è stato diverso. C’è un bel documentario intitolato The Rise of Velvet Revolver che ben descrive il processo che ci ha portati a formare il gruppo e poi a cercare un cantante per due anni, finché non si è presentato Scott (Weiland, frontman degli Stone Temple Pilots, nda). Quel disco ha richiesto molto lavoro preparatorio, non solo con Scott, anche noi stessi ci siamo dovuti ripulire e rimettere in forma prima di registrarlo, a quel punto avevamo una diversa sensibilità musicale. Quando poi è arrivato il successo, le hit in radio, il Grammy, non potevamo crederci. A questo proposito, racconto sempre un aneddoto: ci trovavamo a New York e io e Duff eravamo appena tornati da un allenamento, con ancora indosso gli abiti da palestra, quando un ragazzo si avvicina e ci dice «Ehi, ma voi siete Duff e Matt dei Velvet Revolver!». Ci siamo dunque guardati come per dire «Cosa ha appena detto?». In quel momento siamo come rinati. Eravamo noti come Duff e Matt dei Guns N’ Roses, ma i Velvet Revolver ebbero un tale impatto, anche sulle nuove generazioni, che le cose erano finalmente cambiate. Eravamo stati capaci di reinventarci e avevamo un pubblico diverso, anche se in parte formato da vecchi fan dei Guns, certo. Un altro momento che ricordo con particolare piacere è quello in cui ho ritirato il Grammy vinto dalla band. Il mio primo Grammy.

Oggi sei felicemente sposato e presto diventerai padre. Come ti rapporti, oggi, a quegli anni?
La vita va avanti, si cresce. Eppure quando fai parte di una band non ne vuoi sapere di crescere. Ho portato avanti il vessillo del rock per molto tempo e mi piace pensare che sono stato uno degli ultimi a mollare (ride). Nel corso degli anni ho imparato a controllare alcuni aspetti della mia personalità che prima facevo fatica a tenere a bada. Diciamo che, tra alti e bassi, ho imparato dagli errori commessi. E poi, a un certo punto, ho incontrato Ace. La nostra relazione era nata e successivamente quasi interrotta, ma in quel periodo, come spiego nel libro, ho capito che dovevo fare di tutto per non lasciarla andare, perché sapevo che era lei la donna giusta. Da quel momento ho cominciato a vedere le cose da un’altra prospettiva e gradualmente mi sono trasformato in quest’altra persona, nella persona che sono oggi. È stato un processo necessario per arrivare fin qui e sono felice di averlo affrontato nella maniera corretta. Dicono che quello che non ti uccide ti rende più forte, e per me è stato senza dubbio così. Essere sposato con Ace, aspettare una figlia… è tutto così straordinario. Per un certo periodo ho avuto quasi timore di tutto ciò, perché vedevo tutti questi amici che cercavano di conciliare i figli con la vita del musicista, e non sempre ci riuscivano. Ecco perché io, invece, non avevo questa fretta di farmi una famiglia. Volevo essere pronto. E quando finalmente lo sono stato, tutto è cambiato.

Di tutti i musicisti con cui hai collaborato negli anni, con chi sei rimasto amico?
Con tanti di loro. Billy Duffy, per esempio, Con lui ci sentiamo spesso. Billy Gibbons, con cui suono attualmente. Lui è uno dei miei migliori amici, mi chiama tutti i giorni. E dire che io ero un grande fan degli ZZ Top, li ho visti quando avevo 16 anni. Fa strano passare dall’essere un semplice fan della musica a diventare parte di quel sistema. Nel mio libro faccio tanti nomi, al punto che qualcuno potrebbe pensare che voglia darmi delle arie. Eppure, non posso fare a meno di fare quei nomi se voglio parlare della mia vita. A volte mi ritrovo due ore al telefono con Steven Tyler, e mentre tengo in mano la cornetta mi capita di pensare a quando avevo 14 o 15 anni e andai a vedere gli Aerosmith allo stadio di Anaheim. In un certo senso, sono ancora un fan di questi musicisti, ma ora sono anche amici. All’inizio del libro parlo di quando vidi i Beatles all’Ed Sullivan Show e ora Ringo mi chiama per il mio compleanno… a volte non mi sembra vero. È come se tutti i miei sogni si fossero avverati e anche di più.

Foto: Enzo Mazzeo

Nel libro parli ovviamente della reunion dei Guns N’ Roses e del fatto che Duff e Slash, i tuoi amici di una vita, non ti abbiano mai rivelato in anticipo i piani della band, al cui ritorno sulle scene avresti giustamente voluto partecipare anche tu. In che rapporti siete rimasti?
Va tutto benissimo. Alla fine è soltanto successo quello che doveva succedere, anche se in quel momento magari non la vedevo così (ride). Tutta la mia vita è stata un susseguirsi di eventi che meno cercavo di controllare, più si risolvevano per il meglio. Qualche volta ci si fa male, certo, ma l’importante è essere se stessi e fare le scelte che si reputano giuste. Per me è come se l’universo mi avesse sempre detto di andare avanti per la mia strada, e le occasioni sarebbero arrivate da sole. E in effetti è sempre stato così, e mi reputo fortunato a poterlo dire. Ho sempre fatto le cose senza preoccuparmi troppo, proprio perché mi fido dell’universo (ride).

In che rapporti sei con Izzy Stradlin? Vi sentite di tanto in tanto?
Qualche anno fa Izzy mi chiamò per chiedermi di collaborare con lui (al brano FP Money, nel 2016, nda) e da allora ci siamo sentiti varie volte al telefono. Negli ultimi anni abbiamo parlato tanto, molto più di quanto facevamo quando eravamo nella band. Lui era senza dubbio un tipo taciturno e riservato, smise di bere ben prima di noi e a un certo punto, come tutti sanno, mollò il gruppo. Rispetto molto Izzy, è molto eccentrico, fa le cose a modo suo. In un certo senso incarna il vero spirito punk. Tra l’altro trascorre lunghi periodi qui nel deserto.

Guardando alla tua carriera, qual è la cosa di cui vai più orgoglioso?
Probabilmente i Velvet Revolver. Mettere in piedi quella band non è stato facile, e per noi è stata, come ho già detto, una vera e propria rinascita. E poi il Grammy e tutto il resto. Sapevo che la band sarebbe durata qualche anno, e in effetti abbiamo fatto due album di cui vado orgoglioso. Bei tempi quelli, davvero.

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Foto: Enzo Mazzeo
Styling: Giovanni Marazzi/Isaia Beverly Hills
Make-up: Judith Koppelmann

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