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Ntò è il padre orgoglioso del rap napoletano

Il nipote di Enzo Avitabile, già membro dei CoSang, racconta la scena locale che è anche un po’ figlia sua, la collaborazione con Speranza, il suo eclettismo e il nuovo disco, il primo per una major, che uscirà nel 2020

Foto: Max Ballatore

Per fare un paragone facile facile, il rap di Napoli sta al rap italiano come il rap di Atlanta – la città che ha dato i natali alla trap e a molti altri sottogeneri della musica hip hop – sta al rap americano. Sia da noi che negli Usa si tratta di ecosistemi quasi a parte, senz’altro provinciali rispetto a ‘capitali’ della musica urban come Milano e New York, ma forse proprio per questo si sono sempre distinti per creatività, stile, tematiche, approccio e vivacità della scena locale. E Ntò è stato tra i primi a mettere il Vesuvio sulla mappa, prima con i CoSang, un duo di culto formato da lui e Luché che alla fine degli anni ’90 ha fatto sognare gli ascoltatori di allora, e poi da solista, con una produzione eclettica, originale e piena di sfumature e influenze, dalla musica black della tradizione alle sonorità partenopee (un affare di famiglia, suo zio è Enzo Avitabile), dall’urban più all’avanguardia alla post trap di nuova generazione.

Il 2019 segna un momento importante per lui, quasi la chiusura di un cerchio: per la prima volta, dopo oltre quindici anni da indipendente, firma un contratto con una major, Sony Music. E nel 2020 si prepara a pubblicare un album che da una parte ha il sapore delle prime volte, ma dall’altra rappresenta già una solidissima certezza, come è evidente anche da uno dei primi singoli estratti, Salut, in collaborazione con Speranza. Quando lo raggiungiamo al telefono a Napoli piove, e pure a Milano, ma dal tono della sua voce è evidente che sui suoi progetti futuri splende il sole.

Arrivi da un lavoro in itinere abbastanza particolare, lo street album Rinascimento
Di fatto è una raccolta di singoli usciti tra il 2017 e il 2019, che poi sono i due anni che ho impiegato a lavorare sul mio nuovo album vero e proprio, quello che uscirà all’inizio del 2020. In questo tipo di mercato discografico c’è l’esigenza di essere sempre presenti, perciò ho cercato di mantenere alta l’attenzione e la visibilità con i vari brani che compongono Rinascimento, che testimonia anche un cambiamento di stile derivato dalle mie ricerche, dai miei ascolti e dalle mie ispirazioni. Penso che questa transizione si capirà ancora meglio nel prossimo disco, in cui ho messo davvero tutto, sia le mie influenze di oggi che quelle del passato.

Ascoltando i tuoi ultimi lavori, in effetti, si ha la sensazione che tu abbia degli ascolti molto variegati: trap francese, latin urban, rap classico… Cosa ti ispira, ultimamente?
Confermo: ascolto davvero di tutto, penso sia fondamentale. Trovo che la trap sia stata un fenomeno importantissimo, soprattutto negli album di alcuni giganti, come quello di Travis Scott, Astroworld, che è un’opera ragionata e piena di sfumature. O anche di gente giovanissima come YBN Cordae, che è stato appena candidato ai Grammy per il miglior album rap con il suo The Lost Boy. J Cole di recente ha sfornato delle strofe incredibili e Young Thug è un vero maestro. Ma adoro anche la scena latin urban da tempi non sospetti, anche perché uno dei miei più cari amici, con cui sono praticamente cresciuto, oggi organizza quasi tutti i concerti europei degli artisti reggaeton più quotati. Napoli è una città che ha sempre assorbito quel tipo di sonorità, forse per una questione di affinità.

Sei molto attento anche a scovare talenti nuovi nella scena italiana e in particolare in quella campana: capita spesso che tu coinvolga dei giovanissimi perfetti sconosciuti, almeno per il grande pubblico, all’interno dei tuoi brani. Un bel rischio, in un certo senso. Perché accollarselo?
Per me è una cosa naturale da sempre: quando sento qualcuno che mi piace, mi viene subito voglia di lavorarci. Ogni volta che l’ho fatto, non c’erano secondi fini: non si tratta di artisti su cui poi guadagno qualcosa, o che finisco per produrre. Magari prima o poi lo farò, ma finora non avevo alle spalle una struttura che mi consentiva di farlo nel modo giusto. Ora sicuramente ci saranno più possibilità di muoversi in questo senso.

Ecco, a proposito: nel concreto cosa cambia, per te, con il passaggio dall’indipendenza a una multinazionale della discografia?
Diciamo che lo considero un upgrade, ma in realtà non cambia molto, perché oggi le case discografiche lasciano fare la gran parte del lavoro all’artista, a livello creativo, quindi non ci sono grandi stravolgimenti. Il grosso dell’aiuto arriva a livello organizzativo: non devo più occuparmi di tutto da solo, dal deposito dei brani all’organizzazione dei videoclip passando per la promozione. Finalmente è arrivato il meritato momento di delegare! (ride, nda)

Tornando alle giovani leve, il tuo ultimo singolo, Salut, è in collaborazione con Speranza, un rapper emergente che ora è sulla bocca di tutti, ma a cui tu avevi dato spazio già in tempi non sospetti…
L’ho conosciuto molti anni fa: ogni volta che andavo a suonare a Caserta, la sua città, mi veniva a trovare, e capitava spesso che lo invitassi sul palco a fare qualche strofa con me, perché la sua attitudine mi aveva impressionato fin dall’inizio. Essendo un grande appassionato di rap d’oltralpe, adoravo il suo modo di inserire delle barre in francese all’interno delle sue cose. Mi auguravo che l’attenzione attorno a lui cominciasse ad accendersi, prima o poi, e così è stato.

Tra le altre cose sei anche un grande appassionato di cinema: hai perfino recitato, in alcune occasioni…
Non molto, in realtà! Nel 2015 ho fatto il co-protagonista (insieme a Clementino) in un film grottesco/poliziottesco che si chiamava All Night Long, girato da un gruppo di amici filmmaker di Napoli, ma è stato più che altro un divertimento, per me. E poi, anni prima, avevo fatto una particina ne L’Ispettore Coliandro, la fiction della Rai. Da una parte mi sarebbe piaciuto continuare a fare anche l’attore, ma è un settore che richiede una grande presenza e costanza, e già solo il fatto di vivere a Napoli e non a Roma ti limita. In generale, con il tempo ho capito che non fa per me. Anche con prodotti che sulla carta sembravano adattissimi a uno come me, tipo Gomorra, ho resistito alla tentazione di fare una comparsata nella serie: ho preferito limitarmi a dare un contributo in forma musicale. A meno che non fossi apparso nei panni di me stesso, non avrebbe avuto senso. Sono un musicista, e non voglio confondere le idee al pubblico.

Il tuo grande amore per il cinema è evidente anche dalla cura che metti nei tuoi videoclip. Un tempo seguivi il concept e la realizzazione personalmente: è ancora così?
Dipende: cerco di dare sempre un contributo creativo molto importante al progetto, ma non sempre lo giro o lo dirigo personalmente. Nel caso di Famoso, ad esempio, che è il mio penultimo video, mi sono affidato a un giovane maestro come Enea Colombi. Per Salut, invece, ho chiamato dei ragazzi giovanissimi, Tony Castrovilli e – i casi della vita! – @ass.essore, il cugino di Drast degli Psicologi. La scena creativa di Napoli in questo momento è fortissima, soprattutto tra le nuove generazioni.

È davvero un periodo d’oro per Napoli, che finalmente si prende un posto sotto i riflettori dopo anni in cui era stata ingiustamente considerata come una scena artistica un po’ marginale e fortemente localizzata. È una bella rivincita per chi, come te, cerca di imporsi sulla scena nazionale fin dai tempi dei CoSang?
All’epoca noi avevamo un doppio problema, e la nostra provenienza geografica non era certo il più grande: abbiamo debuttato in un periodo in cui la discografia era praticamente moribonda e i dischi non si vendevano più, perché Internet aveva rivoluzionato tutto. Non credo che fossimo sottovalutati, però: ancora oggi incontro ragazzi che ascoltano i dischi dei CoSang, nonostante molti di loro non fossero ancora nati quando erano usciti. Da parte mia c’è un sincero orgoglio per tutto ciò che è stato fatto e per dove Napoli è arrivata. Guardo alla scena di oggi come un padre orgoglioso, che vede il suo unico figlio che ce l’ha fatta. E non mi interessa come si chiama questo figlio, cosa fa o se ha i tatuaggi in faccia o meno! (ride, nda) L’importante è che sia riuscito ad affermarsi, nonostante le difficoltà, la mancanza di figure manageriali e di strutture sul territorio e tanto altro ancora.

Tornando per un attimo a Famoso, quando hai presentato il videoclip in anteprima su Rolling Stone hai dichiarato che «l’illusione di poter diventare ricchi e famosi sembra sia l’unico vero incentivo a voler diventare un artista»…
La tua domanda successiva sarà “Ma davvero secondo te non c’è più speranza?”. (ride, nda) La mia è più che altro una constatazione derivata dal fatto che vengo da una famiglia di musicisti: spesso mi capita di parlare con mio zio Enzo Avitabile e anche lui si trova d’accordo sul fatto che in questo momento le cose vanno così. Per fortuna, però, l’offerta si è moltiplicata: se da una parte ci sono sempre più ragazzi che si buttano sulla musica spinti dall’illusione del successo, dall’altra ci sono sempre più giovani talenti che trovano il coraggio di mettersi in gioco. E per fortuna c’è davvero spazio per tutti, anche in termini di generi: a fianco alla trap che ha dominato negli ultimi anni, spuntano anche personaggi come Massimo Pericolo che rimettono l’accento sul rap. I ragazzi vogliono ricominciare a sentire anche contenuti e testi veri, e non solo un sound accattivante.

In tema di contenuti e sound, quindi, cosa possiamo aspettarci dal tuo prossimo album?
Molte novità a livello di sound, che è molto personale e in costante evoluzione: ho voluto mischiare rap classico, beat trap, influenze latine e c’è perfino un brano piano e voce. Oltre a quello di Salut, ci sono altri due beat del mio storico produttore e dj, Klohn, e altri di G Ferrari, che lavora a stretto contatto con la Love Gang e quindi ha atmosfere totalmente diverse dalle mie, più pop. C’è un featuring molto importante e fresco con un ragazzo di Milano, di cui però non voglio anticipare nulla. Insomma, non c’è un pezzo uguale a un altro, però credo che nella mia abituale darkness io sia riuscito a portare un po’ di solarità e positività in più. A livello di linguaggio, invece, italiano e napoletano andranno quasi di pari passo, ed era una cosa a cui tenevo molto. Voglio parlare a tutti.

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