Noyz Narcos, rap per restare vivi | Rolling Stone Italia
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Noyz Narcos, l’intervista: rap per restare vivi

Il re è tornato con "Enemy", un disco tutto da ascoltare. Nel nome di chi è troppo scomodo per non sparire

Noyz Narcos, l’intervista: rap per restare vivi

Foto Andrea Iovine

Noyz Narcos è considerato il più punk dei rapper italiani, soprattutto sul palco, fin dal suo debutto solista a metà anni ’00. In studio, però, si trasforma in una macchina ad alta precisione, come conferma The Night Skinny, che lo ha seguito nella realizzazione del suo nuovo album Enemy, producendo metà delle tracce. «Lavorare con lui non è semplice: è un vero direttore artistico, ha le idee molto chiare», racconta seduto dietro al mixer, mentre in sottofondo scorrono le tracce del disco. «Beh, certo, non entro in studio per giocare», ride Noyz. «Dopo tanti anni a fare rap, so quello che voglio». E lo sanno anche i suoi fan, che da tempo reclamavano a gran voce un nuovo album. Ora che è arrivato, però, il rischio è che possa essere l’ultimo, come ha dichiarato lui stesso, annunciandolo. E sarebbe un doppio peccato, perché mai come in questo lavoro Noyz si è messo in gioco, confrontandosi con un sound coraggioso e con molti altri artisti, della sua generazione (Salmo, Luché, Coez) e della nuova scuola (Capo Plaza, Rkomi, Achille Lauro, Carl Brave x Franco126). La posta era molto alta, ma la scommessa è stata decisamente vinta.

Come ci si sente, a essere un veterano in un periodo storico come questo?
È una bella responsabilità: all’inizio fai quel che vuoi senza pensare troppo alle conseguenze, ma poi cominci a sentirti addosso il peso delle aspettative. Oltretutto, in questo momento ci si aspetta che dica la mia sulla situazione attuale. Ma farlo è difficile, anche un po’ frustrante: la scena nuova è una cosa completamente a sé, parliamo lingue diverse. A volte, quando pensi che tra il pubblico ci siano solo questi pischelli giovanissimi, viene la tentazione di mollare tutto.

È per questo che Enemy potrebbe essere il tuo ultimo album?
Ci sono colleghi che sfornano dischi senza sforzo, io invece ci metto tempo e fatica per scrivere cose che abbiano senso: un mio album vorrei che lo ascoltassero dall’inizio alla fine. Arrivato a un certo punto, è normale chiedersi se ne valga la pena. A me piace soprattutto stare sul palco, e i dischi sono funzionali a quello: non ce la farei mai a suonare le stesse tracce per quindici anni di seguito, motivo per cui ogni tot tiro fuori un nuovo prodotto per ampliare il mio repertorio. Roba che so che dal vivo spaccherà.

E sotto i tuoi palchi di solito c’è sempre parecchia gente.
Non sono solo i ragazzini a seguire il rap in Italia: ci sono anche ascoltatori più grandi, che però non dicono la loro sui social e non ti fermano per strada per le foto, e quindi sono meno “visibili”. L’idea che i miei dischi arrivino anche a loro mi fa davvero piacere. La mia è musica da ascolto: un po’ invidio quelli che ripetono le stesse tre barre per tutto il pezzo e riescono a far passare un concetto, ma io ho bisogno di elaborare. La gente da me si aspetta dei contenuti, giustamente.

Hai detto che oggi nel rap si tende a semplificare sempre di più i testi e i concetti per farli arrivare a tutti…
Non è musica fatta per restare: fai una hit sapendo che il mese prossimo ne dovrai fare una migliore, che farà dimenticare quella di prima. La gente è pigra, non ha voglia di fare ricerca per scoprire cose nuove, non ha voglia di scervellarsi per capire un testo. Ma ogni tanto, per fortuna, c’è ancora chi mi scrive per chiedermi: “In questa rima che cazzo intendevi?”.

Ecco: si è molto parlato dell’intro del disco, Inri, e di un potenziale messaggio anti-trap, ma cosa volevi dire davvero?
Molti hanno pensato che la frase “Siete tutti uguali” sia riferita alla trap. In realtà parlavo del pubblico mainstream di oggi, non degli artisti. I ragazzi oggi passano la vita a mitizzare quella degli altri, anziché sbattersi per migliorare la propria. Per tutti il rapper è un supereroe, una star, e si fermano a quello. Non ce l’ho coi ragazzini, sia chiaro: vorrei solo dare una svegliata a tutti. So che è dura, perché sono abituati proprio in un’altra maniera, sempre per la storia di prima: i social, le foto…

Che non ami molto.
Se devo dire una cosa, preferisco scriverla in un testo. E anche l’ossessione per le foto non la capisco. Poco fa, mentre attraversavo la strada per venire qui, un tipo mi ha visto dalla vetrina di un negozio e si è messo a inseguirmi sotto la pioggia col cellulare in mano. È l’esagerazione che mi dà fastidio: molti non capiscono che anche noi siamo persone, e non è sempre e comunque il momento giusto.

Tornando all’album: in Sinnò Me Moro omaggi Gabriella Ferri, leggendaria cantante romana morta suicida nel 2004…
Nella mia vita l’ho ascoltata tanto, mi sembrava giusto farlo. Il pezzo parla della nostalgia per Roma, ora che abito a Milano da tre anni e mezzo: “Mi manca zona mia, le cose che ho lasciato, un bacio a mamma mia”… Quel modo di raccontare la città mi piace parecchio, e infatti nell’album ci sono più pezzi che richiamano la romanità, come quello con Carl Brave x Franco126, Borotalco. Il loro disco mi è davvero piaciuto: sembra roba di Remo Remotti, un altro cantautore romano.

È difficile immaginare Noyz Narcos fuori dal grande raccordo anulare, in effetti. Come ti trovi a vivere lontano?
Avevo già vissuto altrove, ci sono abituato. Da romano, ovviamente mi tocca dirti che nessun posto sarà mai come Roma. Ma tanto non scappa: quando torno ritrovo gli stessi amici davanti allo stesso pub, con la stessa birra in mano, a ridere per le stesse cazzate. E poi a Milano c’è un bel movimento, tanti altri si sono trasferiti qui per fare musica. Con Coez, per dire, ci becchiamo spesso a cena: rimediamo del guanciale da qualche parte e ci facciamo una carbonara come si deve, siamo più amici adesso di quando stavamo lì. Il featuring Sputapalline è nato un po’ così.

Foto Andrea Iovine

Tra le collaborazioni ci sono parecchi rapper della nuova scuola: molti tuoi fan non se lo aspettavano…
Li trovo fortissimi e originali: sono cresciuti ascoltando la nostra musica, ma l’hanno rielaborata alla loro maniera facendo qualcosa di completamente diverso.
(Interviene tns) Secondo me la cosa figa è che siamo riusciti a far entrare loro nel suo mondo, e non viceversa.
Esatto. Il criterio, comunque, è stato scegliere persone molto attive che fanno cose molto fighe, indipendentemente dall’età. E ovviamente con cui mi trovo bene umanamente. Non mi piacciono i featuring a distanza: abbiamo sempre registrato insieme in studio.

Avendo iniziato a fare rap con una crew iconica e affiatata come il Truceklan, ti manca ogni tanto la dimensione collettiva?
Come no. Da morire. Con gli altri del Truceklan siamo ancora amici, ma con la musica preferiamo fare singolarmente. Era inevitabile che ciascuno prendesse la sua strada, sta scritto nella storia di ogni gruppo, guarda anche cosa succede nel rock. Se metti di mezzo i soldi, è la fine. Se ne accorgeranno anche tutti questi pischelli che ora sono così uniti.

Tra l’altro, molti sostengono che la Dark Polo Gang sia il Truceklan degli anni ’10. Pareri?
Beh, fanno una cosa diversa, ma sono entrati a gamba tesa nella maniera più dissacrante possibile, perciò il paragone ci sta. Per me è figo il modo in cui si sono imposti, hanno la giusta vena di follia. Anche musicalmente spaccano: ti arrivano, che è il primo dovere di chi fa musica. A furia di approcciarli come una cosa LOL, li hanno presi sul serio. I genitori dei loro fan li odiano, come ai tempi odiavano noi. Ce l’hanno fatta.

Essere il nemico pubblico n°1 paga, quindi?
Dipende, perché ti si ripercuote sempre contro. Se hai un milione di fan e il potere di mandare messaggi scomodi sei pericoloso, fai paura, e cercano di abbatterti con qualsiasi scusa: l’ho vissuto sulla mia pelle, anche se in fondo me la sono andata a cercare. Prima o poi anche in Italia faranno fuori qualche cantante scomodo. Lo ritroveranno in una vasca da bagno con una pera in vena, come è già successo nella storia della musica.

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