Non sparate sul pianista: intervista a Stefano Bollani | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

Non sparate sul pianista: intervista a Stefano Bollani

C'è stata una piccola sparatoria, l'unica volta che Bollani ha suonato in una favela. Ma la cosa non ha impedito che il pianista si innamorasse del Brasile, fino a dedicargli anche il suo nuovo album, "Que Bom"

Non sparate sul pianista: intervista a Stefano Bollani

Stefano Bollani è stato il secondo pianista in assoluto ad aver tenuto un concerto nelle favelas di Rio de Janeiro. Di quell’esperienza, parliamo del dicembre 2007, Stefano ricorda soprattutto il momento magico dell’incontro eccezionale fra la città ricca dei bianchi e quella invisibile dei neri, ma anche lo spavento. «C’è stata una piccola sparatoria» scherza il pianista. Qualcuno ha visto le camionette della polizia senza sapere del mio concerto, è partita qualche pistolettata ma poi si è calmato tutto. «Comprensibile, visto che lì di solito la polizia non si fa troppi scrupoli a sparare.» Lui per fortuna era nel backstage, lontano da tutto. Ma l’episodio in ogni caso non gli ha impedito di prendersi una sbandata totale per il Brasile e la sua musica popolare.

Prima è arrivato Carioca (2008), un album dove Stefano e il suo quintetto reinterpretano in chiave jazz le canzoni popolari più famose, e poi, dieci anni dopo, Que Bom. E qui, il piano man si è concesso il doppio lusso di un disco di inediti e di collaborazioni importanti con Caetano Veloso o João Bosco. È uscito il 25 maggio e, tempo di organizzarsi, verrà portato in tour già a partire da questa settimana e per tutta l’estate, passando anche per Umbria Jazz.

Hai suonato a Piano City per le strade di Milano quest’anno?
No, ho suonato l’anno scorso. O erano due anni fa? Non ricordo di preciso.

Beh, comunque tu questa cosa l’hai fatta anche nelle favelas.
Sì, l’abbiamo fatto sempre col gruppo di Carioca. Il merito lo si deve ai ragazzi di Umbria Jazz e al governo brasiliano. C’è da dire che era una balera bonificata, cioè dove si poteva entrare. Ciò non toglie che abbiano sparato durante il concerto.

Davvero?
Sì ma non sparavano sul pianista. Il tutto si svolgeva tutto ai piedi della collina della favela, e più sali sulla collina e più è pericoloso. Io sono andato fino in cima a fare un giro insieme a un ragazzo della favela che a ogni angolo tranquillizzava tutti: “Tutti calmi, è un artista! Lasciatelo passare” Il problema è che il concerto iniziava alle 8 di sera, cioè quando gli uomini delle favelas tornano da lavoro, dalla città alla baraccopoli. Così sono tornati senza sapere nulla del concerto, hanno visto le camionette della polizia che era lì per fare servizio d’ordine, e si sono messi a sparare. Siccome la maggioranza degli abitanti delle favelas non è iscritto all’anagrafe, di solito la polizia quando fa le retate non si fa problemi a sparare e ammazzare. Tanto è tutta povera gente che ufficialmente non è mai nata. Quindi sono volati un paio di colpi ma immediatamente sono uscite le donne urlando che c’era un concerto. Da lì, tutto a posto. Io per fortuna ero nel backstage.

Da allora non hai più suonato in una favela?
No, ma fidati che è stato già un miracolo suonarci quella volta. Ero tipo il secondo nella storia della favela ad aver suonato un pianoforte lì.

Come ha reagito il pubblico a uno strumento che non vede mai?
Buona parte del pubblico in realtà veniva dalla città di Rio, quindi conosceva perfettamente il piano. Solo una parte di pubblico era scesa dalla collina della favela. Lo scopo del concerto era di far incontrare persone che altrimenti non si incontrerebbero mai nella vita. Bianchi ricchi e neri delle favela. Quello che poi teneva insieme il pubblico era che io mi sono messo a suonare brani famosissimi in Brasile, come se qui in Italia suonassi O Sole Mio. Anche se non c’era il cantante, riconoscevano il brano e canticchiavano. Come se fossi venuto dall’Europa a insegnargli la loro musica.

Com’è nato il pallino per il Brasile?
Da ragazzino mi è capitato fra le mani Getz/Gilberto, il disco bossa nova di Joao Gilberto e Stan Getz. Mi sono innamorato, così a tappe ho cominciato a suonare con una cantante che si chiama Barbara Casini. Finché non ho incontrato la musica popolare brasiliana di Caetano Veloso, Chico Buarque, Gilberto Gil e compagnia. Da lì è nato Carioca e dal 2008 vado più o meno tutti gli anni in Brasile a suonare, a registrare, a fare qualsiasi cosa. Ho avuto anche il piacere di incontrarlo, Caetano, per questo nuovo disco.

Ti sei tenuto comunque a debita distanza dalla bossa nova. Hai preferito la brazilian music.
No, non c’è bossa nova. Il Brasile è stracolmo di musica bellissima, sarebbe un peccato fossilizzarsi sulla bossa nova. C’è un sambone bellissimo di Joao Bosco, Caetano canta un pezzo suo che non è bossa. Lo faceva soprattutto negli anni 50/60, ma lui fa proprio musica popolare brasiliana, la definisce così.

E tu, la saudade, la senti?
Abbastanza. C’è un brano che è vistosamente traboccante di saudade. Però il disco già a partire dal titolo è tutto una gioia, c’è poco spazio per la malinconia. Pensa che i brasiliani hanno almeno una ventina di espressioni simili a Que Bom per dire “che bello!” E il bello è che il contrario praticamente non esiste. Parlo il portoghese, ho un forte accento di Rio perché l’ho imparato lì, però se un concerto non ti piace io proprio non saprei dirti come dirlo nella loro lingua. Un concerto viene sempre bene, sono sempre tutti allegri. Que bon! Que lindo! Que joia! Maravilha! Todo azul! Todo legal! Te ne ho dette solo alcune, sono tantissime. Comunque non vedo l’ora di suonarlo dal vivo, mi diverto col mio quintetto. Ormai non facciamo neanche più le prove, siamo una cosa sola, abbiamo un’intesa assoluta.

Ci sono anche citazioni cinematografiche, sei un patito?
Ce n’è una evidente, che è il pezzo che si chiama Michelangelo Antonioni. È proprio il brano di Caetano che abbiamo reinterpretato insieme in italiano. Lui è molto fan, voleva fare cinema da ragazzino. È un patito di Antonioni e dopo averlo conosciuto ha scritto un pezzo in un italiano inventato. Mi sono limitato a dargli un testo vero e farglielo cantare.

È un gran bel pezzo. E tu ne mastichi di cinema?
C’è una citazione un po’ più nascosta e ce l’ho messa io perché sono anche io un appassionato. Il pezzo che si chiama Uomini e Polli è il titolo di un film di un regista danese che adoro, Anders Thomas Jensen. Ha fatto anche Le Mele di Adamo, hai visto?

No, me lo consigli?
Chiaro. È la storia di un naziskin che esce di galera a patto di lavorare per un anno in una parrocchia di un prete protestante. È una commedia dark che parla di questo rapporto grottesco fra loro due. Consiglio sempre a tutti di guardarlo. Nel cinema comunque non ho mai fatto nulla, a parte qualche colonna sonora in qualche documentario. Pensa che avevo composto la colonna sonora di Caos Calmo di Nanni Moretti. Ma in realtà se vai a vedere il film la firma è di qualcun altro. All’ultimo minuto la mia colonna sonora non è passata. Devo dirti che era ardita, immaginati un gruppo free jazz che suona lungo tutto il film. Io ho il DVD con la mia versione, ammetto che era azzardata come soundtrack. Fai conto che in una scena Moretti sta seduto su una panchina: nella versione definitiva c’è in sottofondo un pezzo pop di Rufus Wainwright, nella mia c’è un assolo di batteria tipo Animal dei Muppets. Un mio amico dopo averlo visto mi ha detto: Se te lo lasciano fare è un miracolo” e infatti non me l’hanno lasciato fare. Dovevo farlo più pop.

Stefano Bollani - Galapagos (QUE BOM single)

Come sei messo sulla musica attuale, quella di tendenza?
Non molto bene. Ascolto ma non troppo.

Ti sarai fatto una tua opinione sulla trap, no?
Più o meno, me la sono fatta grazie a The Andrè, quel tizio che imita De Andrè ma con i testi della trap. Ecco, lì mi sono accorto che quei testi, cantati con un’altra voce, con un po’ più di carisma, non erano neanche male. Ho pensato: “‘Orca miseria, alla fine, ‘sto povero Ghali..” Il testo era carino: “Come andare in paradiso / ma senza morire” [dal testo di Habibi, ndr].

Ce n’è uno che fa parecchio discutere, si chiama Young Signorino. Ha 19 anni, ha già un figlio ed è già stato in psichiatria.
Bene! A 19 anni ha già fatto tutto! È un’ottima notizia! [ride]

Il tuo nome trap quale potrebbe essere?
Come funzionano di solito i nomi trap?

Di solito c’è uno “Young” prima del nome.
Allora Young Yin. Così sconfiniamo nello spirituale orientale. Non è già stato usato?

Non mi risulta. A volte qualcuno al posto usa anche “Lil”.
Bene, allora sarò Lil Young, così creiamo un cortocircuito nel sistema. “Salve, vorrei l’ultimo di Lil Young”.

Tu tra l’altro sei anche un personaggio dei fumetti di Topolino!
Certo, sono Paperefano Bolletta! Mi hanno contattato loro, volevano dare a Paperino un amico artista, che suonasse il piano. Così abbiamo scritto insieme tre storie. Bolletta era perfetto. Voglio dire, l’amico di Paperino mica poteva essere ricco.

Altre notizie su:  Stefano Bollani