«Non ricordate Kurt per la sua morte, ma per la sua musica» | Rolling Stone Italia
Io lo conoscevo bene

«Non ricordate Kurt per la sua morte, ma per la sua musica»

Nel trentesimo anniversario della morte di Cobain, riproponiamo un’intervista al manager dei Nirvana Danny Goldberg realizzata nel 2019 in occasione della pubblicazione del libro ‘Serving the Servant’

«Non ricordate Kurt per la sua morte, ma per la sua musica»

Kurt Cobain

Foto: Frans Schellekens/Redferns

Danny Goldberg ha metabolizzato la morte di Kurt Cobain solo in anni recenti. «Per molto tempo il solo pensarci e l’idea addentrarmi così profondamente nell’argomento era doloroso», spiega il co-manager dei Nirvana. Durante le festività natalizie del 2017 ha deciso finalmente che era pronto a raccontare la storia. Il risultato è Serving the Servant. Ricordando Kurt Cobain, un volume struggente di memorie che ripercorre i tre anni e mezzo in cui Goldberg ha conosciuto il musicista scomparso nel 1994.

Nel libro, Goldberg ricorda quando ha iniziato a gestire la band, ovvero poco prima del boom di Nevermind. Descrive con dovizia di particolari il suo rapporto stretto con Kurt, sia a livello professionale che personale, e come lui e la sua ex moglie, l’avvocata Rosemary Carroll, abbiano fatto di tutto per proteggere Cobain e Courtney Love dai media. Ricorda la telefonata con cui gli è stata data la notizia del suicidio di Cobain: «Non mi riprenderò mai completamente dalla tristezza e dall’angoscia che ho provato in quel momento».

Perché hai aspettato 25 anni prima di raccontare la tua storia?
Per dieci anni dopo la sua morte ho cercato di non pensarci. Poi ho iniziato a dirmi che avrei voluto raccontare questa storia perché avevo l’impressione che la percezione di Kurt fosse incentrata più sulla sua morte che sulla sua vita. Ho pensato che avrei potuto dipingere un ritratto diverso, basato su ciò che mi viene in mente quando lo ricordo.

Hai scelto di concentrarti esclusivamente sugli anni in cui hai lavorato con lui.
Volevo raccontare solo ciò che sapevo, non volevo fare una biografia di Kurt. Altri hanno già trattato bene la prima parte della sua vita, non volevo aggiungere nulla a tutto ciò. Ho cercato di catturare l’essenza e l’emozione di ciò che conoscevo. Ho fatto molte ricerche, ho intervistato 40 persone, ho letto un’infinità di cose su di lui, ma è tutto relativo al lasso di tempo in cui sono stato direttamente coinvolto e facendo riferimento ai miei ricordi. Mi sembrava giusto farlo così, il libro.

Quali altre biografie di Kurt ti piacciono?
Apprezzo gli scritti di Michael Azerrad su di lui, quelli usciti su Rolling Stone e nel libro Come as You Are, e le interviste per il film About a Son. Mi piace molto anche il libro di Everett True. E credo che Charles R. Cross abbia fatto un buon lavoro con il suo volume. Questi sono i tre per i quali ho più rispetto.

In cosa pensi che gli altri libri su di lui abbiano fallito e non siano riusciti a cogliere?
Mi pare che, nel complesso, la sua immagine sia stata troppo monopolizzata dalla sua morte, mentre i miei ricordi sul suo conto riguardano più che altro la sua creatività, la sua dolcezza, il suo senso dell’umorismo. E, soprattutto, credo che ciò che interessa ai fan sia la musica. La compassione, la brillantezza e le proprietà misteriose della musica che lui creava quand’era in vita. Chi era la persona che faceva tutto questo? Sentivo che c’era spazio per un ritratto differente, filtrato attraverso una lente diversa. E poi c’è un dettaglio non da poco: io ho lavorato con lui. È un po’ diverso dall’essere un giornalista.

Che ne pensi di Montage of Heck?
Lo rispetto come gesto artistico sincero, so che Frances e Courtney vi hanno partecipato e lo rispetto enormemente, ma è un ritratto più tenebroso di quello che ho in mente io. Penso che ci sia stata un’attenzione sproporzionata alla cupezza e una certa mancanza di attenzione verso la sua creatività, il suo senso dell’umorismo e altri aspetti. Mi sembra incompleto.

Il libro si apre con un teenager che chiede di fare una foto con te. Succede spesso?
Sempre, ancora oggi, coi giovani che vengono da me per un lavoro o uno stage, oppure i figli e le figlie dei miei amici che sanno che ho dei trascorsi coi Nirvana. Mi piaceva l’idea di iniziare con quel ragazzino perché stava partecipando a Occupy Wall Street e credo che a Kurt sarebbe piaciuto sapere che i ragazzi di quel movimento apprezzavano quel che ha fatto. Ma non è certo l’unico. C’è gente che indossa magliette dei Nirvana e probabilmente non era nemmeno nata quando Kurt è morto. C’è qualcosa nella musica che ha scritto e cantato che trascende le generazioni. È una cosa rara. Altri artisti ci sono riusciti, ma sono pochi.

Frances Bean Cobain, Courtney Love, Rosemary Carroll, Danny Goldberg, Kurt Cobain. Foto: Jeff Kravitz/FilmMagic

Qual è il tuo ricordo preferito di Kurt?
Più di tutto il suo sorriso. Il problema, quando lavori con uno famoso, è che poi racconti le stesse storie così tante volte che finiscono per sembrare finte, anche se sono realmente accadute. Mi tengo stretti i ricordi di cui ho scritto, nel libro ce ne sono alcuni che significano molto per me. Ma quando in privato penso a lui, vedo lo sguardo che aveva: dolcissimo, ma mescolato allo stesso tempo a un umorismo sardonico.

Hai cercato di parlare con Dave Grohl?
Ho inoltrato una richiesta tramite il suo manager e non ho avuto risposta. Ma non mi sono certo dannato l’anima per cercare altri canali per raggiungerlo, né l’ho martellato. Ho un rispetto grandissimo per Dave Grohl. Voglio dire, guardate cosa è riuscito a fare, e non solo in termini di successo, gestendo la sua carriera con integrità e dignità. Io però non ero granché in confidenza con lui. Volevo provare a mettere nero su bianco un periodo circoscritto di tempo di tre anni e mezzo e in quel momento ero molto più vicino a Kurt. John Silva (co-manager dei Nirvana, nda) è entrato più in confidenza con Dave e Krist, io con Kurt, soprattutto dopo che lui e Courtney si sono messi insieme. A differenza di altri, ho capito il rapporto che c’era tra loro e questa cosa mi ha avvicinato a Kurt.

Krist è citato spesso nel libro.
Con lui sono sempre rimasto in contatto personalmente. Condividiamo idee politiche e interessi, ed è semplicemente una persona fantastica. Anche se non abbiamo mai parlato di Kurt dopo la sua morte, fino al libro. Era uno di quegli argomenti da cui stavamo alla larga. È stata una rivelazione riuscire a farlo aprire su alcuni di questi temi. È molto disponibile. Per me ha significato molto parlare con lui.

In che rapporti sei con Courtney?
Ci sono stati periodi in cui ci siamo parlati di più e altri in cui non ci siamo parlati affatto. Ma sono tornato in contatto con lei. Ci siamo sentiti un paio di volte per il libro e mi ha spedito dei messaggi in risposta a molte mie domande. L’ho apprezzato molto. Le voglio bene. È una persona complicata. Abbiamo avuto alti e bassi, ma sono di nuovo in contatto con lei e questo significa molto per me.

Anche lei sta scrivendo un libro…
Sta lavorando a un’autobiografia. Sono sicuro che sarà incredibile: è una delle persone più intelligenti che conosca e ha avuto una vita interessante, non solo per il periodo con Kurt. Sarò il primo a comprarla.

Sono certo che ripensare a quel periodo non sia stato facile.
È stato come andare sulle montagne russe. Alcuni mi hanno fatto sentire più vivo, altri mi hanno fatto arrabbiare. È ovvio che lui era incline alla depressione, aveva problemi di droga e si è ucciso. Sono cose tristi. Ma mi è piaciuto molto riallacciare i rapporti con alcune persone per raccogliere i loro ricordi e anche trovare il modo di dire ciò che volevo dire. È stato catartico. È un argomento che avevo relegato in un angolo della mia mente e che ho dovuto affrontare per scrivere il libro.

Rimpianti?
Credo che nessuno sappia davvero il motivo per cui la gente si uccide e che non esista una risposta semplice o facile al perché lui o chiunque altro l’abbia fatto. Nonostante tutti gli psichiatri, i preti, i rabbini e gli yogin che esistono al mondo, ogni anno 50 mila americani si uccidono. Però ci ripenso… e se l’avessi invitato a stare da noi per qualche giorno? Magari sarebbe stata una buona idea. Forse avrei dovuto passare più tempo a cercare di trovare altri psicologi che avessero esperienza con gli artisti. È naturale rimuginare quando si ha la disgrazia di essere stati vicini a qualcuno che si è tolto la vita. Ma credo che, alla fine, chi lo fa lo fa e basta, non dipende dalle persone che ha intorno.

C’è qualcosa che avrebbe potuto salvarlo?
Non credo. Penso che gli volessero bene in tanti, ma nessuno lo saprà mai: non è possibile tornare indietro e vagliare centinaia di ipotesi. Credo che chiunque conosca qualcuno che si è ucciso ti direbbe la stessa cosa. C’è un mistero dietro al motivo per cui alcune persone lo fanno e altre no.

Ti capita ancora di ascoltare i Nirvana?
Ogni tanto. L’ho fatto molto durante la stesura del libro perché sentire la sua voce mi rievocava certi piccoli elementi della sua anima e della sua personalità che mi hanno aiutato a ricordare di chi stavo scrivendo. Anche nel corso della promozione del libro, per restare nel giusto spirito e non essere troppo distaccato. Ci sono stati periodi in cui non li ho voluti ascoltare, ma principalmente penso che lui abbia creato molta musica grandissima in pochi anni e loro sono una delle mie band preferite.

Cosa pensi che il tuo libro possa aggiungere al lascito di Kurt?
Spero che metta in risalto il suo talento, la sua genialità e le parti di lui che hanno creato la sua figura di artista, così che nel complesso la gente pensi un po’ di più al suo talento e un po’ meno a come è morto.

Da Rolling Stone US.

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