Nitro, andarci pesante col mondo | Rolling Stone Italia
Picchiare duro

Nitro, andarci pesante col mondo

A dicembre girerà l’Italia per la prima volta con una band. Siamo andati a trovarlo per capire come sarà il concerto (molto crossover anni 2000) e chiedergli della diversità da certi rapper che sembrano «pugili senza tecnica»

Nitro, andarci pesante col mondo

Nitro

Foto: Asia Michelazzo

La band suona dritta, tirata. Poche pause e molto corte. Due parole e si riparte. Per terra il classico tappeto persiano tipico di ogni sala prove. Intorno, invece, bevande un po’ inusuali: acqua, ancora acqua, qualche succo di frutta. Modalità straight edge on, i cinque (Bolo al basso, Otto alla batteria, Mike Defunto alla chitarra e DJ MS in console) suonano in un crescendo di potenza, partendo dalle sonorità malinconiche di Too Late e finendo con la presa al collo di Paranoia. Nu metal, hardcore, crossover: in questa mezz’ora di prove, torniamo tutti lì, nei primi 2000, in quella finestra di tempo più stretta di altre, dove quei generi dominavano e, secondo l’artista che ci ha ospitati nello Studio Q in una Milano sud semideserta, «torneranno a prendersi uno spazio importante nella scena musicale, perché sono troppo fighi».

A parlare è Nitro, uno che sembra uscito dal mix tra Vikings e Sons of Anarchy, ma che quando inizia a parlare fa sì che te lo immagini seduto in un salotto elegante, alle spalle una libreria piena di volumi di ogni genere e scritti in quattro lingue diverse (Nicola Albera da Vicenza parla inglese, spagnolo, tedesco e portoghese e in una vita parallela avrebbe voluto fare il traduttore), il sigaro in una mano, un animale domestico a caso da accarezzare con l’altra.

Il tour invernale, che partirà il 1° dicembre da Bassano del Grappa e finirà il 21 dello stesso mese a Napoli, lo vedrà muoversi tra queste due anime, quella selvaggia e quella riflessiva, intimista, esistenzialista, «ma con una percentuale nettamente a favore della prima. Ho un band esagerata, che picchia duro, e la voglio usare al massimo delle sue potenzialità». Sembra tranquillo, gli dico, sembra che abbia sempre fatto questo: il rap suonato con l’onda d’urto degli strumenti, e invece no, è la sua prima volta in dieci anni di carriera. «Ci si arriva con il tempo, a capire quando si è pronti a cambiare percorso e prendere una strada nuova, che però è sempre stata lì davanti agli occhi, che è sempre stata una delle scelte possibili da poter prendere davanti ad un bivio. Mi ci incammino oggi, so che è il momento, so che verrà fuori uno show che non farà decisamente annoiare nessuno».

Ma tutto questo ce lo siamo detti alla fine, quindi facciamo rewind e andiamo al momento in cui siamo andati fuori traccia, e dal tour con full band di Outsider siamo finiti a parlare di sessismo nel rap, materialismo esasperato, crioterapia e di due ragazze «che fanno paura» con cui ha fortemente voluto collaborare.

Tu e Madame vi rincorrete in queste date invernali, dato che sarete entrambi in tour. Però sarebbe bellissimo sentire Too Late dal vivo fatta da voi due insieme. C’è speranza?
Lo sai che quando si tratta dei guest dei concerti non si può dire niente o quasi. Di sicuro quando andiamo di là (nella sala prove più clean che abbia mai visto, nda) la sentirai fatta con la band, perché in scaletta c’è. Ovvio che Francesca è una parte preziosissima di quel pezzo, non solo perché ha una voce quasi aulica, eterea, ma soprattutto perché scrive come pochissimi sanno fare in Italia. E forse non solo in Italia. Madame è un’artista immensa che trascende la sua età, e infatti arriva ai giovanissimi come agli ultraquarantenni.

Quando hai iniziato tu, riuscivi in questa cosa di saper comunicare sia con gli adulti che con i tuoi coi coetanei?
Io sono stato un prototipo di quello che è oggi Francesca, perché mi sono affacciato nella scena musicale che avevo 19 anni, e dieci anni fa quell’età equivaleva ai 15 anni di oggi. Quando ho iniziato, i rapper che avevano un certo tipo di fama erano tutti sopra i 25 anni, quindi anche il pubblico era più o meno coevo a loro. Io mi sono inserito in quella scena e per assurdo all’inizio cantavo per gente parecchio più grande di me. Le distanze si sono accorciate con il tempo e adesso mi ascolta chiunque, dai ragazzini a chi ha dieci anni più di me.

Foto: Asia Michelazzo

Pensare ai tuoi inizi mi rimanda a un momento in cui esistevano ancora le sottoculture e il rap ne era parte. Come hai vissuto quel senso di appartenenza che andava di pari passo anche all’autoesclusione rispetto al resto del mondo?
Era un po’ castrante, ma penso che ogni forma artistica ha bisogno del suo momento per trovare una fioritura. Certi nuclei culturali devono prima isolarsi per definirsi, e poi hanno l’occasione di intrecciarsi con altri. Io sono legato a certi artisti che mi hanno formato da ragazzino e non li abbandonerei per niente al mondo, mentre adesso è molto più facile vivere passioni che si bruciano in fretta: ascolti un artista, poi lo molli per un altro, poi ti stufi e vai in fissa col nome di turno, e via così in modo quasi schizofrenico. La visceralità che ti legava a una cultura underground non c’è più, perché Internet ha reso anche l’underground mainstream. La cosa interessante è che se avessimo una macchina del tempo e andassimo indietro ai primi 2000, troveremmo un ASAP Rocky che non fa le commercialate più recenti, ma dischi super hardcore, parecchio difficili sonoramente. D’altro canto la cosa bella del rap di oggi è che essendo, invece, così mainstream riesce a dare luce anche a progetti pieni di arte e di cultura.

Nel tuo ultimo disco Outsider c’è cultura e c’è anche politica, senza che sia un album-manifesto di una parte o dell’altra.
Quando scrivo una canzone non parto con l’obiettivo fare il comizio, perché non lo sento come un mio dovere, ma è inevitabile che il messaggio venga fuori. Tutti noi facciamo politica ogni giorno, in base a quello che scegliamo di magiare, a quello che scegliamo di bere e di metterci addosso. Siamo continuamente la formazione di un’idea politica di qualcun altro. Sarebbe stupido credere di poter essere ininfluenti.

Queste cose che mi stai dicendo le vedi più disallineate o condivise dalla tua scena musicale?
Disallineate. Ci sono tantissimi artisti che hanno capito che è molto più semplice far finta di niente e girarsi dall’altra parte. Se riescono a dormire, buon per loro. Anch’io se riuscissi a dormire forse farei come loro. E invece non ce la faccio, certe ingiustizie il sonno se lo portano via. Ma attenzione: non per questo mi sento superiore a loro. Perché può anche essere che uno faccia musica che è zero politica, e poi con la palata di soldi che guadagna finanzi un ente benefico e questo incide più delle mie belle canzoni impegnate. Ognuno decide che cosa fare della propria musica: c’è chi vuole che sia la colonna sonora e chi vuole che sia un sottofondo.

Com’è successo che partendo da un contesto come quello del rap italiano dove i temi trattati sono relativamente pochi e spesso egoriferiti, tu abbia allargato così lo sguardo?
Mah, è che io sono così. E a volte è un peso. Non riesco ad abbassare la testa davanti a certe dinamiche, non riesco ad evitare di dire qualcosa anche se mi porterà dei casini, se è così che la penso e se credo che potrà aiutare qualcun altro. Ma come ho detto prima, la missione che mi vivo io con la musica non è un dovere per tutti, non lo pretendo e, anzi, il ripetersi dei temi nelle canzoni degli altri giova a me e al mio pubblico, che trova qui cose che altrove non ci sono. Però, di nuovo, faccio fatica a biasimare i ragazzi che iniziano a rappare oggi. Perché se, come credo, i bambini imparano molto prima di quanto capitasse a noi che la vita gira attorno ai soldi, è normale che nella musica sentano il bisogno di sentir parlare di quello. Sono già molto a contatto con il tema.

Il fatto che i soldi siano al centro di tutto non è forse vero da sempre?
Sì, ma prima non c’era il problema dell’umiliazione pubblica. Ora una cosa che pensi tu, che fai tu la può vedere anche gente che sta fuori dal tuo gruppo sociale, di scuola, di lavoro, e questo amplifica la gravità di ogni situazione. I ragazzini sono spremuti dal loro contesto, inondati da informazioni inutili, da valanghe di pubblicità, dall’idea che ti servano tutte queste cose, anche se non ti servono. Capisco che così nasca una smania materialistica, perché ci cresci in mezzo.

Foto: Asia Michelazzo

Manca al rap e alla trap la capacità o la voglia di mettersi in discussione? Anche in riferimento a certe accuse recenti secondo le quali i contenuti di certi pezzi istigherebbero a comportamenti violenti e che, sì, sono spesso fatte, in modo quasi irricevibile, ma che potrebbero essere spunto per un dialogo più interessante della prevedibilissima alzata di scudi?
Questo è un discorso super delicato, è un discorso divisivo anche per chi sta nella stessa scena, perché è ovvio che non puoi relegare il rap in un pensiero unico. Sicuramente, e mi dispiace dirlo, il rap da quando è parte della musica popolare, ha molta paura di perdere seguito in base a quel che dice e pensa. Così non si colgono occasioni preziose, per paura di essere mollati da 100 follower, quando invece potresti esporti e dare motivazione a 100 persone per fare qualcosa nella vita reale. Poi io sono convinto che la musica debba essere libera, che la musica possa dire qualsiasi cosa, anche la più assurda. Ma quando sento una canzone che è solo un’accozzaglia di minacce, frasi sessiste, dove non c’è neanche la rima, neanche la ricerca della parola, non c’è la figura retorica, allora quello è solo uno sfogo, è come andare a tirare al sacco senza avere le tecniche della boxe.

Però lì ti fai male.
Lì ti fai male e ti farai sempre male. Vorrei dire ai ragazzi che scrivono di avere tanta coscienza delle parole che usano, perché anche io che penso cento volte a una frase prima di buttarla giù, ho pubblicato delle cose del mio periodo più arrabbiato di cui non vado particolarmente fiero. E ti ritornano in mente di notte, e ci stai un po’ male, quindi occhio.

Tutta questa autocoscienza quasi violenta che hai lascia un po’ la presa in un momento come questo in cui stai preparando un tour invernale inedito per te, con la full band?
Sì, ma mi devo regolare con il fattore ansia, anche se mi aiuta tantissimo sapere di non essere solo sul palco, dopo dieci anni. Mi mancava la sensazione di avere le spalle coperte, di avere un gruppo con me, come ai tempi in cui con Machete portavamo in giro live i vari Mixtape.

Di ansia parli tanto, nei tuoi pezzi. Come va ora?
Di certo non sono la persona migliore a cui chiedere consigli, ma, per quel che vale, a me aiuta rimanere concentrato sul qui e ora, senza scivolare via a rimuginare sul passato o a proiettarmi nel futuro.

Nitro più band, risultato: un ritorno ai tuoi primi amori musicali?
Sì, assolutamente, mi ha fatto fare un bel throwback nella musica nu metal dei primi 2000, al crossover, che suona tantissimo attuale e che secondo me avrà un ritorno, perché è musica troppo figa per essere incapsulata in un periodo troppo corto di tempo. E non solo a livello sonoro, ma anche di immaginario, di stile, con quei vestiti neri di pelle che ci siamo rimessi tutti addosso nel post Covid, quando sembravano usciti da Matrix.

Sarà un live dark?
Ci saranno tanti momenti, tanti colori, ma premerà tanto sull’energia, sulla potenza.

Sei uno da preparazione atletica pre tour?
Una cosa che faccio da dieci anni è la doccia ghiacciata alla mattina, e da dieci anni non mi ammalo. Prima erano sempre influenze e raffreddori, d’inverno e d’estate.

Da chi l’hai imparata questa autosevizia?
L’ho imparata in Finlandia. Quando ho visto gente di 70 anni alzarsi alla mattina e camminare a piedi nudi nella neve e dirmi che non prendevano un raffreddore da mezza vita, ho deciso di allenare il mio corpo a sopportare il freddo. Si tratta di semplice crioterapia, con me funziona, provala e dimmi se ti svolta.

Non scherziamo. Che altro fai?
Ho ricominciato con la kick boxing, la muay thai e il parkour. La mia preferita è la muay thai, la vorrei praticare più spesso ma dovrei prima togliermi tutti i piercing dalla faccia.

 

 
 
 
 
 
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Roba tosta, ma nell’ultimo disco hai tirato fuori anche dei pezzi molto intimi, come Abissi e Ti direi. Come sono stati accolti e avresti mai pensato di arrivare a un tale livello di condivisione?
Sono pezzi molto amati dal mio pubblico. Sono sempre disarmato dalla gentilezza e dall’educazione che hanno le persone che mi ascoltano. Non solo: ho trovato anche tanti ragazzi che mi hanno insegnato qualcosa, con le loro esperienza di vita, con i loro sogni. Per quanto riguarda la seconda domanda, io sono sempre stato molto aperto su quelle che sono le mie debolezze, infatti tornando al discorso di prima sulle frasi che avrei preferito non scrivere: è vero, ma di base la persona più insultata nei miei pezzi alla fine sono proprio io. Se ci vado pesante col mondo è perché ci vado pesante con me stesso. E a chi mi chiede se non mi dà fastidio che la gente sappia i cazzi miei, rispondo che tanto li saprebbero lo stesso, per altre vie, e allora tanto vale che sui miei problemi ci faccia un bel pezzo. E poi sigillarli in una canzone mi permette di lasciarmeli alle spalle.

Posto che vale la regola del “non possiamo spoilerare i guest del tour”, posso sapere se ci sarà Sally Cruz, la voce che ti accompagna in Paranoia? E soprattutto: come l’hai scoperta?
Sally ci sarà. Me l’ha fatta scoprire Slait, che mi ha messo in contatto con Mike (Defunto), il suo produttore, e mentre eravamo in studio è partita una sua traccia ed è stato subito: ma chi è questa ragazza? Io sono molto innamorato delle voci e le voci sporche mi piacciono di più di quelle pulite. Quando si sente una leggera sofferenza, un grattato de timbro, a me apre il cuore. Se Madame ha una voce da film noir francese, Sally è viscerale, è un film a tinte forti di Carpenter. Sally è Tarantino. Per me è un figata vedere una ragazza che nel 2003 riesce a muoversi con naturalezza e con consapevolezza di sé in un ambiente che, inutile negarlo, è ancora intriso di frasi e locuzioni di stampo sessista, inutile girarci intorno. Così è. Ma il rap parla delle realtà e finché la realtà sarà questa, esisterà un linguaggio che la rispecchia. Il punto è che dobbiamo chiederci che cosa vogliamo tramandare ai ragazzi. E questa è anche responsabilità degli artisti: basta con questa frase fatta del «non dobbiamo essere noi a dover dare l’esempio». No, ma non dobbiamo nemmeno fare di tutto per essere il peggiore esempio possibile.

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