Nino D’Angelo: «Sono un miracolo del popolo di Napoli» | Rolling Stone Italia
«Alla fine ce l’ha fatta»

Nino D’Angelo: «Sono un miracolo del popolo di Napoli»

Il documentario presentato a Venezia ‘18 giorni’ diretto dal figlio Toni, i pregiudizi di inizio carriera, il padre che è «uno degli inventori del merchandising», la fuga da Napoli dopo un’estorsione, la coerenza e i cambiamenti. L’intervista

Nino D’Angelo: «Sono un miracolo del popolo di Napoli»

Nino D’Angelo

Foto press

Si intitola Nino: 18 giorni il documentario presentato alla Mostra di Venezia. Il titolo indica il tempo che ci ha messo Nino D’Angelo prima di vedere il primogenito appena nato. Dopo 45 anni proprio il figlio Toni D’Angelo ha diretto il film presentato fuori concorso in laguna. Un lavoro nato dall’esigenza «di raccontare anche me stesso», dice il regista. «È un film che parla anche di me, della mia vita, della mia crescita, di cosa significa essere figlio di un personaggio così famoso».

Già, perché vivere all’ombra di un artista simbolo per i napoletani è tutt’altro che una passeggiata: «La vivi male. Per fortuna, sono figlio di una persona per bene, ho imparato a stimarlo col tempo. Però mi ci sono allontanato forzatamente: vivere a Napoli essendo il figlio di Nino D’Angelo era impossibile. Il trasferimento obbligato a Roma, per mio padre è stata un’enorme sofferenza. Per me è stata il plot twist, svolta drammaturgica». L’allontanamento dalla figura paterna si è tradotta anche a livello musicale, con la passione per l’heavy metal. Ma poi, «quando sono cresciuto, ho iniziato il Dams a Bologna e ho iniziato a rivalutare mio padre: le persone intorno a me, il mondo intellettuale universitario, lo considerava un mito. Non ho mai detto loro chi ero, ho vissuto periodi della mia vita in incognito». Ma ora D’Angelo junior è uscito dall’anonimato e proprio grazie a questo lavoro è nata tra genitore e figlio «una consapevolezza comune di aver superato qualcosa». Per lui il momento più emozionante del documentario è quando Nino torna a San Pietro a Patierno, dove è considerato «una specie di santo. La conferma che ha fatto qualcosa di incredibile: riuscire a diventare qualcuno, pure se era nato per non essere nessuno».

Il progetto è stata anche l’occasione di cui Toni si è servito per una sorta di autoanalisi: «La sera in cui mio padre ha vinto il David di Donatello per la colonna sonora di Tano da morire, il giorno prima del mio esame di maturità, ho avuto un attacco di panico, mi sembrava di morire, non controllavo il corpo. Mio padre non lo sapeva, gliel’ho raccontato durante il montaggio del film. Questo doc è stato un po’ il pretesto per autoanalizzarmi».

Negli anni ’80 dicevano che a Napoli c’erano tre cose belle: Nino D’Angelo, Maradona e le sfogliatelle. Per Toni è ancora così e vorrebbe che il padre pubblicasse anche le sue poesie perché «scrive cose meravigliose». Dopo aver parlato con il figlio, arriva il momento di approfondire le immagini del lungometraggio con il protagonista: Nino D’Angelo.

Nino, nel film si parla dei 18 giorni che hanno un po’ segnato la vita tua e di tuo figlio Tony. Che cosa provi oggi a rivivere quel distacco iniziale?
In verità all’epoca non mi sono mai accorto che una cosa così potesse rimanere dentro mio figlio per tutta la vita.

Ma perché ci hai messo 18 giorni per vederlo?
Sono rimasto a Palermo perché facevo successo. Era il primo successo, per me. Facevo le sceneggiate e l’attore della sceneggiata non può abbandonare la compagnia: è insostituibile. Ero il primo attore, dovevo rimanere per forza.

Addirittura.
Il teatro di sceneggiata è un teatro povero, se me ne fossi andato gli altri non avrebbero mangiato.

Col figlio. Foto press

Guardando indietro, negli anni ’80, che cosa pensi del caschetto biondo che ti ha reso un’icona popolare?
Che cosa penso?

Eh.
Penso sia stata una delle ingiustizie italiane.

Vale a dire?
Quel caschetto biondo faceva successo, però non gli veniva riconosciuto niente. Il pregiudizio era troppo forte nei confronti di uno che faceva tutto da solo, che si faceva i dischi e se li vendeva pure nei negozi. Io sono figlio della radio libera di quel momento, le radio stavano nei palazzi.

E poi?
Tolto il caschetto sono cambiato pure io, dalle critiche ho imparato, il pregiudizio mi ha aiutato a cercare di fare meglio, uscire fuori da quell’icona della canzone commerciale. Ma ero un ragazzo e a 20 anni volevo cantare l’amore.

Cambiare è stato difficile?
Più facile: cresci, capisci di più i problemi della gente, i tuoi problemi, e fai canzoni “impegnate”.

A proposito di gente, le persone non ti hanno mai abbandonato nonostante il passare degli anni. Ti sei mai chiesto perché?
Perché quando sei amato dal popolo sei una sua vittoria.

Mi spieghi meglio?
Il popolo non vince mai, diciamo la verità, però quando si unisce fa dei miracoli. Io sono un miracolo del popolo di Napoli, soprattutto agli inizi. Sono un miracolo molto meridionale, il mio zoccolo duro è il Sud.

E il Nord?
C’è un settentrione che è diventato sempre più Sud, negli anni. Per cui Milano sta a Nord, ma è piena di Sud. Torino è piena di Sud. Per cui penso che il popolo non ti abbandona mai. Sono stato sempre coerente musicalmente in quello che ho fatto, ho raccontato di me, le storie della gente. Le persone mi vedono come uno di loro che ce l’ha fatta.

C’è una canzone del periodo anni ’80 che oggi non senti più vicina al tuo modo di essere?
Gli anni ’80 mi hanno dato tutto. Tradirei me stesso. Io penso solamente che gli anni ’80 appartengano agli anni ’80. Quello che faccio oggi appartiene a oggi.

Ah.
Negli anni ’80 era giusto fossi così. Quello sapevo e volevo fare. Oggi non potrei scrivere Nu jeans e ’na maglietta. Non ho più l’età per cantarla. Sono cambiati i tempi, no?

Ci può stare. Però ammetterai che, ancora oggi, le sonorità sono modernissime.
Penso di essere stato uno dei primi a mettere l’elettronica nei dischi in quegli anni. Oggi sono diventato di tendenza tra i musicisti che vanno a sentire gli arrangiamenti che facevo. Hanno notato che stavo “avanti”.

Come hai vissuto il saluto agli anni ’80 durante il concerto che hai tenuto lo scroso 29 giugno allo Stadio Maradona di Napoli?
Quello è un regalo che mi sono fatto e ho fatto alla gente. Quando ho avuto l’occasione del San Paolo (l’ex nome del Maradona, nda), il vero evento è stato fare proprio gli anni ’80.

Motivo?
Tutti i giovani si sono avvicinati a quella musica, sono i figli di quelli che venivano ai miei concerti quando ero giovane, forse addirittura i nipoti. Oggi a un mio live, soprattutto l’ultimo che sto facendo, è pieno di ragazzi. Mi meraviglio di me stesso, sembrano tutti figli miei.

“Re di Napoli”. Da ’18 giorni’. Foto press

Le tue radici, quelle a San Pietro a Patierno e a Casoria, quanto hanno influenzato la tua musica, il tuo modo di raccontarti?
Moltissimo, soprattutto nei testi delle canzoni. Poi c’era l’amore che avevo per la canzone napoletana. Diciamo che ho scritto sempre in napoletano, quella è proprio la mia lingua. Io come mi so esprimere in napoletano, non mi so esprimere in italiano: ho studiato poco, a casa mia si parlava solo in napoletano. Sai, io sono nato in un vico. San Pietro a Patierno è un vico di Napoli, uno dei quartieri più poveri della città.

Quando sei tornato lì, per il documentario, che effetto ti ha fatto?
Sono tornato prima del documentario, quando Jorit mi ha fatto i murales.

Ah sì, come no: ricordo che eri su una macchina e la gente ti osannava.
Allora ho capito di essere un uomo fortunato. Perché non è cambiato niente da quando ero bambino, ragazzino, a oggi. Quella gente è rimasta sempre sola, abbandonata. Mi ha colpito la disperazione negli occhi di quei ragazzi dentro i quali vedevo i miei occhi ragazzini. Sarei potuto essere come loro, avrei potuto soffrire come soffrono questi ragazzi. Invece il Signore mi ha preso e mi ha salvato. Loro mi hanno preso e mi hanno salvato. Perché alla fine il mio pubblico, lo zoccolo duro, viene dal poco, diciamo la verità.

Ma come hai trovato la forza per uscire da quella situazione di povertà?
La forza l’ho trovata nella passione. Forse c’è pure il talento. Quando c’è un talento e c’è la passione, tutti hanno una possibilità secondo me. Io ero un malato della canzone napoletana, mi piaceva proprio. Volevo fare questo, andavo a fare tutto: festival dei quartieri, gare di canzoni. Mio padre non voleva, sperava di ricevere un aiuto da me. Ero il primo figlio e voleva lo aiutassi a portare avanti la famiglia fatta di sei figli. Per cui avevo, diciamo, un nemico in casa.

E la mamma?
A lei piaceva che diventassi cantante, solo che non aveva la possibilità di aiutarmi: la situazione era difficile. Poi, visto che mi piaceva cantare in classe, grazie alla scuola mi hanno portato in un’associazione di cantori, ho fatto tutto a piccoli passi. Io nasco da una colletta familiare, di zii, parenti, mio suocero. Praticamente abbiamo fatto un disco in famiglia. E io andavo a venderlo nei negozi dicendo di essere il fratello dell’artista. La mia è una bellissima storia, piena di cambiamenti.

Comunque poi papà ha ceduto.
Papà è stato il mio primo falsario, penso sia stato uno degli inventori del merchandising, sai?

Spiegami meglio.
Lui vedeva una fonte di guadagno, voleva mangiare, non capiva che quella cosa poteva danneggiare il figlio, capito?

Fammi un esempio.
Un giorno, a casa, io stavo dormendo, dopo una nottata per le feste di piazza. Mio padre mi dice: «Ti devo fare una fotografia prima che partiamo per Palermo». Stavo in pigiama, avevo dubbi, ma lui mi fa: «Non ti preoccupare, tanto è per i malati, non fa niente».

E poi?
Il giorno dopo sono andato a Palermo e ho visto la foto che mi aveva scattato in mano ai fan che volevano la firmassi. Ho chiesto dove avessero preso quella foto e mi hanno risposto: «L’abbiamo comprata qua fuori». Mio padre aveva fatto finta che gli scatti fossero per i malati e se li è venduti. Io l’ho chiamato e gli ho domandato: «Scusa papà, ma non hai detto che le foto erano per i malati?».

Risposta?
«Perché questi che cosa sono? Sono malati di Nino D’Angelo, ma sempre malati sono».

Era un genio tuo padre.
Era un genio, ma era buono, papà era una brava persona, un uomo meraviglioso e quando faceva queste cose le faceva solo per sopravvivere.

Nel doc c’è una parte molto commovente legata a tua mamma e al fatto che speri ancora di vederla affacciata alla finestra.
Non sono riuscito a comprare la casa della mia infanzia perché stavo incazzato con la vita che si era portata via mia madre. Poi qualche anno dopo, per ritornare nel palazzo dove ho vissuto per tanti anni, ho comprato questo appartamento al quarto piano: la sera mi affaccio ogni tanto, ma lei non si affaccia mai. Spero sempre che esca.

Hai fatto pace con questa incazzatura con la vita che ti ha portato pure alla depressione?
Sì, ci ho fatto pace, c’è gente che ha dolori anche più grandi. Ci ho sofferto molto, però. La depressione è un brutto male e quando se ne parla bisogna stare attenti, si deve curare. Io l’ho curata, sono stato in mano a psicologi, non ci deve essere vergogna di questo. La cosa più brutta è quando dicono «’sta depressione non è niente, è un po’ di esaurimento».

Maradona, il Che e Nino D’Angelo. Foto press

In Nino. 18 giorni esce una parte molto intima di te, hai avuto difficoltà a farla uscire, a lasciarti andare davanti alla telecamera, visto che dietro la telecamera c’era tuo figlio?
Guarda, io devo dire una cosa. Con questo documentario ho conosciuto meglio mio figlio, non sapevo di avergli fatto tanto male senza volerlo.

Cioè?
Lui voleva essere Toni e basta. Quando sei figlio di un personaggio famoso stai sempre in secondo piano, non ci avevo mai riflettuto su questo, non avevo mai pensato che mio figlio da ragazzino fosse stato così male. Il documentario mi ha lasciato questa consapevolezza e sono diventato ancora più amico di mio figlio.

Sei uno di quei genitori che vuole essere amico dei figli?
Un padre è un padre, è molto più forte dell’amico, un padre è una responsabilità, è una figura enorme. Forse ultimamente è diventata piccola perché tanti non l’hanno saputo fare, il padre.

E tu?
Io invece ho avuto un grande padre e spero di essere stato un buon padre per Toni e Vincenzo, l’altro figlio.

Come si diventa un buon padre?
Tutto quello che ho fatto nella mia vita mia, l’ho fatto per la famiglia, mia moglie, i miei figli. Ho cercato di non fare loro mancare mai niente, né come Nino D’Angelo né come Gaetano (suo vero nome, ndr), che andava a cantare per pochi soldi e li portava a casa. Per me la famiglia è un punto cardine.

Ma questo documentario ti è piaciuto o no?
Sì. Ho conosciuto mio figlio ancora di più attraverso questo lavoro. Ho parlato con lui, ma era come se avessi parlato pure con un’altra persona. Mi sono aperto, ho messo la mia vita nelle sue mani. Perché la mia vita, in effetti, è di mio figlio. Mio figlio appartiene a me e io appartengo a lui. E avevo paura per lui. È stato molto bravo, non ha avuto paura di documentare suo padre, ci ha pensato bene. Sono proprio fiero di lui come artista. Se non fosse stato mio figlio, avrei detto ugualmente che era bravo.

Il film tira fuori il tema dell’abbandono di Napoli. Una ferita per te, ma una rinascita per tuo figlio.
Lui a Napoli era il figlio di Nino D’Angelo. A Roma nessuno sapeva chi fosse. Per cui lui si era un po’ liberato di questa cosa. Io sono andato via dalla mia città perché ho subito un’estorsione. Non ci potevo pensare, credevo di essere amato da tutta Napoli. Invece c’era una frangia di persone che non mi amava, evidentemente. Volevano dei soldi, hanno sparato due volte a casa.

Cos’hai provato?
Un po’ la paura, un po’ anche il disgusto. Un po’ tutto, diciamo. Siamo andati via. Ma ho comprato la casa a Casoria. Anche se vivo a Roma, vado spessissimo a Napoli. Poi, soprattutto all’inizio, inventavo sempre qualcosa per tornare a Napoli. Io Napoli l’amo troppo, sta nelle mie vene. Napoli è la mia città. Napoli è tutto quello che tengo. Le mie origini, la mia lingua. Napoli è il mio tutto.

Com’è adesso Napoli?
Napoli è cambiata. La Napoli che ho vissuto io negli anni ’80 era frutto di un momento terribile. C’erano le guerre di camorra, era più difficile, c’era più paura.

NINO. 18 GIORNI - Teaser | al cinema dal 20 novembre!

Cosa rappresenta per te questo documentario?
Il premio più bello perché l’ha fatto mio figlio. Non esiste una cosa più bella che vedere un figlio felice. Questo è un grande premio che auguro a tutti i miei colleghi. Essere raccontato da un figlio è un privilegio. E io ho avuto questo privilegio.

Senti, Nino, ma il muro di pregiudizio intorno a te quando è crollato?
Negli anni ’90, dopo che Goffredo Fofi, questo grande critico purtroppo morto pochi giorni fa, lo buttò giù. La gente venne a vedere sotto quel caschetto che cosa c’era veramente, senza pregiudizi e con l’animo pulito.

Cosa vide sotto quel caschetto?
Una brava persona che racconta buoni sentimenti. In un mondo così cattivo come quello di oggi, tutto sbandato, che non va da nessuna parte, penso che essere dolci non fa male a nessuno.

Il popolo ti ama, unisci Nord e Sud, le generazioni dai più giovani ai più anziani… quando entri in politica?
Mai.

Categorico.
La politica lasciamola stare, facciamo entrare gli altri in politica. Io voglio fare il cantante, voglio continuare a dire delle cose attraverso le mie canzoni. Non so se i miei pezzi sono di destra o di sinistra. Però alla fine la politica non la devono fare neanche quelli che la fanno adesso, questi qua. Questa politica non mi piace. Infatti vedi quanta gente non va a votare? Io voglio fare il cantante, continuare la mia carriera, finché ho una voce e finché la gente mi chiama.

Tra i cantanti della nuova generazione con chi ti piacerebbe lavorare?
Il mio mito assoluto è Peter Gabriel.

Ok, ma non lo metterei tra quelli di nuova generazione.
E allora ti dico Mengoni, cazzo, mi piace assai Marco. E poi questo ragazzo nuovo, Olly: mi arriva.

A Sanremo ci torneresti?
Lasciamolo fare ai giovani adesso. Mi piacerebbe tornarci, magari come ospite, per cantare una pezzo in napoletano. In gara no.

Se Nino parlasse con Gaetano, che cosa gli direbbe?
A Gaetano direi che è stato troppo forte. Alla fine ce l’ha fatta. Ha insegnato a tanti ragazzi che non bisogna mollare mai. Gaetano è il più forte di tutti, anche di Nino D’Angelo.

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