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Nils Lofgren: «Con la scaletta fissa raggiungi un altro livello di profondità»

L’intervista: l’album ‘Mountains’, le differenze fra i tour con Neil Young e con Bruce Springsteen, le serate pazze col primo e la decisione del secondo di cambiare poco la setlist che «genera un’intesa migliore»

Foto: Mat Hayward/Getty Images

Nils Lofgren s’è sentito perduto a inizio pandemia. Dopo essere stato ininterrottamente on the road fin dagli anni ’60, prima coi suoi Grin e poi da solista, per non dire di quand’era in giro con Bruce Springsteen, con Ringo Starr e Neil Young, si è sentito spiazzato. Lo racconta via Zoom da una camera d’albergo di Vienna, il giorno dopo uno show di Springsteen e la E Street Band all’Ernst Happel Stadium. «Ero in giro da 55 anni. Certo, mi è piaciuto stare a casa con Amy (la moglie, ndr) e i cani. Nostro figlio Dylan veniva a trovarci con i suoi cani. Andava bene, ma non ero mai stato fermo per tre anni. E questa situazione ha pesato molto più di quanto credessi».

Per reagire, ha passato molto tempo nello studio allestito nel suo garage, ascoltando dischi blues di B. B. King, Albert King, Muddy Waters e Howlin’ Wolf. «Dopo un po’ mi sono detto che dovevo fare qualcosa a livello professionale. Ma dato che non era sicuro andare in giro per concerti, ho scritto un disco».

Si intitola Mountains ed è stato inciso in gran parte nel suo studio di Phoenix, Arizona. Vede la partecipazione di Neil Young, di Ringo Starr, dell’ex corista della E Street Band Cindy Mizelle, del Phoenix Children’s Chorus e dell’Howard Gospel Choir. Lofgren suona buona parte degli strumenti affiancato dai bassisti Kevin McCormick e Ron Carter, dai batteristi Andy Newmark e Tim Biery, dal percussionista Luis Conte e dall’arpista Christine Vivona.

Raccontami di com’è nato Mountains a casa tua.
Ho 72 anni. Per via del Covid e dei miei problemi di salute ero ben conscio del fatto che avrei dovuto lavorare a casa. Così Jamison Weddle, il grandissimo ingegnere del suono che lavora con me da oltre 20 anni, ed è anche un amico, veniva da me per session che potevano durare dalle tre alle sei ore, quattro o cinque giorni alla settimana. Ci sottoponevamo regolarmente a tampone e indossavamo la mascherina, che levavo solo quando dovevo cantare. Ho contratto il Covid mentre volavo verso casa, dopo aver finito World Record con Neil Young. L’ho portato a casa, ma Amy grazie a Dio non l’ha preso. Abbiamo fatto il disco rispettando l’isolamento, grazie alle meraviglie della tecnologia. Il materiale l’ho messo assieme con Jamison nello studio che ho allestito in garage.

Quando l’avete fatto?
L’anno scorso. Voelvo finirlo prima della fine dell’anno e ho accelerato quando Bruce ha detto che nel 2023 saremmo andati in tour. L’ho titolato Mountains perché mi sembrava di sperimentare dei flashback da sindrome post-traumatica da stress legati agli anni ’60: la crisi dei missili di Cuba, l’arruolamento coatto per la guerra in Vietnam, gli assassinii. Ai tempi coi Grin suonavamo alle grandi manifestazioni in centro città. Mi sembrava proprio di avere dei flashback. È stato catartico fare un disco senza starci troppo a pensare su, con l’urgenza di condividerlo. Dovevo spingere al massimo per finirlo prima che cominciassero le prove per il tour, a gennaio.

Come hai convinto Neil Young a cantare in Nothin’s Easy?
Erano anni che aspettavo di avere il pezzo giusto per far cantare le armonie vocali a Neil Young. Mica poteva essere una canzone qualsiasi. Quando gliel’ho mandata non ci contavo granché, ma lui mi ha richiamato e ha detto: «È bella amico, ci canterò». Ho avuto la fortuna di riunire accidentalmente un cast di ospiti che hanno reso il disco migliore.

Parliamo di Only Ticket Out. Il testo parla chiaramente di un percorso che va dall’alcolismo e la tossicodipendenza fino agli Alcolisti Anonimi.
Be’, io sono pulito e sobrio da 35 anni. Nella canzone non cito gli Alcolisti Anonimi solo perché, quando ci si va, si suppone che si debba rimanere anonimi. Ma il brano racconta la storia, in gran parte autobiografica, di una persona stretta nella morsa dell’alcolismo e della dipendenza. Ne parlo col mio senso dell’umorismo, cercandoi però di aiutare gli altri. È una canzone dura e onesta. E, visto il tema, ho pensato che avrebbe dovuto avere un piglio un po’ heavy metal, chitarroso, con suoni più duri e rumorosi.

Fai una cover di Back in Your Arms di Springsteen. Perché proprio questa, fra tutte le canzoni del suo repertorio?
Negli ultimi 20 anni l’ho suonata a periodi alterni con Bruce. Quando l’ho sentita in Tracks mi è subito piaciuta, è una bellissima ballata. Dal vivo, Bruce la rallentava molto e parlava per cinque minuti prima di iniziare a cantare. Mi piaceva molto. In un paio di occasioni, durante dei soundcheck, ha anche detto: «Ma perché nessuno l’ha mai rifatta?». Io avevo provato a inciderla quando ho fatto Blue With Lou, ma poi ho capito che mi serviva un coro. Allora ho chiamato l’Howard Gospel Choir. Mia moglie Amy, che non gravita nel mondo della musica, mi ha consigliato di aggiungere anche Cindy Mizelle. L’ho fatto e le ho lasciato la massima libertà. Sono molto orgoglioso del risultato.

Won’t Cry No More è dedicata a Charlie Watts.
Un paio di anni fa gli Stones erano in tournée e stavano benissimo. Li guardavo di continuo su YouTube. Quando Charlie è morto ho provato rabbia e tristezza. Mi sono messo ad ascoltare un sacco di musica degli Stones concentrandomi sulla batteria: cercavo di entrare in contatto con lo spirito di Charlie per superare quello stato di rabbia, angoscia, tristezza e incazzatura. Una mattina, al sorgere del sole, ero col mio cane Rose sul divano e mi è venuto in mente questo riff blues. Ho iniziato a cantare di Charlie e le cose sono andate avanti. Sentivo una rabbia tipo: «Sono così indignato dal fatto che se ne sia andato che non piangerò più». Ma alla fine della canzone piangevo, eccome. È stato un modo per elaborare qualcosa in mancanza di altri strumenti per farlo. Anche se ho perso molti amici e familiari, questa perdita mi ha sconvolto. Ho usato la canzone per superarla.

C’è David Crosby che canta, nel brano.
Con David eravamo amici da 55 anni, l’ho conosciuto tramite Neil. David e Amy poi sono diventati molto amici perché erano molto attivi su Twitter e molto arguti: si battevano per ciò che è giusto e davano addosso alle persone quando era il caso di farlo. David mi ha detto che voleva cantare nel mio disco. Gli ho risposto: «Mi piacerebbe molto, David. Fammi solo capire qual è il pezzo giusto per te». Appena ho iniziato a scrivere quella canzone e ho avuto un’idea per il ritornello, mi sono detto che era giusta per lui. E David ha cantato meravigliosamente.

È incredibile: questo, probabilmente, è l’ultimo disco di canzoni inedite in cui saranno presenti sia Neil Young che David Crosby.
Non ci avevo pensato, ma quando Neil mi ha detto di sì mi sono detto: «Oh, che bello. Saranno entrambi sul disco». Non avevo messo a fuoco bene, ma hai ragione. È una cosa grossa.

Con la E Street Band non facevate concerti dall’inizio del 2017. Ci è voluto del tempo per scrollarsi di dosso la ruggine e per affiatarsi coi nuovi membri?
Sono partito da casa il 6 gennaio. Ero rimasto in contatto con la maggior parte degli altri della band e avevo parlato con Bruce. Quando mi ha raccontato di Only the Strong Survive, con tutti quei grandi successi soul, ho pensato: «Oh caspita, probabilmente ci saranno alcuni dei miei vecchi compari ai fiati, come Ed Manion, Barry Danielian, Curt Ramm». E infatti c’erano tutti. È stato grande scoprire che saremmo andati in tour con un piccolo coro e una sezione di fiati. In quanto cantante, è tutto più divertente se hai queste voci grandiose che per tutta la serata ti sostengono. Le prove sono state un po’… non direi difficili, ma dovevamo acquisire sicurezza. Di solito ci vogliono circa 10 o 15 show per arrivare al top, ma quando siamo partiti eravamo già fortissimi, questa cosa mi ha colpito.

E dopo appena quattro concerti è arrivato il Covid, con i membri della band che hanno iniziato a mancare gli spettacoli.
Io sono stato super attento. Amy mi ha iscritto ai servizi Instacart e DoorDash (piattaforme online per la consegna di cibo a domicilio, nde) e non ho nemmeno mai chiesto il servizio in camera negli alberghi. Eppure, anche prendendo tutte queste precauzioni, è successo ugualmente. Sono rimasto scioccato quando ho saputo che Steve avrebbe perso una serata. Ma io copro Steve e lui copre me per le parti più semplici e per quelle che ci devono essere per forza. Questa cosa ci ha colti tutti di sorpresa. Ma Ed, che è un grande sassofonista, è stato in grado di coprire Jake: si è messo lì e ha suonato le parti che prima erano di Clarence. Steve è anche un cantante fortissimo, ma avevamo Curtis e tutti gli altri cantanti. Ci siamo coperti le spalle a vicenda.

Quello a Dallas è stato il primo show della E Street Band, dal 1988, con solo te e Bruce alla chitarra. Avete fatto cose come l’assolo di The Promised Land che non suonavate da allora, visto che ormai se ne occupa Steve.
È stato naturale. Prima degli show pensavo: «Ci sono delle parti che devo assolutamente ricordarmi di fare». Ma poi quando sei sul palco ti dici: «Oh merda, adesso c’è una parte che di solito fa Steven. Sarà meglio che mi inventi qualcosa». E ti viene in mente come farla, perché siamo una macchina ben oliata, siamo abituati a sentirci per ore e ore e ore quando siamo in tour. Quindi tutti si sono fatti avanti e si sono coperti le spalle, così da portare a termine il lavoro. È stata un’esperienza unica.

Poi hai preso anche tu il Covid e hai dovuto saltare lo show successivo, a Houston. Immagino che sia stato strano, per te, non essere sul palco. Non avevi mai perso un concerto.
Mai. Ed ero pure arrabbiato perché portavo sempre la mascherina. Ero davvero incazzato. Ero in albergo e guardavo il tetto del Toyota Center: la band era là dentro e io ero seduto in quella maledetta stanza. Perdere quello show mi ha scombussolato. Ma sono un adulto, in situazioni del genere non resta che ragionare, prendere le medicine e guarire il prima possibile.

Questo tour è diverso dagli ultimi, visto che la scaletta è in gran parte fissa. Avete potuto perfezionarla e cogliere ogni piccola sfumatura dei brani.
Cambiamo qualche canzone qua e là, ed è bellissimo. Ma quando fai sempre gli stessi pezzi in concerto raggiungi un livello di profondità notevole, soprattutto perché inizi a sentire molti dettagli di ciò che fanno gli altri. E inevitabilmente questa familiarità genera un’interazione molto più stretta, un altro livello di intesa musicale. Se ogni sera vai a braccio e nemmeno il tuo cantante sa quale sarà il prossimo pezzo, ti puoi scordare quella profondità. Facciamo è tutta roba buona. Abbiamo, e Dio solo lo sa, probabilmente il repertorio più esteso di qualunque altra band al mondo. E quando Bruce sarà pronto a farlo, chiamerà altre canzoni, cosa che peraltro è già successa. Sono pronto a seguirlo in ogni suo progetto. La band e il pubblico sono probabilmente i migliori che abbia mai visto. E di questo sono molto grato.

Speri di fare più concerti l’anno prossimo?
Ho imparato molto tempo fa a impegnarmi al massimo in qualsiasi band io sia e qualunque ruolo io ricopra. Avevamo in programma un paio di tour con Neil e i Crazy Horse che mi entusiasmavano molto, soprattutto dopo World Record. Prima della pandemia il management di Bruce mi ha chiamato dicendomi: «Quest’anno non ci sono concerti. Sei libero di fare quello che vuoi. L’anno prossimo però abbiamo intenzione di partire e suonare tutto l’anno». Nella stessa settimana Elliot [Roberts], che Dio l’abbia in gloria, mi ha chiamato dicendomi: «Senti, tra sette settimane Neil vuole iniziare un tour e stare in giro tutto l’anno». Io ho pensato: «Stai scherzando?». Ero come un bambino in un negozio di caramelle: nessun conflitto fra i diversoi impegni, potevo andare in giro con i Crazy Horse tutto l’anno, senza sovrapposizioni, poi tornare a casa per un po’ di vacanza e poi per tutto l’anno successivo girare con la E Street Band. Ero entusiasta, elettrizzato. Invece nel giro di tre settimane tutto si è bloccato, tutti i piani sono saltati. Ma così va la vita.

Frank Gironda (il manager di Neil Young, ndr) è un caro amico che ho conosciuto tramite Elliot Roberts, tanti anni fa. E naturalmente io e Jon Landau ci conosciamo da tempo: scriveva articoli sui miei dischi prima mettersi a lavorare con Bruce. Con loro scherzo sempre così, dicendo: «Guardate che sommando gli anni in cui sono stato in queste due band arrivo a 90 anni di carriera… 90 anni! Ho fatto un buon lavoro. Allora non potete lasciarmi decidere il programma dei tour per un anno o due? Me lo sono guadagnato, no?». Loro ridono e mi dicono: «Sparisci, vattene!». Ma va bene tutto, qualsiasi cosa accada. Neil ora è in giro a suonare da solo e sembra che si stia divertendo un mondo. Quelli come lui, una volta che si trovano davanti a un pubblico, da soli o con la band, un duo o in qualunque altra formazione, sono immancabilmente eccezionali.

Il suo live al Rainbow del 1973, in cui tu hai suonato, è pazzesco.
Frank, qualche mese fa, mi ha chiamato proprio per questo. Mi ha detto: «Senti, abbiamo trovato un tizio che aveva un buon registratore al Rainbow Theater, nel 1973. Pubblicheremo l’intero show». Wow. Mi ha mandato i pezzi e li ho ascoltati quattro volte di fila. È stato davvero emozionante, toccante. Perché non c’era una telecamera che riprendeva tutto? È stato un tour memorabile. Avevamo una scaletta pazzesca e Neil indossava degli stivali glitterati con zeppe da 40 centimetri. Pestava sul pianoforte, facendo delle canzoni che nessuno aveva mai sentito. Neil parlava, dava di matto. Suonavamo questa musica folle e la gente ci bersagliava con le bottiglie, ci urlava contro. Volevano ascoltare le hit.
Una sera, dopo aver fatto quello che pensavamo fosse un concerto bellissimo, siamo saliti sul bus. Elliot ha preso Neil è l’ha portato in fondo: «Sei fuori di testa. Stai perdendo 10 mila dollari a settimana. Alla prossima tappa, scendiamo dal bus, chiamo una limousine, andiamo a Heathrow e torniamo a casa in aereo. Con Crosby, Stills, Nash & Young, guadagneremo dei milioni nel giro di poche settimane». Ma Neil gli ha risposto: «No, mi sto divertendo, Elliot». Quel tour è stato all’insegna della tequila Cuervo Gold e dell’erba thailandese che eravamo riusciti a portarci dietro di nascosto. Comunque [il produttore] David Briggs è poi andato in fondo al bus e ha detto: «Elliot, lascia stare Neil. Smetti di infastidirlo. Questa è arte. È bellissimo. Non ti rendi conto di quello che stanno facendo? Di quanto è speciale?». E io ho pensato: «Sì, Elliot, ma perché non hai chiamato una troupe? È quello che avresti dovuto fare: ingaggiare una troupe e filmare il tour».

Neil pochi giorni fa ha annunciato che si esibirà al Roxy di Los Angeles il 20 settembre, che è il giorno esatto del 50° anniversario della famosa serata di apertura del club, in cui avete suonato voi.
Sì e sono davvero dispiaciutissimo. Neil mi ha chiamato e mi ha detto: «Ehi, è l’anniversario: puoi venire a suonare?». E io: «È tra due concerti della E Street Band e non ce la faccio a viaggiare nello stesso giorno in cui ho uno show. Però nel weekend vado a casa a trovare Amy e sono libero: che ne dici se vengo sabato sera?». Speravo davvero si potesse fare con i Crazy Horse al completo, ma al sabato Neil suona da solo al Farm Aid. E questo ha mandato all’aria il mio piano.

Ma il 20 hai la serata libera, tra il concerto di Albany e quello di Columbus.
Sì ma dovrei volare in California, il che significa che il giorno seguente avrei già perso tre ore per via del fuso orario. E poi dovrei viaggiare nello stesso giorno in cui ho uno show. Se sei Nils Lofgren non puoi viaggiare lo stesso giorno di un concerto e restare sano di mente. Forse ci può riuscire qualche pazzoide che beve e fuma, ma non io, amico. Io devo arrivare la sera prima. Non mi metto in viaggio nei giorni i cui ho uno show, punto. A meno che io non sia con Bruce e la band. Se questo è il loro programma, amen. Non lascio il tour.

Pensi che Neil finirà per suonare quel concerto da solista, in acustico? O magari solo con Billy e Ralph?
Può fare tutto ciò che vuole. È questo il punto: uno come Neil con quelle canzoni… ha deciso di girare da solo e sta andando alla grande. Ma anche se vorrà fare qualcosa in power trio con Ralph e Billy sarà fantastico.

Penso che la E Street Band e i Crazy Horse siano due delle band più grandi nella storia del rock. È pazzesco che tu faccia parte di entrambe contemporaneamente, anche se ogni tanto si presentano problemi come questo.
È strano ed è bellissimo. I Crazy Horse sono una delle famiglie musicali più vecchie di cui faccio parte, e li ho molto a cuore. Mi manca ancora moltissimo David Briggs. Ma quando Bruce avrà deciso di chiudere con le date, spero che Neil porti in tour i Crazy Horse e di poterci essere. Sono un musicista, vivo di sogni.

Sono due entità con modi diversissimi di operare. Bruce pianifica le cose con largo anticipo. Neil, invece, si butta d’istinto.
In un certo senso, sì. Ma d’altro canto abbiamo anche visto Bruce prendere dei cartelli coi suggerimenti del pubblico e buttarli sul palco: a quel punto c’è chi, in pochi secondi, deve andare su Internet e caricare nel suo gobbo i testi dei pezzi richiesti. E noi ci troviamo a dover inventare su due piedi un arrangiamento per una canzone che non abbiamo mai suonato, oppure che non facciamo da 18 anni. Quindi a tutti e due piace un certo grado di caos e imprevedibilità, a cui tutti noi ci adattiamo e che amiamo.

Ma sì, forse Neil si spinge un po’ oltre. Ricordo che eravamo a Winnipeg [nel 2019] per un paio di concerti. Abbiamo fatto un piccolo riscaldamento vocale prima dello spettacolo: Ralphie, Billy, io e Neil eravamo seduti lì, a cantare, come abbiamo sempre fatto. Neil aveva un piccolo piano elettrico Wurlitzer. Avevamo quasi finito e saremmo andati in scena in 20 minuti, così gli abbiamo detto: «Neil, dacci una scaletta. Sappiamo che non la seguiremo alla lettera, ma almeno avremo un punto di riferimento». Neil ci ha guardati e ha risposto: «Sapete, ragazzi, non ho voglia di scrivere una scaletta. Che ne dite di uscire e suonare qualsiasi cosa ci passi per la testa?». Non succede spesso, nel mondo del rock’n’roll, che la gente salga sul palco e suoni quello che gli viene in mente. È stata una grande dimostrazione della forza e della fiducia che si è creata, nell’arco di decenni, fra gente a cui piaceva suonare insieme e che ha continuato a farlo. Sono onorato di tornare a suonare e registrare con loro e sono entusiasta di iniziare un altro capitolo, qualunque esso sia.

Da Rolling Stone US.

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