Night Skinny una volta faceva pezzi. Oggi fa 'Mattoni' | Rolling Stone Italia
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Night Skinny una volta faceva pezzi. Oggi fa ‘Mattoni’

A due anni da "Pezzi", il produttore naturalizzato milanese rompe il silenzio con una mattonata di disco che riunisce tutti i più grandi nomi della scena rap: da Fibra a Speranza, da Rkomi a Marracash

Night Skinny una volta faceva pezzi. Oggi fa ‘Mattoni’

Foto di Silvia Vinci

«Più ti esponi e più ti rompono i coglioni», ricorda Night Skinny saggiamente: lo diceva Lord Bean in un classico del rap italiano, Street Opera, uscito esattamente vent’anni fa nell’album del produttore Fritz Da Cat Novecinquanta. Uno dei dischi con cui, per età e per affinità di intenti, Night Skinny è cresciuto, prima di diventare a sua volta un produttore.

Trentasei anni, molisano trapiantato a Milano, è difficile inquadrarlo in una generazione, perché da sempre ci tiene a rinnovarsi e a mantenere il suo sound eternamente fresco e al passo coi tempi, cosa che lo porta sistematicamente a rischiare e a rimettersi in gioco e in discussione. Lo fa anche con il suo ultimo album uscito oggi, Mattoni, che segna il suo esordio con una major, la Island Records, e raccoglie ben 26 rapper: Noyz Narcos, Marracash, Capo Plaza, Guè Pequeno, Fabri Fibra, Rkomi, Luchè, Ernia, Quentin40, Tedua, Lazza, Ketama126, Side Baby, Speranza, Shiva, Franco126, Izi, Jake La Furia, Taxi B, Madame, Vale Lambo, Lele Blade, CoCo, Geolier, Chadia Rodriguez e Achille Lauro. Fin dal primo annuncio è stato uno dei lavori più caldi del momento, e il risultato è assolutamente all’altezza delle attese dei fan. «Della classifica non me n’è mai fregato un cazzo, anche se ovviamente fare un disco in major genera tutta una serie di aspettative» sottolinea. «Ma credo che un disco del genere dovrebbe uscire almeno una volta l’anno, per valutare lo stato di salute della scena rap».

L’ispirazione principale per questo disco, hai raccontato, arriva da un viaggio a New York…
Quando ho iniziato a lavorarci, doveva essere un disco trap. Dopo un po’, però, mi sono reso conto che mancava di personalità, e a quel punto per dare una svolta alla situazione ho chiesto a Luché e Noyz Narcos se avevano voglia di venire con me a New York per provare a fare dei pezzi insieme. Abbiamo affittato uno studio a Brooklyn e sono stati dieci giorni indimenticabili, pura magia. Ho capito che volevo fare un disco rap, alla vecchia maniera. Sentivo che era un sound che stava tornando, anche grazie ai vari Meek Mill, A$AP Rocky Pusha T. Ogni volta che sento un beat americano fatto con un campione, impazzisco: penso che il suono immortale dell’hip hop sia quello, una strofa che spacca su un beat che spacca costruito su un sample che spacca. Ho trentasei anni e cerco di rimanere il più fresco possibile, ma vengo da quella scuola lì, e da lì non si scappa: è quello che voglio fare.

A proposito dei campioni che hai usato: alcuni sono presi dalla tradizione della musica black, altri sono decisamente atipici e inaspettati. Ad esempio, quello di All Around the World degli ATC, tamarrissima hit eurodance del 1999, che hai usato in Soldi (con Gué Pequeno, Fabri Fibra e Rkomi). Da dove ti è venuta fuori l’idea?
A casa mia non si ascoltava musica, e quello che si ascoltava erano i Pooh o Claudio Baglioni; i miei amici, invece, ascoltavano dance. Quando ho iniziato ad avvicinarmi alla cultura hip hop, l’ho fatto anche per rigetto alle compagnie della mia zona, i cui unici interessi sembravano essere le discoteche e le sale giochi. Quella canzone, per loro, era una specie di inno. Mi è venuta l’idea di provare a riscriverla in chiave rap, e il risultato mi piace tantissimo: è venuto fuori un beat in puro stile Dipset.

Considerando che di solito i brani, più sono famosi, più sono costosi e inaccessibili per i produttori che vogliono utilizzarli, è stato difficile avere l’autorizzazione per usare quel campione?
Molto. Ho lottato tantissimo per ottenerla, ma ci tenevo davvero. Quando ho iniziato io a fare beat, più usavi dei campioni sconosciuti e oscuri, più eri stimato per le tue capacità di ricerca. Oggi come oggi, le cose sono un po’ cambiate: se vuoi fare un disco con i campioni che colpisca davvero l’immaginario della gente, devi usare pezzi conosciuti, ma rielaborati in maniera inaspettata e personale. Forse anche perché questo permette ai ragazzi molto giovani, abituati a un altro stile di produzione, di capire che si tratta di un sample e non di un semplice suono. Ho voluto inserire molta varietà: in Fare Chiasso (con Quentin40 e Rkomi, ndr) ho usato una canzone della cantante soul Minnie Riperton, in Stay Away (con Ketama126, Side Baby e Franco126) c’è un campione di musica da camera, in Attraverso me (con Luché) c’è un famoso inno gospel del ’78…

E in 0 like, con Jake La Furia, c’è addirittura All that she wants degli Ace of Base.
Anche quella era un’autorizzazione che mi faceva un po’ tremare, ma per fortuna è stata una delle prime ad arrivare. Non è la moda del momento a non concederti di fare un disco costruito sui sample, ma il mercato: ora che la musica rap è ai vertici delle classifiche, siamo sotto gli occhi di tutti e fare operazioni del genere è molto costoso e rischioso. In realtà mi piace che la gente sgami i campioni che uso, anche se tendenzialmente con me ne sgamano abbastanza pochi. Io per primo amo indagare per scoprire quali sono i pezzi campionati dai miei beatmaker preferiti.

Negli ultimi anni sei stato particolarmente attento a tenere d’occhio e formare le nuove leve di rapper italiani. È una cosa che fai ancora?
Certo, amo essere sempre sul pezzo. Ricevo centinaia di tracce edite o inedite in DM su Instagram, e di solito mi prendo sempre un paio di giorni al mese per ascoltarle più o meno tutte. Spesso sono proprio io a invitare la gente a mandarmele, con un post o una story. Mi piace avere un rapporto personale con gli artisti, che siano emergenti o affermati. Anche per quest’album, nonostante per la prima volta lavorassi con una major e ci fosse una struttura che poteva occuparsene, ho contattato io stesso tutti quelli che volevo coinvolgere, un po’ come avevo fatto per Pezzi, il disco precedente. L’unica differenza, forse, è che all’epoca mi ero vissuto molto meglio il periodo della lavorazione.

Come mai?
Di fatto era una cosa fatta in casa, d’istinto, senza aspettative: niente stress, niente discografici, l’ufficio stampa e il manager erano miei amici. Eravamo fuori da ogni logica di mercato, e non avevo i riflettori puntati addosso.

È un momento storico in cui l’attenzione attorno ai produttori è salita parecchio, grazie anche a giovani star come Charlie Charles, Tha Supreme o Low Kidd. E in effetti molti si stanno lanciando in progetti a nome proprio…
È giusto: dopo aver lavorato tanto per i dischi di altri rapper – che è una cosa che non faccio tantissimo, in realtà: seguo da vicino solo gli artisti con cui ho sviluppato un percorso, come Noyz Narcos o Rkomi – ci si prende i propri spazi. Io, però, in questo momento mi sento davvero vuoto: ho dato l’anima per mettere insieme Mattoni, non riesco proprio a mettermi a fare altra musica ora come ora.

Tornando appunto al disco, come hai deciso quali rapper avrebbero avuto una traccia tutta per sé e quali si sarebbero spartiti il brano con qualcun altro?
È difficile fare questo tipo di scelta, soprattutto per le reazioni della gente: molti fan pensano che un album con tanti rapper sia tipo un supermercato, in cui prendi solo quello che vuoi e il resto lo lasci nello scaffale. Bisognerebbe avere più rispetto per il lavoro degli altri. Detto questo, i rapper che hanno un pezzo tutto per sé sono solo tre. Luché, perché la sua è stata la prima canzone in assoluto che abbiamo registrato, a New York: era talmente profonda e personale che era impossibile pensare di fargliela condividere con qualcun altro. Jake La Furia, perché erano anni che volevo lavorarci: gli avevo addirittura mandato una mail da fan innamorato, a cui non aveva mai risposto, e quando finalmente ero riuscito tramite conoscenze comuni a entrare in contatto mi sembrava giusto dargli uno spazio di rilievo. E poi Chadia Rodriguez, una ragazza in cui ho sempre creduto molto, e che in questi giorni ha ricevuto le critiche più feroci sui miei social, perché secondo molti non c’entrerebbe niente con quello che faccio io; volevo proprio fare l’esperimento di provare a portarla dentro il mio sound, e credo sia riuscito.

Il nome Mattoni evoca dichiaratamente solidità, ma le grafiche dell’album evocano anche qualcos’altro: la famigerata truffa del mattone, in cui qualcuno ti vende dei prodotti di elettronica costosissimi “caduti da un camion” e quando apri l’imballaggio ci trovi dentro un mattone…
Ho voluto proseguire il percorso che avevo cominciato con Pezzi, in cui i contenuti parlavano di tutt’altro, ma l’estetica dell’album era un riferimento velato e ambiguo all’immaginario della droga e dell’illegalità. Non a caso, in gergo, un “mattone” di droga è un’unità di misura più grande di un “pezzo”, tipo un multiplo. Volevo spiazzare tutti, come l’altra volta: anche ora, la gente penserà che stia facendo un omaggio alla cocaina fino a quando non si ritroverà in mano il disco e scoprirà che da fuori il packaging è come quello di un prodotto tecnologico sofisticato, tipo Apple, e poi aprendolo è tutta un’altra cosa. C’è anche un messaggio subliminale, che spero verrà svelato a suo tempo.

Non ti è bastato, insomma, il casino che si era scatenato l’altra volta, con la polemica che infuriava e la gente che ti accusava di promuovere l’uso di droga tra i ragazzini che ti ascoltano?
No! (ride) Sicuramente ho rischiato giocando sui doppi sensi, ma in effetti con questo tipo di operazioni c’è un problema fondamentale, oggi come oggi: pochi comprano il disco fisico. All’interno di Pezzi c’era una fanzine di Boogie, un artista serbo, che chiariva perfettamente il concept, ma siccome quasi nessuno l’ha vista, tutti hanno puntato semplicemente il dito sul messaggio pro-droga che secondo loro stavo lanciando. Cazzate. Io non ho mai detto a nessuno di drogarsi, anzi, a dirla tutta non mi drogo manco io. Il titolo era provocatorio, ma voleva essere soprattutto un riferimento alle cassettine che da piccolo mi registravo dalla radio, mettendo insieme i pochi pezzi rap che passavano all’epoca.

Restando nell’ambito delle provocazioni, sicuramente molti ascoltatori, nei prossimi giorni, faranno un paragone tra Mattoni e il Machete Mixtape 4, per numero di rapper presenti e per i beat all’avanguardia. È difficile uscire con un album del genere a pochi mesi dall’uscita del progetto collettivo finora più celebrato e venduto del 2019?
Ovviamente la gente ha già iniziato a metterli a confronto. Io iniziato a fare il disco senza sapere che sarebbe arrivato anche il loro nello stesso periodo, e quando Machete Mixtape 4 è uscito, avevo già finito il mio. Penso che Machete abbia fatto un ottimo lavoro in tutti i sensi, in termini di qualità altissima e di vendite pazzesche. Ma sono due album molto diversi, e vorrei che fosse chiaro a tutti.

All’inizio dell’intervista dicevi che non ti importa dei risultati in classifica, ma che vorresti che Mattoni fosse capito…
Confermo, è proprio così. E proprio per questo, credo che sparirò per un mesetto, scollegandomi da tutto. Ho perfino comprato apposta un telefono del cazzo, un trap-phone usa e getta in cui non ho né Whatsapp né la mail né i social e che accendo una volta al giorno per non avere rotture di coglioni. Forse partirò addirittura per New York, così sarò lontano anche fisicamente e riuscirò a rigenerarmi. Anche perché, dopo tutto ciò che mi hanno dato i rapper per questo album, mi aspetta una stagione intensa: dovrò restituire tanto, in termini di beat da dare in giro.

Sempre oggi, 13 settembre, Skinny presenta una nuova una capsule collection allo IUTER Store di Corso di Porta Ticinese 48.