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Niente può fermare Ringo Starr


Fare musica gli ha «salvato il culo» e non ha intenzione di smettere. Qui racconta il nuovo EP, il fascino dei Beatles sui più giovani, le session di ‘Let It Be’ e la passione per Billie Eilish e gli spiriti ribelli

Niente può fermare Ringo Starr

Ringo Starr

Foto: Scott Robert Ritchie

Ringo Starr è forse una delle figure più amate del mondo della musica. Anzi, di tutti i mondi. Ha 81 anni e si rifiuta di rallentare tant’è che ha da poco pubblicato il secondo EP del 2021, Change the World. È abituato a passare gran parte del tempo in tour insieme alla sua All-Starr Band. In questi giorni, però, combatte la malinconia della pandemia facendo musica nel suo studio casalingo with a little help from his friends. Come dice lui ridendo: «A volte non c’è niente da fare, perciò scriviamo canzoni».

C’è sempre musica nella sua testa. Quando il fonico lo aiuta a sistemare il microfono per l’intervista su Zoom, inizia a cantare il classico dei Beatles Help!. Quest’anno ha vissuto un altro grande momento ai Grammy, quando ha consegnato a Billie Eilish il premio per il disco dell’anno (la cantante l’ha salutato dicendo: «Come butta, Ringo?»). A metà di questa intervista, il figlio Zak, da tempo batterista degli Who, lo chiama al telefono. La suoneria è uno strano mix di suoni circensi e fischi, «per ricordarmi che sì, è proprio il mio telefono».

Le nuove canzoni dell’EP somigliano a Starr, sono piene di calore e senso dell’umorismo. Change the World contiene quattro pezzi realizzati con Linda Perry, Steve Lukather, Trombone Shorty e Joe Walsh, che duetta col batterista per una versione eccitante del classico anni ’50 Rock Around the Clock. L’EP esce sei mesi dopo Zoom In ed è disponibile in digitale, CD e (oh sì) in cassetta. Il vinile arriverà il 19 novembre. Ascoltarlo è un bel modo per ricordarsi che il mondo ha sempre bisogno di un po’ di Ringo Starr.

Il batterista ha raccontato a Rolling Stone i segreti dell’EP, trasudando come sempre saggezza e fascino. Ha anche parlato dei Beatles, delle collaborazioni a distanza, di come Rock Around the Clock gli ricordi l’infanzia, del nuovo documentario Get Back, della versione rimasterizzata di Let It Be e di com’è diventato un fan di Billie Eilish e Miley Cyrus.

Congratulazioni per Change the World. Quest’anno hai pubblicato molta nuova musica, sei il lavoratore più instancabile dello show business! 

Lo sono perché faccio le cose un passo per volta. Ho capito che non volevo fare un altro disco. Scrivere dieci canzoni è come avere un lavoro: un bel lavoro, amo suonare, ma ora preferisco farne quattro, e poi sono sempre stato un grande fan degli EP. Continuerò a fare così.

Il primo singolo, la title track, è fantastico, molto attuale.
Lo adoro, è un pezzo di Steve Lukather e Joe Williams. Luke suona la chitarra, ma ci sono anche un po’ di fiati, così il pezzo ha corpo. In questo EP lavoro con tante persone nuove, come Linda Perry che è fantastica. Come Undone l’abbiamo scritta soprattutto noi due. Abbiamo pensato di inserire un trombone, così l’abbiamo spedita a New Orleans. E chi altro si poteva chiamare se non Trombone Shorty? Lui è una sezione di fiati ambulante. Just the Way è un pezzo reggae, ci sono Tony Chen e Fully Fullwood. Bruce Sugar fa il fonico, ma è anche un produttore. A volte non abbiamo niente di meglio da fare, così scriviamo una canzone.

È una delle cose belle di registrare in questo periodo. Mi salva il culo, perché a volte penso: oh, sono così stanco di tutto questo, vorrei stare in tour, voglio andare in tour! Per fortuna possiamo inviare i file a distanza. Non è fantastico?

È fantastico che tu riesca a lavorare così…

Sì. Non ti dirò di che pezzo si tratta, ma Eddie Vedder mi ha contattato con alcuni file (ride maliziosamente, nda). Non dirò altro, Eddie!

Non vedo l’ora di ascoltarlo. 

Beh, la batteria è fantastica. Siamo in questa sala – quant’è, ragazzi, 5 per 4? Tutta l’attrezzatura è qui. Le tastiere, i microfoni. In camera da letto invece ci sono tre amplificatori e due batterie complete. È così che lavoriamo. Ormai facciamo tutto qui da dieci anni. Lo adoro perché posso passare il tempo con i cani, mia moglie, Barbara (Bach), prendere una tazza di tè, e siamo tutti al sicuro. Non sono uscito più di tanto per la pandemia.

Il nuovo EP ci riporta alle tue radici anni ’50. Come sei finito a cantare Rock Around the Clock? 

Stavo pensando – era uno di quei giorni in cui te ne stai seduto e non ha nient’altro da fare – a quando avevo 15 anni. L’anno in cui sono finito in ospedale. Stavo per festeggiare il compleanno e non volevo farlo lì, così abbiamo parlato ai dottori, mia mamma li ha supplicati un po’ e abbiamo chiesto loro di lasciarci uscire. Siamo usciti un paio di settimane prima del mio compleanno. Siamo tornati dai miei nonni, a Liverpool. Loro mi hanno cresciuto insieme a mia madre, mio padre è andato via quando avevo tre anni. Mi hanno portato all’Isola di Man. Al cinema davano Rock Around the Clock, mi ci hanno portato. Immagina uno di quei posti da vacanza dove si divertono tutti, tipo la Florida quando non c’è il sole.

E il cinema è venuto giù. Insomma, la gente sradicava le poltrone e faceva casino. Io ero appena uscito dall’ospedale e pensavo «Wow! Le cose sono cambiate!». Capisci cosa voglio dire? Era fantastico. Quella canzone mi è rimasta sempre nel cuore. Insomma mi sono messo a pensare a Bill Haley e ho deciso di suonarla.

Bill era un po’ il papà di tutti. È per questo che amavamo Elvis, Eddie Cochran e Buddy, i tizi che sono venuti dopo di lui, perché Bill aveva l’aspetto del papà. In Rock Around the Clock però ha fatto un gran lavoro.

È incredibile, sei uscito dall’ospedale e ti sei ritrovato in un mondo diverso, dove i ragazzini facevano a pezzi i cinema. 

Eh sì! Sono rimasto a letto un anno. Dicevo (parla in falsetto): «Sto molto meglio ora». Tutto grazie all’America che ha inventato la streptomicina. Avevo la tubercolosi, così mi hanno piazzato in una casa circondata dal verde a Haswell, fuori Liverpool. Era tutto finestre e streptomicina. Sono rimasto lì per mesi. Nei giorni migliori mi facevano uscire dal letto e stare seduto. «Oh, wow, sono su una sedia!».

È in quel periodo che hai deciso che saresti diventato famoso come Bill Haley? 

No, non pensavo che ci sarei mai riuscito. Volevo essere come quei ragazzacci, così sono diventato un teddy boy.

Non c’è voluto molto perché iniziassero a fare a pezzi le poltrone per te.
Lo so, non è pazzesco? Ma non credo che ci siano stati grandi disastri ai nostri concerti. C’erano tante urla, ma niente poltrone distrutte.

Quest’anno hai rubato la scena a tutti ai Grammy, quando hai premiato Billie Eilish.
Sì, che strano. Mi sarebbe piaciuto stare lì e chiacchierare con tutti. Ma sono salito in macchina, avevo fatto un tampone… dio, il mondo funziona così adesso. Sono salito in auto, sono arrivato sul posto, sono uscito dall’auto e sono entrato in camerino, poi sul palco e poi ancora in auto. Non c’era tempo per fare nulla. Ma adoro Billie, è fantastica. Adoro il suo atteggiamento. Mi piace anche Miley Cyrus. Mi piacciono i ragazzi ribelli.

E loro amano te. Quando hai dato il premio a Billie, sia lei che il fratello hanno fatto un inchino. La tua musica parla a tante generazioni diverse…

Beh, la musica funziona così. Insomma, pensa ai Beatles, l’altro giorno qualcuno mi ha fatto vedere due foto. La prima era dell’agosto ’62, quando sono entrato nel gruppo, l’altra dell’agosto ’69. Sono la nostra prima e ultima foto insieme. È successo tutto in poco tempo, ma siamo ancora rilevanti e la musica è ancora fantastica. Ora qualcuno dice che eravamo un po’ heavy metal (ride felice). Amo quando vengono fuori cose del genere.

La musica resiste. Facciamo bei numeri in streaming. Da un momento all’altro arriverà una nuova ristampa. Siamo usciti in vinile, in CD e ora in streaming. Quando inventeranno qualcosa di nuovo, noi ci saremo. Quello che mi piace di più, però, è quando molti ragazzi ti dicono che amano la nostra musica, un nostro pezzo. Tutte le generazioni si entusiasmano per i Beatles. Se hai un qualche interesse nella musica, devi ascoltarli. Perché erano grandiosi.

Sto ascoltando la nuova edizione di Let It Be. La batteria suona più forte e chiara. 

È stato interessante. La prima remaster è arrivata con Yellow Sub. Io e Paul siamo andati ad Abbey Road per ascoltare il materiale e non facevamo altro che chiedere: «Ma chi ha messo quella parte? Che cos’è quello?». Con la rimasterizzazione puoi sentire più chiaramente la batteria. Un sacco di gente si sorprende e mi chiede se è vero che ho suonato certe parti. Sì, pare che sia stato io. E le adoro.

Negli anni ’60 erano tutte registrazioni in mono, così se c’era da eliminare un suono di solito era la cassa. Nei nostri primi dischi ce n’era pochissima. Ma è così che si faceva. Ora si sente chiaramente. È una bella cosa.

Riascoltando Let It Be sembra che vi siate divertiti molto. 

Ci siamo divertiti. Presto uscirà anche il documentario Get Back, che ora dura quasi sei ore. Ci sono tanti momenti divertenti, tante risate, mentre il film originale non ne aveva affatto. Era un peccato. Ma siamo saliti sul tetto e abbiamo finito un disco in quel mese, quindi non è che passavamo il tempo a far niente.

Sembra che la batteria ispiri i cantanti a raccontare la loro storia.
È così che funzionavano le cose in sala. Loro sentivano sempre la batteria perché ero lì. Sì, spesso ero dal lato opposto della stanza, ma col passare degli anni ci siamo avvicinati sempre di più, perché neanche George Martin credeva davvero alla separazione totale degli strumenti in studio. E a noi non dispiaceva sovrapporre qualche suono. La mia canzone preferita del White Album è Yer Blues, l’abbiamo suonata tutti in una stanza di circa otto metri quadri. C’eravamo tutti, amplificatori compresi, e John cantava. Io mi sentivo come se fossimo tornati in un club. Era fantastico, sentivi l’energia di tutti quanti. Quindi sì, la rimasterizzazione mi ha fatto bene.

Credo sia un tributo alla musica, alla vostra amicizia e a come le due cose fossero collegate. 

Adoro la band. Insomma, è stato incredibile passare il tempo con quei tre. Avevamo tutto: Paul, l’uomo dalle tante voci e un grande bassista. John (imita la sua voce), «Let’s go!». George, con le sue melodie alla chitarra. Molte delle cose che suonava sui pezzi erano importanti quanto il pezzo stesso (canta alcune parti della chitarra di Harrison, nda). Non importa cosa stessimo suonando, capivamo la canzone sulla base di quello che suonava George. Che meraviglia. Ce la siamo cavata, no?

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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