Nell'album del 1980 'Dalla' c'è tutta la disperazione di Lucio | Rolling Stone Italia
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Nell’album del 1980 ‘Dalla’ c’è tutta la disperazione di Lucio

Ci siamo fatti raccontare il disco dal produttore Alessandro Colombini e dal chitarrista Ricky Portera. «Non pensava che l'arte potesse nascere dalla serenità, aveva una malinconia profonda, dolce e amara»

Nell’album del 1980 ‘Dalla’ c’è tutta la disperazione di Lucio

Lucio Dalla

Foto: Mondadori via Getty Images

Per spiegare a qualcuno come funziona questa storia di mettersi a raccontare i dischi penso sempre alle ore che servono a preparare l’ingresso nel racconto e al poco tempo che occorre poi per lasciarlo scorrere fuori, venire al mondo. Succede però con certi lavori, anzi certi anzi capolavori, di avere la necessità di trovare prima di tutto la fenditura giusta in cui infilarsi per non rovinarne minimamente il tessuto, non alterarne l’armonia, non essere smisuratamente di troppo quando di troppo, le parole sopra le parole, sono proprio per definizione.

Dalla è il disco che Lucio (come amava essere chiamato sempre, solo così, senza cognome) pubblica nel caldo settembre 1980, ed è il terzo album in cui oltre alla musica scrive anche i testi, arriva dopo Come è profondo il mare (1977) e Lucio Dalla (1979) a concludere una ideale trilogia che non ha pari nella storia della canzone scritta nella nostra lingua e che potremmo chiamare trilogia del disvelamento, quello che il travagliato approdo alla scrittura delle parole dopo la lunga collaborazione con il poeta Roberto Roversi – molto amata dalla critica, ma assai meno consacrata dai numeri delle vendite – aveva in qualche modo reso inevitabile, necessario a Lucio per cominciare davvero.

Oggi questo disco compie 40 anni e Sony Legacy lo ripubblica in una pregiata edizione limitata numerata, con una rimasterizzazione dai nastri originali a cura di Maurizio Biancani che già si era occupato delle edizioni rinnovate dei primi due capitoli. A corollario di tutto questo ci sono le fotografie di Camilla Ferrari che, un po’ in risposta alla straordinaria immagine di Lucio di spalle, moschettone portachiavi in vista, seduto al centro di Piazza Maggiore presente nell’interno dell’LP, ha fotografato Bologna oggi, mescolando il pensiero fotografico di un Luigi Ghirri scuro e oscuro (un po’, insomma, un Ghirri all’incontrario) a quello di un Lucio assente dalla sua città, ma il cui pensiero magico ne impregna le mura, la natura urbana, insomma l’ossatura primigenia, le radici, il sottosuolo.

Foto: Camilla Ferrari

L’intera trilogia del disvelamento viene prodotta da una figura chiave, non solo per la storia musicale di Lucio ma per un’enorme fetta di storia della musica italiana. Si tratta di Alessandro Colombini, storico direttore artistico della Ricordi prima, fondatore della Numero Uno con Mogol e Battisti poi, cui seguiranno la creazione della Spaghetti Records (quella dei Decibel di Enrico Ruggeri, per intenderci) e della Heinz Music. Stiamo parlando di una vera figura chiave della produzione musicale italiana, anzi, dell’invenzione musicale di questa nazione, uno che ha scritturato la PFM, il Banco del Mutuo Soccorso, che ha lavorato tra gli altri con Bennato, Lauzi, De Gregori e a oltre venti album di Antonello Venditti.

La grandezza di Colombini, vero e proprio uomo del cantautorato italiano, in questa trilogia dalliana è quella di saper perfettamente unire i mondi, capire il modo in cui Dalla rifiuta programmaticamente proprio l’etichetta di cantautore – sentendosi naturalmente più affine a quella di musicista – e il modo in cui, in una certa misura, quell’essere cantautore diventa invece un fatto centrale, capace con questo artista di smarcare la definizione dalla polverosa ortodossia che la avvolge. La parola per Dalla è figlia del suono, al punto da essere suono, e Colombini non solo comprende perfettamente questa cifra, ma la esalta, le dà forma, spazio, sa domarla senza mai alterarla.

Raggiungo Colombini telefonicamente in Thailandia, dove ora vive con la sua compagna, dice che dovrebbe tornare anche un po’ in Italia ma che ora, come noi tutti, non sa quando si potrà muovere per via della pandemia. Una volta prese le minime misure del nostro scambio mi invia in anteprima un testo che ha scritto a proposito di quest’ultimo capitolo della sua trilogia con Dalla (a cui si somma anche Banana Republic). Il testo scritto che mi invia, e che sarà contenuto nella nuova edizione dell’album in uscita questo venerdì 13 novembre, si concentra su quella che, di fatto, è la chiave di tutto questo lavoro, picco dell’ascesa dalliana nei vortici della propria interiorità, un’interiorità anche oscura, notturna, come notturno era lui, che di notte girava la sua dark Bologna, l’Italia, e che di notte, specialmente, scriveva.

«Una sera a Carimate» rivela il produttore «arrivò Ennio Melis, il direttore generale della RCA che non si spostava mai da Roma, tranne qualche volta per venire da noi; dopo l’ascolto, nella notte, ci espresse la sua soddisfazione per l’album e fu a questo punto che Dalla, che nel frattempo s’era fatto scuro e pensieroso, per la prima volta, e improvvisamente, espresse disperato e ad alta voce tutta la sua solitudine e la paura del futuro: “nel mio futuro, queste canzoni, questi testi, questo successo, a chi li lascio?”».

Eccoci al punto: in Dalla, Lucio scrive d’amore, non lo aveva mai fatto così prima, mai aveva messo così tanto del suo sé sentimentale nei suoi brani, mai aveva popolato di indizi tanto personali, privati, emotivi, le sue canzoni: è una cosa che si coglie un po’ ovunque in questo lavoro anche se il suo disvelamento, qui ai massimi livelli di una carriera intera, resta sempre un po’ segreto, nascosto, gioca, ironizza, si scalza da solo. «Dopo questo disco» mi racconta ancora Colombini «è cambiato tutto, c’è stata anche una alterazione degli equilibri e non abbiamo più lavorato insieme, la mia avventura con Lucio è finita. Ho raccontato questa storia così, volutamente minimizzata, senza aggettivi, in modo delicato, ma la sua era disperazione vera che ci lasciò esterrefatti e sconcertati nella notte in uno degli appartamenti di quello studio di registrazione. Quel Dalla lì non lo avevamo mai conosciuto prima, né io, novello confidente, né Melis, che lo conosceva da molti anni: nulla di lui ci aveva mai fatto pensare a quello che accadde quella sera».

Eccoci allora di fronte a uno snodo centrale dell’uomo Dalla, il confronto con sé stesso che non riesce a essere tenuto fuori dai dischi, la presa di coscienza di sé che si prende la propria misura. Un disco d’amore che sull’amore ragiona e lo fa qui e là nei modi più e meno smaccati: in Cara (originariamente Dialettica dell’immaginario) immaginando appunto l’elastico emotivo che unisce e separa due amanti, lui più anziano e lei più giovane, il gioco delle parte dell’età e del desiderio, del legame e del distacco, e in Meri Luis, che per lo stesso Lucio era la sua canzone più riuscita, la più sincera, trasparente, Meri Luis che “finalmente ha deciso che l’amore è bello / ha abbassato gli occhi e si è lasciata andare” ma che pure domanda, al cielo: “Adesso, mio dio, dimmi cosa devo fare / se devo farla a pezzi questa mia vita / oppure sedermi e guardarla passare”.

Foto press

L’amore per Dalla ha a che fare, in modo spiccato, con un conflitto, è un conflitto con la propria identità, con l’amare donne, uomini, un fatto che forse non è riducibile a una semplice questione di eterosessualità o omosessualità, si tratta piuttosto di qualità, di fortuna, di gioco: dell’amore che va o che non funziona, di un mondo relazionale amoroso felice o destinato a non trovare pace, al tormento, all’insoddisfazione. Il conflitto con il proprio sé amoroso e la malinconia derivata da tale conflitto, sono il lato più buio di Lucio, che qui emerge: è un disco dove le canzoni non sono mai felici, mi racconta al telefono Ricky Portera, storico chitarrista e co-fondatore degli Stadio che, insieme ai propri compagni di band (band figlia di Lucio Dalla) diventa a sua volta padre di un certo “suono Dalla”, quello così perfettamente esaltato dal lavoro di Colombini in questa magica trilogia.

«Sono certo, e lo dico dopo 33 anni di frequentazione e di lavoro insieme, che Lucio fosse tra quelli che non pensavano che l’arte potesse nascere così bene dalla serenità. Lui non era un tipo facile, aveva anche il proprio buio, e poteva capitare che un giorno ti portasse sul palmo della sua mano e il giorno dopo facesse l’esatto opposto. Questa malinconia un po’ innata che aveva Lucio qua esce tutta quanta in queste canzoni. I testi lui li scriveva di notte, perché era un uomo della notte, aveva bisogno di quel vuoto intorno, di quella solitudine notturna. Mangiava cotolette e poi scriveva nella sala del camino allo Stone Castle di Carimate fino al mattino. Ci sono state notti in cui eravamo lì solo io, lui, i grandi cani del castello e il custode. Una volta sono entrato nella sua stanza e lui non sapendo chi potesse essere, sentendo i passi, aveva tirato fuori una pistola. Viene da ridere a ripensarci, ma da quelle notti usciva tutta questa profonda malinconia, anche molto dolce, dolce e amara. Lui era così».

La sintesi dell’istanza amorosa che si apre e di questa malinconia profonda che sembra prendere qui i versi dei testi e legarli alla stessa identica malinconia proposta dalle frasi sul pentagramma – che si esprime dunque in assoli, sali e scendi continui, esplosioni e rientri – trova il suo massimo compimento nel pezzo che chiude il disco, diventato uno dei brani più famosi di Dalla: Futura.

Nata, a dire dello stesso autore, alla vista di Berlino Est da una torretta di quelle che, da Ovest, permettevano di guardare al di là del muro e da una sorta di sogno del futuro, dove tutto è speranza e possibilità, trionfo d’amore – esattamente come in Heroes di Bowie, se ci si pensa, Futura, che ora possiamo riascoltare e anche guardare grazie a un video realizzato per questo compleanno dell’album da Giacomo Triglia, è però anche la storia di un concepimento, la canzone in cui troviamo una delle migliori descrizioni liriche dell’amore fisico di tutta la storia della nostra musica, e la profetizzazione, non più segreta ma segretamente espressa, di quel figlio che il nostro non avrà e che, soprattutto, già sa che non avrà.

«I cantautori avevano paura dell’amore», mi racconta ancora Colombini, «c’era tutta quell’idea di nazionalpopolare intorno a questo tema, se eri un cantautore era come scritto che tu non potevi occupartene, c’era questa vergogna generale: qui Lucio invece sceglie di dargli spazio ma in un modo nuovo, di cambiare proprio le modalità con cui immergersi nella questione amorosa». Questo cambiamento passa anche dal raccontare l’amore proprio passando dalla privazione, dalla frustrazione anche. Futura è una canzone su un amore che non ci sarà, che l’autore non sperimenterà, la canzone d’amore su una mancanza d’amore e sulla scelta di fare i conti con questa mancanza aprendo il privato al pubblico, perché se Futura, per il singolo, è anche malinconia, Futura, per il mondo, è speranza, desiderio, culmine d’amore che invece sarà: novità, gusto dell’attesa.

Ciò su cui tutti sono d’accordo, ogni ascoltatore di oggi così come ogni collaboratore e amico di ieri è che i brani di Dalla, così come quelli di Lucio Dalla e ancora prima quelli di Come è profondo il mare, sono dei corti, dei piccoli film popolati da personaggi (erano tutti veri, uomini e donne che Lucio vedeva, aveva osservato, mi ha confidato Colombini) a cui Lucio offre una vita espansa, più onirica, magica, nei suoi testi. Così troviamo “il regista, il ragazzo, il dentista, il taxista, la ragazza, la star / scaraventati in mezzo al traffico”, insieme a tanti altri, un traffico sonoro, con gli archi diretti da un vigile d’eccezione, Gian Piero Reverberi, che incontrano sapientemente la sezione ritmica stratosferica di Marco Nanni al Fender bass e naturalmente Giovanni Pezzoli alla batteria. Un disco, dice Biancani oggi, registrato già alla perfezione (grazie anche all’ingegnere del suono Ezio de Rosa al fianco di Colombini).

Un discorso a parte va fatto per Portera che, mi specifica più volte, si considera un vero e proprio allievo di Lucio. «La prima volta dall’agenzia di Bibi Ballandi mi avevano detto che Lucio Dalla cercava un chitarrista, io lo conoscevo solo per la sua collaborazione con i Rokes a Sanremo, ero già uno da rock, non avevo granché rapporto con i cantautori. Non sapendo cosa mi sarei trovato davanti sono andato a trovarlo in un locale vicino a Modena dove suonava vestito di tutto punto. Mi ero messo giù bene, elegante, da bravo ragazzo ed ero andato con un mio compagno della facoltà di medicina. Lucio non mi ha detto niente, mi ha chiesto solo chi fossi e il giorno dopo mi ha messo subito a suonare. Questo ti sintetizza molto bene di che tipo di persona stiamo parlando».

Il lavoro di Portera è certosino perché il chitarrista declina la sua indole rock al mondo-Dalla, andando lui stesso a generare con l’ingresso, mai così influente, dello strumento, buona parte della cifra dalliana. Lo capiamo subito, fin dall’introduzione di Balla balla ballerino in apertura disco o, più avanti, dall’attacco frammentato di Meri Luis. «Balla balla ballerino» torna a dirmi Colombini «non doveva essere un singolo, non doveva passare così tanto dalle radio, ma invece andò così. Allora non decidevi tu cosa dovessero passare le radio, facevano loro. Pensa che andammo da TV Sorrisi e Canzoni, che ovviamente non si è mai occupato veramente di musica, a chiedere di non farci la copertina, non la volevamo. Tutti la volevano, noi no. Quel pezzo, mi sembra, è un pezzo bellissimo ma che in qualche modo fagocitò poi tutto lo spirito dell’album».

Ogni personaggio raccontato da Lucio, scritto di notte nel ventre del castello, ogni piccolo gesto, Sonni Boy che ha disegnato sulle braccia la mappa delle stelle e di notte va a caccia, così come la Roma notturna che si muove mai descritta tanto bene e con tanta riservatezza e precisione da un cantautore non romano, meriterebbero spazi di racconto e di viaggi interpretativi uno per uno: la materia è, letteralmente, senza fine. Vale la pena, allora, immergersi in questa nuova edizione, dal suono tanto pulito (mettetelo in cuffia, per prima cosa), capace di una resa da sindrome di Stendhal per quanto la voce di Lucio riesce a uscire dritta, calda, senza perdere mai una curva, un glissato, un colore e arrivare qui, dove siamo noi.

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