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Nella testa di Nayt

«In giro vedo un sacco di dolore e di sofferenza e li faccio miei». Il rapper racconta 'Doom' e la propria diversità: meno swag, più riflessioni, anche amare. C'è vita fuori dal solito rap game

Nella testa di Nayt

William Mezzanotte, ovvero Nayt

Foto press

Non era un fuoco di paglia, Mood: ovvero il disco della svolta, della (improvvisa?) maturità per Nayt, uscito a fine 2020, quello che metteva fine alla trilogia di Raptus. A meno di un anno di distanza ecco Doom. E la direzione intrapresa, beh, è sempre più convinta. Sempre più ponderata, ecco. Sono lontani insomma i tempi in cui il rapper molisano – ma trapiantato a Roma – era da identificare coi dissing, col rap da battaglia. Lontani sì, ma non così lontani da evitare che ancora adesso, digitando su Google, il riempimento automatico della stringa di ricerca ti serva sul piatto immediatamente un “Nayt dissing”: come la mettiamo con questa cosa, William?

«Beh, è indicativo che accada no?». Indicativo? «Indicativo di quanto per lungo tempo mi sia sentito visceralmente parte dell’ambiente hip hop. E allora cosa succedeva? Succedeva che ero bruciato dalla voglia di dire le cose come stavano, sincero al 100%, anche a costo di essere un po’, diciamo così, dissacrante. O…». O? «O non capito, ecco. Col rischio magari di non piacere a qualcuno. Adesso invece…», e qui Nayt pesa bene le parole, «adesso è come se quella cosa lì non mi interessasse più di tanto. Mi tocca meno, ecco. Ci sono cose oggi nella vita che hanno per me molto più valore».

In realtà per tutta la durata della chiacchierata Nayt le parole le ha soppesate eccome, non solo qui, non solo in questa parziale presa di distanza dal circo del rap. Abituati a rapper della nuova o quasi-nuova generazione che quando si esprimono coi media – ma spesso pure sui social e coi loro fan, a dirla tutta – utilizzano un vocabolario sciatto, limitato e in fin dei conti molto prevedibile (anche perché spesso legato al personaggio di se stessi che si sono costruiti), Nayt è praticamente un ufo: in quasi un’ora di conversazione ogni frase, anzi, ogni singola parola è attentamente scelta, ponderata, cesellata, senza farsi problemi se nel frattempo è necessario inserire delle pause robuste per arrivarci, dei silenzi. E no, non sono le pause dell’MC strafatto di erba che trascolora ogni pensiero un minimo complesso in una ridarola chimica; sono invece le pause di una persona che realmente vuole fare – e sta facendo – un grande lavoro su se stesso.

Sul fatto di lavorare su se stessi già in passato ha affrontato la questione, non ha nascosto in interviste e dichiarazioni varie che l’incontro con degli psicologi gli ha svoltato la vita. Ora alza pure ulteriormente la posta: nel giro promozionale per lanciare Doom gli in-store non saranno degli stanchi firmacopie, ma vireranno in più di una occasione per sua volontà in chiacchierate pubbliche con interlocutori che, per professione, scandagliano la mente e le emozioni. «Essere artista è qualcosa di tanto divertente quanto qualcosa che ti fa soffrire un sacco, ma proprio tanto. Però è anche vero che più soffri, più forse hai la possibilità di essere un artista migliore: io tutto questo non me lo nascondo e anzi ne sono consapevole. Ti dirò di più: ne sono in qualche modo addirittura grato». Grato? «Saper infatti accettare quanto mi sta succedendo è un percorso di accettazione molto importante, che voglio portare avanti dignitosamente. Un percorso iniziato con l’album prima, con Mood. Un percorso imprescindibile, che non potevo non iniziare a intraprendere».

Altrimenti? Se non lo intraprendevi? «Altrimenti non sarei stato pronto ad affrontare tutte le cose che mi sono capitate negli ultimi anni. Ora sono più pronto, più consapevole; e lo sono anche perché sono passato da scelte difficili e da sofferenze, perché crescere significa anche soffrire di più. Ho accumulato un grande bagaglio di intensità delle emozioni, che ora mi ha reso più forte».

Bello. Bellissimo. Bravo, Nayt. Ma ti sembra il caso che un rapper del nuovo millennio faccia questi discorsi? E magari pure questi dischi, diciamola tutta, visto che Mood e ancora di più Doom sono quasi più degli auto da fé e degli atti di contrizione, mille miglia lontani dallo swag pronto uso che contrassegna (parte del) rap italiano vincente dell’ultimo decennio ed anche un po’ la prima parte della tua carriera? «Mi sembra assolutamente il caso, sì. E guarda: non puoi immaginare in quanti mi avessero sconsigliato dal seguire una evoluzione del genere, fra chi mi sta attorno. Cioè, non è che mi buttassero merda addosso, quello no, però ecco, provavano a farmi cambiare idea, a chiedermi se ero realmente sicuro di fare quello che stavo facendo. Io, ho insistito. Ed è così che Mood è uscito senza singoli a precederlo, è così che il video è stato fatto per due pezzi assieme, a rappresentare un po’ la dualità, è così che sono arrivate un po’ di scelte strane, controcorrente».

«Un po’ di tempo fa lessi una intervista di Cremonini che mi colpì moltissimo: il senso più o meno era che se sei artista, se sei artista davvero, devi saper sacrificare anche i numeri se vuoi stimolare la gente ad appassionarsi veramente a te ed all’arte in generale. La trovo una frase bellissima. Non solo: poco più tardi una persona che stimo moltissimo, non è necessario fare il nome, mi ha fatto capire che un artista deve essere sempre all’avanguardia, deve cioè credere in se stesso anche a costo di non essere capito in un primo momento dagli altri – perché se è convinto che sta facendo qualcosa di valore, nulla lo deve fermare». Niente insomma più dipendenza dai numeri del web, degli stream, eccetera eccetera? «Ci sono, esistono questi numeri, bisogna tenerne conto. Ma bisogna essere consapevoli che non rappresentano al 100% lo specchio della realtà».

A dirla tutta, in questo disco saturo di dubbi ed interrogativi che è Doom mostri addirittura di dubitare sulle tue stesse qualità da artista, come ad esempio in quello spoken word che è (Partenza), quando reciti a un certo punto “Io ho l’ansia che quello che scrivo non sia niente di nuovo”, «Beh, essendo un artista ho continui sbalzi d’umore, partiamo da questo; ma io credo che ci sia un senso di solitudine che ci accomuna tutti, e tutti così arriviamo a sentire sensazioni in qualche modo simili, anche se ciascuno di noi è diverso e la vive magari in maniera differente nei modi. Credo insomma di parlare alla fin fine di sensazioni che provano tutti: ecco perché mi viene poi l’ansia di non essere abbastanza originale».

Però, come si diceva prima, da quello che è il contesto specifico del rap un po’ ti stai staccando, differenziando. E lo sai, ne sei consapevole. Sai di essere sempre più particolare e, quindi, originale. «Mi sento sempre in connessione rispetto alla scena, e pezzi rap da battaglia – come Opss in questo disco – credo non mancheranno mai, mi diverto ancora troppo a farli. Ma sto anche esplorando un uso diverso della parola, sto imparando ad essere sempre più essenziale e, credimi, è una continua scoperta: è una grande soddisfazione riuscire ad esprimere intensità e sensazioni selezionando bene le cose da dire, riducendole al minimo. Poi guarda, in generale giocare con le parole è bellissimo, è una cosa che tra l’altro fanno spesso gli innamorati, ci hai fatto caso? L’ho sempre fatto fin da ragazzino. Ma rispetto a prima ora ho capito che ci puoi giocare anche se ne usi poche, anzi, può diventare una sfida ancora più interessante. Ma la vera sfida, la sfida più importante, è essere al 100% responsabili di quello che si dice».

Cioè? «Vedo un sacco di dolore e di sofferenza, in giro. E li faccio miei. Non so per quale motivo preciso, se lo faccio per istinto di sopravvivenza o per meccanismi fisiologici naturali di difesa, ma mi prendo a cuore le cose, sì. Sento la responsabilità di quello che dico». Dolore, sofferenza, disagio, responsabilità: ad averti qui davanti sembri al 100% sincero quando ne parli, ma permettimi una domanda – non c’è il rischio che tutto questo venga invece visto come una astuta leva di marketing? «Secondo me no, ma devo dire che su questo non mi sono mai fatto tante paranoie. Perché è troppo importante la gratitudine verso il tipo di viaggio che ho intrapreso. Sai, anche se in questo periodo mi sono successe tante cose per cui non sto bene, rispetto al passato ho imparato a reagire molto meglio. Un tempo ero molto più depresso quando le cose giravano male, ora invece sono molto più reattivo. Però fammi dire una cosa». Vai. «Non voglio essere il Cristo in croce della situazione: lì c’è una forma di narcisismo, è come dire “Ecco vorrei salvare il mondo ma non me lo fanno fare”. Non voglio questo. Bisogna ridimensionare il proprio ego. Io sono speciale. Ma ognuno di noi lo è. Quindi, a ognuno il suo». E poi dai, ora che Doom è fuori sarai almeno un po’ contento, no? «Vediamo cosa succede nelle prossime settimane, che energie mi tornano indietro dal disco. E non sto parlando di riscontri numerici: parlo di come questo album verrà recepito. Non tanto la quantità, quanto il modo. Io ci ho messo il massimo dell’impegno. Non tutti lo fanno».

Ovvero? «Ogni tanto vedo un video o sento un featuring di qualche pezzo grosso, e lo capisco subito che è fatto con superficialità, tanto per fare. Mi incazzo tantissimo: ma non tanto perché sia un’offesa per me personalmente, quanto perché diventa l’ennesimo messaggio di quest’epoca per dire che non ce ne frega un cazzo dell’arte. Davvero. Mi fa incazzare tantissimo».

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