In una Puglia stordita dalla canicola estiva, mentre le fanfare della campagna elettorale gremivano le piazze e il virus allestiva in silenzio la propria reboante rentrée autunnale, lui e la sua crew, indifferenti all’afa, impacchettavano monumenti ai caduti e agghindavano madonne pagane attrezzando le riprese del videoclip per il nuovo singolo.
Lui è il rapper trentaduenne Mouri, al secolo Carlalberto Duggento, e la sua è la storia di come si possa vivere e resistere nel più fondo tacco d’Italia raccontando il disagio (di una terra, di una generazione) col sorriso sulle labbra, facendo musica sulle macerie senza tradire, o tradirsi, quanto mai arrendersi.
Lo incontro di persona tra le viuzze del vecchio ghetto ebraico del paese in cui sta, Manduria, e se d’acchito l’impressione è quella di un performer spudoratamente conforme allo stereotipo del rapper tutto dissing e braccia screziate di geroglifici, basta invece che apra bocca per scoprire che Mouri è quel genere di artista fieramente provinciale e scevro da ogni etichetta che solo la desolazione cupa ma ammaliante di certi posti ai piedi di Cristo può forgiare, uno di quei sognatori indomiti cresciuto a pane e freestyle sui palchi più fetidi dello Stivale (collezionando però featuring solo coi numeri uno), capace di parlare per ore della compattezza stilistica di Kendrick Lamar o dell’effetto catartico delle strofe di Anderson .Paak, ma sempre in prima linea quando si tratta di incontrare i ragazzi a scuola o di portare la propria testimonianza in pubblici eventi. Un puro, in qualche maniera, che della musica in versi ha fatto una bandiera di vita rivendicando con forza il potere salvifico della parola.
Con Che peccato, questo il titolo del pezzo pubblicato in ottobre grazie alla complicità del produttore Ferdinando Arnò (non uno qualsiasi: sua la firma dietro i successi di gente come Malika Ayane o Raphael Gualazzi), il rapper ha messo a segno un esemplificativo racconto a 140 bpm sulla difficoltà di esprimere il proprio potenziale quando si vive ai margini, ma anche un brano in grado di inneggiare sottotraccia, in specie nel toccante feat della newyorcheese Precious, a una sorta di orgogliosa, salubre “renaissance” che parte dal basso, dalla semplice bellezza dell’arte: una rivincita espressa non a caso attraverso le immagini di un video girato interamente nella sua città natale, Manduria appunto, epitome perfetta di tutto ciò che di incantevole e al contempo di terribile il nostro Meridione riesce a esprimere: borgo magnifico, dotato di uno dei più grandi parchi archeologici d’Italia, di una plenitudine di ricchezze architettoniche e in più patria di uno dei vini più à la page del momento (il Primitivo), la città è anche un Comune appena passato sotto le forche caudine di tre anni di commissariamento per mafia nonché il teatro di uno dei casi di cronaca più ignobili e rivoltanti dell’ultimo decennio (l’omicidio del povero Antonio Stano per mano della cosiddetta Setta degli Orfanelli). Ubicata al centro di un ideale triangolo tra Taranto, Brindisi e Lecce, in una fetta di Salento decisamente più in ombra rispetto a quello dei resort di lusso e delle vacanze da sogno, Manduria attraverso la sua faticosa storia recente di cadute e resilienza sembra poter rappresentare, almeno in potenza, un possibile riscatto per quel Sud perennemente irrisolto eppur vivissimo, comunque invitto, anche quando pare destinato a restare al palo: qualcosa che la luce accesa dal lavoro di talenti giovani e testardi come Mouri contribuisce a rendere più nitido, concreto, e magari duraturo.
Pensato in concomitanza dell’arrangiamento del pezzo, quasi ne fosse una propaggine piuttosto che un semplice veicolo promozionale, il videoclip, ispirato in parte alle opere di Christo e sospeso tra suggestioni oniriche e sequenze di vibrante energia cinetica, colpisce per il nitore dei simboli: «racconta lo stento esistenziale di chi cresce sentendosi condannato ad un’arretratezza atavica, come se un peccato più grande di quello originale gli facesse da zavorra», mi spiega Mouri col sorriso risoluto di chi per anni ha vissuto da randagio prima di decidere, al pari di frotte di suoi coetanei, di fare ritorno a casa e affrontare di petto il nulla che divora ogni ambizione. «È di questo che parla il brano, dei tiranti che ci legano a terra, che piombano i destini», continua, simulando con le mani la posizione degli inquietanti prigioni avvolti tra le lenzuola che affollano il girato (doveroso, a questo proposito, citare lo staff tecnico tutto rigorosamente autoctono composto da Mirko Dilorenzo in cabina di regia, la Aps Cinemetic alla produzione esecutiva e la sentita partecipazione di una ridda di attori locali, valga per tutti la prova di Sandra Caraglia, nel video intabarrata come una novella Sharbat Gula in uno spesso velo porpora). «Abbiamo compensato con la passione la sobrietà di mezzi con cui è stato realizzato», precisa il rapper tutto orgoglioso, sottolineando quanto – a riprova dell’azione trainante di siffatte operazioni culturali – l’intero paese sia stato coinvolto in questo progetto audiovisivo che ha rastrellato sul posto maestranze di ogni tipo: musicisti, attrezzisti, comparse.
«Non potrei vivere altrove», conclude Mouri congedandomi con alle spalle lo struggente crepuscolo urbano di Manduria esattamente come fa in chiusura del video, «amo questo luogo perché mi permette di confrontarmi ogni giorno con le mie paure più intime: qui non te la puoi raccontare, ti svegli la mattina e devi fare il tuo, essere sincero con te e con chi ti sta attorno, altrimenti ti perdi, e in quattro e quattr’otto sei costretto a non incrociare più il tuo sguardo nello specchio!».