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Nayt: «La voglia di rivalsa non basta più»

La necessità di porsi obiettivi "sani". L'hip hop come cultura dominante. I ragazzini che si sfogano su internet. L'emo trap. Gli estremi esplorati nel nuovo album 'Mood'. Parla il futuro, anzi il presente del rap italiano

Foto press

Tra i tanti nomi citati come il futuro del rap italiano, negli ultimi anni, quello di Nayt ricorreva sempre con una certa frequenza. Classe 1994, romano, fin dal 2015 si è fatto notare con una trilogia di mixtape dal titolo Raptus (il cui terzo capitolo, uscito nel 2019, ha totalizzato oltre 100 milioni di streaming), che si è fatta apprezzare non solo dai suoi coetanei, ma anche da colleghi ben più navigati di lui, per la sua ottima padronanza della tecnica, e da chi il rap non lo ascolta proprio, per la grande espressività melodica.

Il suo nuovo lavoro Mood, però, ha ben poco dei precedenti mixtape. Si tratta infatti di una sorta di concept album basato su due colori primari, il rosso e il blu, a rappresentare due stati d’animo prevalenti: la rabbia e l’incisività del rap “alla vecchia” e l’introspezione e la riflessione delle nuove tendenze provenienti da oltreoceano, come l’emo-trap. A tratti le tracce che lo compongono sembrano quasi provenire da due dischi diversi, ma nonostante le premesse molto ambiziose il risultato è sorprendentemente coeso, piacevole, convincente, a tratti quasi commovente. E a chiacchierarci per una mezz’ora si capisce anche perché: è un lavoro che è frutto di un lungo ragionamento, e di una lunga esplorazione dei suoi sentimenti attuali.

Perché un album fatto di opposti che si conciliano?
Un tempo era meno accettato dal pubblico del rap il voler mescolare le mie due anime, così cercavo di fare tutto di getto, di non pensare troppo. Stavolta, invece, stavo affrontando una sorta di crisi – che però non è necessariamente una cosa negativa: è sintomo di movimento e crescita – e ho voluto scindere nettamente i due colori, il rosso dell’energia e il blu della malinconia, continuando però a intrecciarli.

Perfino il primo brano dell’album, Musica ovunque, è diviso in due metà…
Inizialmente erano due pezzi diversi: le prime strofe, quelle più sferzanti, avrebbero dovuto fare da intro, mentre le ultime, quelle più personali, da outro. A suggerirmi di unirle è stato 3D, il mio produttore: non volevo presentarmi in maniera troppo spaccona e nascondere i pensieri più intimi alla fine del disco. Il senso di questo progetto era proprio quello di riconciliare le due metà.

Nella parte iniziale, quella più tecnica, dici “Io non ho nessun messaggio, dico solo quello che penso”. In realtà, però, la sensazione è che l’album di messaggi ne contenga parecchi, sbaglio?
Ovviamente di messaggi ce ne sono, sì, e mi fa piacere che si noti: il senso di quella frase è che non ho la pretesa di impartire nessuna lezione.

Ci sono brani come Fuori fa paura, ad esempio, in cui ti esponi anche su temi politici e sociali, come raramente si sente fare ultimamente dai rapper della tua generazione.
È stato flusso di coscienza in cui si incastrava tutto senza che neanche dovessi sforzarmi a pensarci. E il motivo era che mi rodeva il culo, per tante cose. C’è una barra che si riferisce palesemente al caso di Silvia Romano (la cooperante italiana rapita in Kenya e rilasciata la primavera scorsa dopo quasi 500 giorni di prigionia: la barra in questione è “Salvi una persona, ti chiedono quanto è costato”, nda), perché è un avvenimento che mi ha toccato parecchio. Era un periodo di lockdown, quindi passavo molto più tempo del normale sui social, e quell’accanimento orrendo sul web mi mandava davvero fuori di testa. Io non ne so niente di operazioni internazionali di intelligence, e da comune cittadino mi sembrava normale sentirmi felice per una bella notizia come la sua liberazione, finalmente. E invece leggere certi commenti faceva rabbrividire.

Spesso quegli stessi commenti compaiono anche sotto ai post di tanti altri tuoi colleghi, che ribadiscono che il rap è da sempre antirazzista e non si può votare Salvini e ascoltare canzoni che rivendicano i valori opposti. Cosa ne pensi di tutto ciò?
Il rap è diventato una puttana, scusa il termine. Siamo arrivati a un punto in cui è diventato cultura dominante, è il nuovo pop, e tutti se ne sentono parte. Il pubblico ovviamente non è più così consapevole, perché non è più quello di prima, è molto più ampio. E anche il web è lo specchio dei tempi: le persone più intelligenti, quelle con valori più saldi, spesso sono quelle che si espongono di meno sui social. Né a me, né a nessuno dei miei amici verrebbe in mente di lasciare commenti maligni sotto i post di qualcuno: quelli che lo fanno sono in gran parte ragazzini, o persone frustrate e smarrite. So che quello che dico potrebbe ritorcermisi contro, ma è così.

A proposito di smarrimento, in vari brani (e in particolare in Blocco dello scrittore) fai riferimento al fatto che, dopo che il successo ti ha travolto, hai fatto molta fatica a trovare la tua strada e a ricominciare a scrivere…
Sì, è stato un momento davvero difficile. Fin dall’infanzia sono sempre stato mosso dalla voglia di rivalsa e di rivincita dopo una vita non semplice, con una situazione familiare ed economica molto complicata. Quando finalmente ho raggiunto i sogni idealizzati che inseguivo fin da ragazzino, mi sono reso conto che la felicità non stava in quello. So che sembra un po’ un cliché: molti artisti ci marciano e diventa solo un modo diverso per farsi figo, ma ho cercato di andare oltre e scavare più a fondo, cercando le vere motivazioni che stavano dietro a questo disagio. Io lavoro molto su me stesso, sono in terapia da quattro anni e continuo ad analizzarmi e a pormi domande. Negli anni ho capito che il successo deve arrivare per forza a corredo di obiettivi più sani, come creare, condividere, donare. Voglio sfruttare quello che faccio per far sentire bene chi mi ascolta, prima ancora che per sentirmi bene io.

Mettendola però molto sul personale. Nei vari brani racconti degli episodi molto precisi e molto pesanti della tua crescita, senza usare troppe metafore o giri di parole: di quando vivevate in quattro in un monolocale, di tuo padre assente, dei tre fratelli che non conosci neppure, dei problemi di rabbia…
Fino a un anno fa ho passato un lungo periodo di grande insicurezza, non riuscivo mai a prendere una decisione in maniera sana e convinta. Alla fine mi sono detto «Basta mezze misure», e quei testi arrivano da lì.

In questo ultimo anno hai anche scritto un’autobiografia, Non voglio fare cose normali, in cui racconti il tuo passato. Com’è stato scrivere un libro?
Un’esperienza molto forte e in cui ho imparato moltissimo, ma l’ho vissuto un po’ come un test: spero di riuscire a scriverne molti altri in futuro. L’ho fatto per introdurre meglio Mood, che è un album molto più personale e maturo rispetto ai miei lavori passati. Spero che un giorno riuscirò a esprimermi meglio anche con la parola scritta: la quarantena mi ha aiutato a concentrarmi, e mi ha anche spinto a leggere parecchio, soprattutto libri di psicologia, che è un argomento che mi interessa molto, e i grandi classici, visto che non ho mai avuto occasione di farlo.

Tornando all’album, la parte più introspettiva ha un sound che richiama molto alla emo-trap americana.
Da ascoltatore non mi pongo paletti, ma in effetti XXXTentación, che è considerato il più forte artista in quell’ambito, era forse il più grande della sua generazione, a livello di sonorità e di poetica. Se non fosse morto così giovane, chissà cosa avrebbe potuto fare. Sicuramente mi ha ispirato tantissimo. Ma adoro anche Kendrick Lamar, J Cole, Roddy Rich, Kanye West e tanti altri. In studio ho lavorato insieme a 3D e Walter Babbini, un altro nostro collaboratore: abbiamo passato il tempo gomito a gomito in studio, e sono stato coinvolto in ogni aspetto dell’arrangiamento. Credo che questo, anche a livello melodico, si senta molto: c’è stata una cura, rispetto a quell’aspetto, che in Italia ancora non si sente tanto. Nonostante io sia un rapper, spesso curo la musica più ancora di quanto curo i testi, anche perché altrimenti scriverei solo libri.

Come ci si sente ad uscire in un periodo del genere?
Per fortuna il mio non è un album che si balla nei club, o da mettere in macchina con gli amici mentre si esce. Spero che quindi la gente abbia occasione di ascoltarlo in profondità, in questo momento. E vorrei creare delle esperienze diverse intorno alla mia musica: Covid permettendo, spero di riuscire a concretizzare i miei progetti nei prossimi mesi.

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