Nava: «Per far musica ho lasciato Teheran per Milano» | Rolling Stone Italia
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Nava: «Per far musica ho lasciato Teheran per Milano»

Il viaggio che l'ha portata dall'Iran in Italia, l'alter ego «che si esibisce al posto mio», la trilogia di EP inaugurata da 'Nafas', il pop sperimentale: intervista a un'artista unica in Italia

Nava: «Per far musica ho lasciato Teheran per Milano»

Nava

Foto: Matteo Scrocchia e Marco Servina

Se all’estero ci sono innumerevoli esempi di progetti artistici in cui il lato visivo/estetico e quello musicale si sposano alla perfezione – anzi, sono parte integrante l’uno dell’altro – in Italia è più raro trovare quel tipo di cura per il dettaglio. Non a caso, forse, uno dei pochi progetti di questo genere è germogliato qui, ma la sua artefice arriva da molto più lontano: Nava Golchini, cantautrice nata a Teheran e trapiantata a Milano.

Si fa chiamare semplicemente Nava, e nonostante il suo sia un esordio piuttosto recente (la primissima esibizione risale al 2019 sul palco del MiAmi) si è già fatta notare con diversi EP e in occasione di X Factor 2021, dove ha ricevuto quattro sì dai giudici grazie al suo inedito Sarabe. Sul palco, nei video e nelle immagini che accompagnano l’uscita dei brani, Nava appare come una sorta di guerriera-odalisca del 2350, eterea e inossidabile. «Ho creato una specie di alter ego artistico, una creatura che ha una vita a sé e si esibisce al posto mio», spiega in un ottimo italiano. «È in continua metamorfosi, anche se la sua essenza resta sempre uguale. Sono stata molto fortunata a trovare Matteo Strocchia e Marco Servina, i due ragazzi che curano tutti i miei visual. Mi hanno aiutato a creare un mondo che si riflette anche nei video, nelle foto, nelle performance dal vivo».

Il primo risultato di questo sodalizio è l’ottimo visual EP Bloom, del 2021; da poco, però, Nava ne ha pubblicato un altro, il primo di una trilogia. Si intitola Nafas, una parola che in farsi (la lingua parlata in Iran) significa letteralmente “respiro”. «Sono arrivata a Milano a 17 anni», racconta lei. «Sapevo di non voler fare l’università a Teheran perché già avevo un lato artistico molto sviluppato, e lì per le donne non ci sono le opportunità che potevo avere qui. I miei genitori hanno supportato me e mia sorella in questo. Da noi di solito la famiglia ti spinge a diventare medico o ingegnere, a volte avvocato, ma per fortuna ci hanno dato la possibilità di capire cosa avremmo voluto fare davvero». All’inizio rimanere a Milano non era nei suoi piani: «Doveva essere solo una tappa verso l’America, dove vivono diversi miei parenti, ma più passavano gli anni e più mi trovavo bene, così non me ne sono più andata. È una città che a volte amo e a volte mi sta davvero stretta, come se fosse un piccolo villaggio, però ha i suoi innegabili pregi».

Per Nava l’incontro con la musica avviene proprio in Italia, ed è quasi casuale. «Arrivata qui dovevo trovarmi qualcosa da fare per l’università, perché con i miei genitori c’era l’accordo che un pezzo di carta lo avrei dovuto prendere. In metropolitana avevo visto la locandina di un’accademia di musica, e i nomi dei corsi erano tutti in inglese. Io ancora non parlavo l’italiano, così ho pensato che fosse una buona idea iscrivermi, anche se di musica non mi ero mai occupata granché: facevo parte del coro della scuola quando ero piccola, ma la cosa finiva lì».

Anche in questo caso doveva essere solo una tappa del viaggio, ma le si apre un mondo, letteralmente e in senso figurato. A scuola conosce un gruppo di produttori, strumentisti e compositori che faranno parecchia strada nel panorama nazionale: i fratelli Marco e Francesco Fugazza ed Elia Pastori, tutti collaboratori di Mahmood, tra le altre cose. «Ai tempi erano semplicemente dei ragazzi che frequentavano i corsi con me: ci accompagnavamo agli esami, studiavamo insieme, sperimentavamo. Eravamo giovanissimi, nessuno di noi faceva canzoni per lavoro».

Quella sperimentazione la guida su un percorso sempre più singolare e originale, paradossalmente anche per via di alcuni problemi di voce che la costringono a un lungo silenzio. «Credo che mi abbia aiutato, perché dal silenzio ho scoperto di possedere qualcosa che non sapevo neanche di avere», dice Nava. «Avevo sempre scritto poesie, ma in quel periodo ho cominciato a scrivere anche canzoni, abbozzando le linee melodiche che poi sviluppavo con i ragazzi». La sua musica diventa una sorta di elettronica avanguardista e sofisticata, che tra i riferimenti cita Apparat, Burial, Arca e Sevdaliza. «Sono cresciuta con il pop più classico che ascoltavano i miei genitori, dagli ABBA in giù, ma sono sempre stata molto curiosa. Non mi sono mai posta dei limiti, provavo a fare musica e veniva fuori questo suono molto particolare, un miscuglio tra dark e tribale: non so da dove mi sia uscito fuori, se devo essere onesta».

Foto: Matteo Scrocchia e Marco Servina

Nell’ultimo EP Nafas il tema centrale è la sperimentazione del linguaggio, tant’è che canta in tre lingue, italiano, inglese e persiano. È il primo capitolo di una trilogia che verrà portata a compimento il prossimo inverno: Nava è attualmente in studio per registrare i prossimi capitoli. «Non volevo fare un album, perché non volevo che ci fossero pezzi minori: temevo non avrebbero ricevuto la stessa attenzione dei singoli principali. Così ho pensato di dividere il mio lavoro in tre EP, con tre temi specifici».

A Nafas ha lavorato con diversi produttori, tra cui l’italo-siriano Gadi Sassoon («L’ho conosciuto tramite la mia casa discografica, Oyez, che ci ha abbinati per una session. È un artista super completo, ed è molto vicino al mio mondo, visto che anche lui è influenzato da un misto tra culture diverse: con lui passo pomeriggi interi semplicemente ad ascoltare dischi»), l’italiano di stanza a Madrid Bawrut («Abbiamo cominciato a collaborare per Bloom, l’EP che ho pubblicato durante la pandemia: avevamo lavorato a distanza, ma parlavamo di tutto, dalla musica alla ricetta del babaganoush, e ci siamo davvero trovati») e il giovanissimo Giumo («Ha una creatività pazzesca: ricordo che una volta abbiamo trasformato il rumore delle sedie e dei tavoli che i suoi vicini di sopra stavano spostando in synth e pad da utilizzare per una produzione»).

Quello che era un gioco si è ormai trasformato in un lavoro vero e proprio: e dire che da giovane Nava si immaginava di fare l’attivista animalista e ambientale, in prima linea per salvare il pianeta. «A dire il vero salvare il pianeta è ancora nelle mie ambizioni, ma vorrei farlo un po’ alla maniera di Leonardo DiCaprio, che sfrutta la sua fama per sensibilizzare più persone possibile», ride. Chissà che non ci scappi un EP a tema.

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