Nancy Sinatra: «Grazie a Lana Del Rey la gente ricorda le mie canzoni» | Rolling Stone Italia
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Nancy Sinatra: «Grazie a Lana Del Rey la gente ricorda le mie canzoni»

Pochi giorni prima della pubblicazione dell'antologia 'Start Walkin' 1965-1976' la regina del pop anni '60 racconta l’incontro con Hazlewood, la scoperta della minigonna, l’attivismo, il rapporto col padre

Nancy Sinatra: «Grazie a Lana Del Rey la gente ricorda le mie canzoni»

Nancy Sinatra

Foto Ron Joy/Light in the Attic

Nancy Sinatra non aveva intenzione di ricantare le sue vecchie hit. Dopo aver dominato la scena pop anni ’60 con classici come These Boots Are Made for Walkin’ e Bang Bang, ha lasciato l’industria discografica per dedicarsi ai suoi figli e all’attivismo sociale. All’inizio degli anni 2000 ha smesso di andare in tour, ma qualche volta è tornata in studio di registrazione. «Non avevo un agente, non c’era chi mi promuoveva», dice. «E ne hai bisogno se sei un’artista che è stata famosa in passato. Serve qualcuno che ti rappresenti, che organizzi le cose. Io quella figura non l’avevo. E così, col passare degli anni, la mia popolarità è andata esaurendosi».

Adesso che ha 80 anni, però, Nancy Sinatra ha qualcuno che si occupa di lei: la figlia Amanda Erlinger, che ha proposto alla madre di mettere in piedi un’antologia dei pezzi pubblicati a partire da metà degli anni ’60, quando è uscita dall’ombra del padre Frank con These Boots Are Made for Walkin’. Era una delle tante canzoni brillanti scritte con Lee Hazlewood – tra cui Some Velvet Morning e You Only Live Twice – che hanno influenzato chiunque, dai Sonic Youth a Lana Del Rey. La nuova raccolta, intitolata Star Walkin’ 1965-1976 e in uscita il 5 febbraio, è l’inizio di un’operazione che durerà tutto l’anno. È organizzata dall’etichetta Light in the Attic che si occuperà anche delle ristampe di Boots (1966) e Nancy & Lee (1968).

«Non so cosa le sia passato per la testa», dice Nancy della figlia. «Voleva portare a casa a tutti i costi questo progetto, dio la benedica. È eccitante. È bello sapere che almeno parte del mio lavoro non sparirà nel nulla».

Abbiamo parlato con Sinatra, collegata dalla sua casa a Palm Springs. Passa il tempo su Twitter, dove attacca Trump e supporta i sindacati. «È un bel modo per trovare altra gente con cui commiserarsi», dice. «È un sollievo sapere che là fuori ci sono altre persone come me».

Qual è il tuo primo ricordo su un palco? 

Probabilmente avevo 18 anni, ero all’Ed Sullivan Show. Ho cantato una canzone di Shirley Temple con un grosso cappello di paglia. Indossavo una salopette. Avevo i capelli scuri. È stato orribile. Era in diretta di fronte a milioni di persone. Ero fuori di testa.

Illustrazione: Mark Summers per Rolling Stone US

Com’è che poi hai lavorato a musica diversa, a canzoni psichedeliche e non proprio solari? 
Dico sempre che in quel periodo ero Nancy la brava ragazza. Quelle canzoni erano prodotte da Tutti Camarata, che aveva già lavorato ai dischi di Annette Funicello. I primi pezzi hanno venduto abbastanza da farmi restare nell’etichetta. Poi non vendevano più, rischiavo di essere scaricata, e mi hanno detto: «Sai che c’è? Lavorerai con Lee Hazlewood».

Lui ha cambiato tutto. Faceva finta di essere un bifolco, un ignorante, ma in realtà aveva studiato molto. Era un veterano dell’esercito. Una persona di mondo che sapeva quello che stava facendo. Nei miei dischi tirava fuori quello che definiva il dumb sound. Dumb stava per semplice, non complicato. Consisteva nella sezione ritmica, basso e batteria, e tre chitarre. E ogni cosa è cambiata per me.

Ha scritto These Boots Are Made for Walkin’. È vero che doveva cantarla lui, all’inizio? 

È vero. E io gli ho detto la verità: farla cantare a un uomo non era granché, suonava male, quella era una canzone da dare a una ragazza. Lui ha capito che avevo ragione.



Il tuo stile, con la minigonna e il maglione, è diventato incredibilmente influente. Com’è nato? 

Durante un viaggio a Londra. Sono andata a Carnaby Street, all’epoca era lì che si faceva shopping, e c’era un negozio che si chiamava Mary Quant. È lì che ho visto le prime minigonne. Non mi era mai capitato. Negli Stati Uniti non c’era niente del genere. E sapevo che sarebbero andate di moda. Io non avevo vestiti del genere, usavo solo lunghi maglioni. Nel video di Boots c’è il mio primo tentativo. Anche nella copertina di How Does That Grab You? avevo un maglione lungo. È diventato abbastanza iconico. Credo che fosse perché erano diversi, osavano, e si avvicinavano a quella che sarebbe diventata la minigonna.

Era un bello stile, ma nato per caso. Se devo dare un merito al mio istinto, è solo di avermi fatto capire che le minigonne sarebbero durate per sempre. Insomma, non sono mai passate di moda.

Foto: Ron Joy/Light in the Attic

Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto all’inizio della tua carriera? 

Beh, mio padre era uno bravo, sai? Mi ha consigliato di possedere i miei master. Ha fondato la Reprise, la sua etichetta, perché con la Capitol non poteva farlo. E ha fatto in modo che tutti gli artisti della Reprise mantenessero la proprietà dei master, dopo un certo periodo di tempo. Ho sentito che quelli di Taylor Swift sono stati venduti un’altra volta. È una vergogna. Ecco cosa direi ai giovani: non disperate, coltivate i vostri sogni e non lasciate che nessuno ve li porti via.

Nel 1968, in Speedway, hai recitato con Elvis. Com’è andata? 

Eravamo come fratello e sorella. Durante le riprese Priscilla era incinta e ho organizzato una festa per la bambina. La notte in cui è nata Lisa Marie mi ha telefonato. Ha detto che era una figlia benedetta, ma che non poteva dire lo stesso dei bambini nati nel ghetto. Era una persona sensibile, premurosa.

Foto: Ron Joy/Light in the Attic

Cosa hai imparato vedendo tuo padre esibirsi ogni sera? 

Era un genio. Se la godeva. Il pubblico si sentiva a casa. La cosa più grande che mi ha insegnato è la costanza. Si vestiva meticolosamente. Le scarpe erano sempre immacolate. Era davvero professionale.

Com’era a cena, in famiglia? 

Silenzioso. E divertente, come tutti i padri con i loro figli.

Sei sempre stata impegnata politicamente. Come sei diventata un’attivista? 

Per rabbia, direi. Ero solo arrabbiata… Negli anni ’60 si parlava molto della guerra in Vietnam, ha avuto un effetto su tutti quelli che conoscevo. Dovevi prendere posizione. Mi sembra che oggi la gente sia appassionata come in quel periodo. Il movimento Black Lives Matter è fantastico. È anche purificante: la voce della gente dev’essere ascoltata, altrimenti si va fuori di testa. Non poter esprimere i propri sentimenti è orribile, non credi?

Cosa hai pensato quando Lana Del Rey ha detto di voler diventare «la Nancy Sinatra gangster»? 

È un amore. Non l’ho mai incontrata, ma quello che ha detto è stato un bel regalo, ha riportato la mia musica al centro dell’attenzione.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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