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Nada, la bambina che non voleva cantare si è liberata scrivendo

Questa sera va in onda il biopic che racconta la sua infanzia difficile e il successo a Sanremo a 15 anni. Le abbiamo chiesto del rapporto con la madre, come ha trovato la gioia di fare musica, cosa la emoziona oggi

Foto: Max Intrisano

Si chiama La bambina che non voleva cantare il biopic oggi in prima serata su Rai 1 che racconta l’infanzia di Nada, dagli inizi in Toscana al successo – ad appena 15 anni – con Ma che freddo fa, a Sanremo 1969. Si chiama così, e mica poteva poi essere altrimenti: la protagonista (interpretata da bambina da Giulietta Rebeggiani, da adolescente da Tecla Insolia) da piccola detestava esibirsi in pubblico e controvoglia andava a lezione di canto (nel ruolo del maestro: Paolo Calabresi), solo per far contenta la madre (Carolina Crescentini) che soffriva di depressione e che, dopo aver notato il talento della figlia, la spingeva a fare musica per garantirle un futuro migliore.

Ma Nada è stata a lungo popstar riluttante, e il film – con la regia di Costanza Quatriglio – racconta appunto solo una parte della vita: quella della fama precoce, da interprete di pezzi scritti da altri, ragazzina che da un paesino della Toscana scopre il mondo. Una stagione, insomma, da giovane stella della tv, con hit leggere e un percorso in cui comandano soprattutto i discografici. Perlomeno finché non è lei stessa a fare a pezzi il successo, con un disco tutt’altro che commerciale come Ho scoperto che esisto anch’io (1973), con Piero Ciampi come autore. Poi tornerà al pop, sì, ma con nuova consapevolezza e firmandosi i testi (le parole dell’immortale Amore disperato sono sue), per aprirsi infine alla musica d’autore.

Lì si è costruita una credibilità, ha lanciato gente come Motta e Zen Circus, ha collaborato col gotha dell’alternative (Massimo Zamboni, John Parish) e composto pezzi incredibili e dalla schiena dritta, come quella Senza un perché che nel 2016 è finita in The Young Pope di Paolo Sorrentino, o tipo gli episodi dell’ultimo È un momento difficile, tesoro (2019). Ah, e – appunto – si è ritrovata con un biopic in prima serata su Rai 1. «Ma tutto parte da Il mio cuore umano», puntualizza subito lei, riferendosi alla autobiografia (uscita per Blu Atlantide) da cui è liberamente tratto il biopic in questione. Sorride, minimizza. «Non è che hanno raccontato la mia infanzia perché è la mia; si sono ispirati al libro e, soprattutto, alla storia e ai valori che contiene».

Però: che effetto fa “vederti” sullo schermo?
La regista ha fatto un lavoro bellissimo soprattutto dal punto di vista umano, cogliendo le emozioni. A un certo punto mi sono quasi dimenticata che quella fossi io (ride). Quella storia è mia, certo, ma può riguardare tutti. Va oltre l’autobiografia, parla di sentimenti. Le dinamiche umane sono sempre quelle, ti appartengono.

Tecla Insolia nella parte di Nada a Sanremo 1969 in ‘La bambina che non voleva cantare’

Come mai hai sentito il bisogno di scrivere questa autobiografia?
Perché quando ho lasciato il paese in cui sono nata, ho continuato a sentirlo vivo dentro di me. Le radici sono forti, non lo nascondo. E volevo dare testimonianza di quel mondo lì, della Toscana dell’epoca, il cui ricordo mi ha aiutato a superare momenti difficili. Specie ripensando alle donne con cui sono cresciuta.

Infatti è un libro a trazione femminile: banalmente tu, ma appunto anche tua madre o la suora che ti ha scoperta come cantante.
Donne forti che ne hanno passate tante, guerra compresa. Il loro vissuto mi ha sempre aiutato: ripensando alle loro fatiche sono riuscita a ridimensionare molti ostacoli che ho affrontato nella mia carriera di cantante e, in generale, nel mio quotidiano. Mi hanno tenuta coi piedi per terra. E la mia identità ne ha risentito.

E quando hai finito di scrivere, come ti sei sentita?
Volevo bruciare il libro (ride)! Per fortuna chi mi sta vicino l’ha protetto e mi ha spinto a proporlo in giro. L’ho fatto leggere a Mario Monicelli, che voleva farne un film; è venuto alla presentazione, ma purtroppo non era più nelle condizioni di girare. In compenso ho conosciuto Costanza Quatriglio, che si è appassionata alla storia; ne ha fatto un documentario (presentato a Locarno nel 2009, nda) e poi, adesso, questo film. Nel frattempo siamo anche diventate amiche. Se l’è coccolato a lungo, questo progetto; perché è convinta anche lei che sia una storia universale.

Ecco: quali valori racconta? A me sembra un romanzo di formazione.
Anche a me. È la storia di una bambina che si guarda intorno fra ansia e timori. E di adulti che non le danno troppo ascolto, come succede di solito, perché sono distratti da altro, dai problemi delle loro vite.

Magari sottovalutano persino i bambini.
Dicono: va bene, poi ci pensiamo. Ma sono cose che ti rimangono. Qui, nello specifico, c’è una bambina che si presta alle attenzioni degli adulti e degli adulti che non si prestano alle sue.

Hai cominciato a cantare perché lo voleva tua madre. Che rapporto ha determinato, questo, fra voi?
È stato un grande d’amore, eravamo l’una dipendente dell’altra. E, come in tutti i rapporti di questo tipo, ci sono stati momenti brutti. Fa parte della natura delle cose, ma l’ho capito solo col tempo. Lei soffriva di depressione, certo, quindi non è stato il classico madre-figlia. Però al tempo stesso non so se, senza la sua spinta, sarei arrivata alla musica. Magari molto più tardi, non so. Per questo le sono grata: mi sento una privilegiata a fare questo mestiere. A una certa gliel’ho anche detto, che ero felice. Solo che a quel punto, dopo la mia crescita e le difficoltà, era lei a non esserlo più. Quasi si era pentita. Parlava da madre.

Nel tuo ultimo disco, È un momento difficile, tesoro, c’è un pezzo (O madre) che descrive un rapporto finalmente sereno, da parte tua, con il ruolo della madre.
C’è un brano dedicato alla “madre” in ogni mio album, e il primo libro che ho scritto si intitola Le mie madri. E te lo dico: non è che mi metto sul tavolo e penso “adesso scrivo una canzone su mia madre”; sono semplicemente cose che uno si porta dentro e che poi escono fuori. Con O madre mi sono sentita come se avessi accettato tutto e perdonato tutto: gli errori sono inevitabili.

Per amore se ne commettono parecchi.
Esatto, la canzone parla dell’accettazione di quello. Di come mi sia finalmente presa carico di tutto: del bene, e del male. Tant’è che nel prossimo disco, che ho finito da scrivere da poco, per la prima volta non ci sarà un pezzo sulla “madre”. Non so se si è chiuso un cerchio, magari il sentimento tornerà quando meno me lo aspetto. Ma per ora mi sento così.

Quand’è che fare musica non è più stato un peso?
Quando ho iniziato a scrivere in prima persona. Prima i testi, tra cui quello di Amore disperato, e poi le musiche, dagli anni ’90 in poi. Ho imparato un po’ di chitarra, ho iniziato a comporre perché volevo che le parole fossero unite alla musica. E mi si è aperto un mondo, ho potuto dare forma alla musica attraverso la mia persona. La canzone d’autore è libertà: ogni parola mi riguarda, la scelgo io. Poi, certo, quando ho cominciato ero piccola: ci ho messo tempo per prendere coscienza di cosa fossero davvero la musica e la scrittura.

Cosa ti emoziona, oggi, dopo quarant’anni di attività?
“Quarant’anni di attività” sono solo parole. Ogni volta che scrivo è la prima. Un disco ti fotografa in un determinato momento, ti racconta. E il momento è sempre diverso. Di talento, che è una dote naturale, hanno sempre parlato gli altri (ride). Io non so dirtelo, se ce l’ho. Posso dirti che sento il desiderio di fare, di applicarmi. Come un lavoro: da una certa ora a una certa ora, registro; poi ascolto. A volte non viene fuori niente, a volte tutto. Questione di allenamento e ispirazione. Ci si lavora sopra, eh. Ma lo si fa volentieri.

Sei serena, insomma. Quel primo Sanremo da quindicenne, invece, l’avevi vissuto male.
Ti prego, non parliamone anche stavolta. Non diciamo le solite cose, ho già detto tutto quello che c’era da dire.

Bene, allora parliamo di canzone d’autore, parliamo di Piero Ciampi. Non l’abbiamo ancora riscoperto abbastanza?
In parte, è un processo che è avvenuto negli ultimi anni. Però va detto che non è facile da riscoprire. Era un poeta, uno scrittore meraviglioso. Vero, diretto, disperato. Non nascondeva niente. E anche per questo non gli è stato facile trovare spazio. Per me è stato un aiuto, una scoperta. L’ho sempre difeso anche quando tutti mi davano della pazza perché ci collaboravo: «ma come? Una famosa come te che va con un pazzo del genere?». Il tempo mi ha dato ragione. Non che adesso sia popolare, eh. Ma almeno il suo valore è riconosciuto. Una volta, dopo un concerto a un festival rock di Torino, dei ragazzi mi chiesero di cantare un suo pezzo. Io non ce l’avevo neanche in repertorio, figurati. Mi hanno sorpreso. L’ho fatto a cappella, è la prova che è arrivato alle nuove generazioni.

Mi sembra, ascoltandoti raccontare la vostra collaborazione, che per te il successo sia sempre stato solo un accessorio.
Il successo è importante, ma dipende che valore gli dai. Il successo per il successo, esserci per esserci, non mi riguarda. Quando scrivo lo faccio per una mia esigenza. Certo sono cosciente che poi quello che compongono potrebbe arrivare a tutti: ne sono contenta, ma ecco, non ne tengo conto mentre scrivo. Ne tengo conto, in parte, dopo semmai. Ti faccio un esempio: Senza un perché uscì nel 2004, e per me era meravigliosa tanto che la scelsi come singolo. Era leggera ma con “sostanza” dentro. Be’: nessuno se ne accorse, non fu recepita, e mi dispiacque. Poi dopo anni è stata riscoperta (con la colonna sonora di The Young Pope di Paolo Sorrentino).

Il tempo fa giustizia.
E a volte il pubblico non è pronto. Ma non è colpa sua, né degli stereotipi. La gente non ti mette le etichette, lo vedo ai concerti. È la comunicazione, il modo di “vendere” un artista alle persone, che incasella i cantanti incidendo sul risultato finale. Bisogna parlare con chi ha il potere di fare ciò, insomma. Non solo coi discografici, è tutta la filiera della comunicazione. Non a caso Senza un perché è arrivata quando è finita dentro al film, nella comunicazione giusta.

Foto: Simone Hariel Topel

Tu sei anche una sorta di madrina per gli Zen Circus e Motta. Il futuro della musica viene sempre dal basso?
Quando li ho conosciuti erano dei ragazzi che suonavano da dio, abbiamo condiviso idee ed esperienze e tutt’ora siamo amici. E sì, c’è stato un periodo in Italia in cui la musica indipendente, quella che veniva dal basso, era davvero la novità. A oggi, però, mi sembra ci sia poca musica realmente indipendente, cioè che ha libertà di fare quello che vuole senza calcoli.

E tu, dicevamo, non ti fai molti calcoli quando scrivi.
È il bello di questo mestiere, il privilegio di poter comunicare, la condivisione. Tiro fuori quello che ho dentro, che si tratti di contenuti molto intimi o di messaggi impegnati.

Mi dicevi che hai appena finito di scrivere un disco.
Lo registrerò a Bristol quest’estate. Poi lo pubblicherò quando saremo tutti più sereni, e ci sarà un’altra atmosfera. Rispetto al passato, è un lavoro molto più suonato; certo ci saranno le parole, ma finalmente ho dato ampio spazio anche alla parte strumentale. L’ho scritto chiusa in casa, come tutti. Ma è un album pieno di speranza, e la cosa ha meravigliato anche me in effetti. Ho scavato parecchio, come sempre. E ho trovato ottimismo. Non è un disco drammatico, nonostante tutto.

Quindi sei ottimista, sul futuro.
Siamo vicini a uscirne. Ma questa pandemia è anche un po’ colpa del nostro stile di vita. Pensavamo di essere imbattibili, ma forse l’evoluzione è stata eccessiva. E le pandemia sono cicliche, lo dice la storia. Chiaro: questa è un’apocalisse. Ma ripartiremo. E ci serva da lezione: la Terra è questa, non la possiamo ingrandire, la dobbiamo proteggere; o vogliamo trasferirci tutti su Marte?

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