Musicians on Musicians: Kevin Parker & Billy Corgan | Rolling Stone Italia
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Musicians on Musicians: Kevin Parker & Billy Corgan

Prima di Tame Impala, Parker ascoltava ‘Siamese Dream’ e sognava la scena alternativa. Corgan, invece, soffriva le pressioni dell’industria. Ora entrambi guardano in una sola direzione: avanti. Qui parlano di rock e nostalgia, regole da ignorare e leadership

Kevin Parker ricorda che quand’erano bambini a Perth, in Australia il fratello maggiore ascoltava Siamese Dream degli Smashing Pumpkins. «Era un incrocio indescrivibile tra musica triste e ottimista. Tutti i miei amici ascoltavano i Rage Against the Machine. Siamese Dream era un album in cui riuscivo a perdermi, credo».

Il disco del 1993 è uno di quelli che hanno spinto Parker a iniziare a scrivere canzoni con il nome Tame Impala, un progetto solista che si è trasformato in una delle cose più grandi del rock mondiale, un mix di chitarre slabbrate, ritmi disco e grandi melodie pop. Quel successo ha fatto sì che Parker, 34 anni, diventasse un collaboratore richiestissimo da chiunque, anche Rihanna e Kendrick Lamar. Eppure non ha mai incontrato Corgan che – a quanto pare – è un fan del suo lavoro. «C’è un gran bel gusto nel modo in cui scegli i suoni o fai girare le melodie in maniera non lineare», dice a Parker. «Sono tutte scelte ponderate. È il segno che dietro c’è un buon musicista».

Corgan crede di poter spiegare come mai Siamese Dream – il secondo LP, quello della svolta per gli Smashing Pumpkins grazie a inni alternative rock come Today e Cherub Rock – abbia colpito così tanto Parker. «Ogni generazione ha un album che è un po’ un rito di passaggio», dice. «Per Gerard e Mikey Way, il migliore disco dei Pumpkins era Machina, perché era rifletteva le angosce di quei tempi, l’alba dell’era di internet. Credo che Siamese Dream sia un disco idealizzato. Dopo abbiamo esplorato ogni possibile variazione: dalla forza bruta alla pura oscurità. Ma la gente è molto attratta dall’idealismo. La cosa strana è che per farlo ci siamo quasi ammazzati».

Corgan, che oggi ha 53 anni, è su una strada tutta nuova. Ha appena pubblicato Cyr, un doppio disco con i membri fondatori dei Pumpkins James Iha e Jimmy Chamberlin collegato a una serie animata in cinque parti. «Devi sempre andare avanti», dice.

Parker: Per me la metà degli anni ’90 è l’era d’oro del rock’n’roll: quando ho iniziato a fare musica, tutto quello che volevo era far parte di quella scena romantica, grunge. È una fantasia che ho ancora.

Corgan: Non ci siamo resi conto di che epoca fantastica fosse, vivevamo l’esplosione della musica alternativa. I Cure, i Depeche Mode, gli U2, prima di noi c’erano state tante grandi band. Ma l’uscita di Nevermind ha cambiato tutto, all’improvviso il mondo era pronto ad ascoltare queste strane band. Noi eravamo ancora sani di mente, non avevamo esagerato con la droga. L’era d’oro, come dici tu, è stata dal ’91 al ’96. Poi è finita.

Parker: A volte i fan dicono: oh, quanto vorrei che tornassi a quel suono. Credo che in realtà siano innamorati del momento in cui si sono innamorati di quei dischi.

Corgan
: Io sono in un momento in cui bisogna guardarsi indietro e allo stesso tempo avanti. Devi fare tesoro dei posti in cui sei stato. So che suona un po’ rozzo, ma quando hai vissuto un certo livello di successo internazionale, sai che quella botta di dopamina è riservata a poche persone su questo pianeta. La gente mi parla di alcuni periodi della mia vita, ma per me è tutto sfocato, perché magari avevamo suonato 200 concerti. A un certo punto devi fare un passo indietro e dire: ok, cosa mi ha fatto tutto questo? Non c’è modo di tornare ad essere quello che eri, non è possibile.

Parker: È difficile apprezzare le cose a cui pensiamo con nostalgia. È assurdo, non credi?

Corgan: Amo la tua musica proprio perché celebra il presente. Io sono cresciuto, come tanti altri, ascoltando i Beatles e i Led Zeppelin. Il nostro modo di ribellarci a quelle cose era suonare tutto più forte, più veloce, con testi più strani. Poi, quando il mondo ha iniziato ad andare sempre più veloce e globalizzato ho iniziato ad ascoltare musica che non riuscivo a capire. In sostanza, musica che non è basata sulle regole del songwriting classico. Ci è voluto un po’ perché capissi che per scrivere musica oggi devi essere distaccato e più libero di come eravamo noi. La tua musica riempie un vuoto. Sento dei ritornelli che ricordano i Bee Gees.

Parker: Assolutamente!

Corgan: Noi vivevamo un mondo in cui c’erano dei confini e dovevi rispettarli. Se uscivi da quel confine ti tiravano addosso un sacco di strana merda. Noi ci dicevamo che i Beatles avevano fatto Revolution, Strawberry Fields e She Loves You. La gente va fuori di testa per farti rispettare le regole. Non so da dove venisse questa mentalità, ma direi che è finita.

Parker: Quando abbiamo firmato il primo contratto discografico, ci hanno scelto ascoltando le mie registrazioni casalinghe. Tutti i dischi che abbiamo fatto da allora erano farina del mio sacco. Ma vivevo un conflitto con quel potere, non volevo essere il capo della mia band, ma allo stesso tempo desideravo che tutto suonasse come volevo. Tu come gestisci questo ruolo?

Corgan: Come un giovane amante, avevo un’idea romantica di cosa fosse una band. Mio padre suonava in una band. Sentivo che si lamentava sempre degli altri musicisti. Non volevo una band così. Io volevo i Beatles. Socialmente eravamo come una gang. Ci muovevamo nella stessa direzione. Certo, c’erano dei segnali che dicevano che era roba mia, almeno le canzoni, ma non l’ho capito finché non abbiamo iniziato a registrare, quando produttori come Butch Big ci dicevano che dovevamo rispettare un certo standard. All’improvviso ero in prima linea, perché avevo registrato la maggior parte delle demo, come te. Gli altri mi dicevano: voglio sentire la stessa cosa che c’è sulla demo. Sono io, gli spiegavo. “E allora perché non riesci a rifarlo?”. Io dicevo che era politica da band, che non volevo ferire nessuno.

C’è questa intervista che ho abbiamo fatto con Rolling Stone nel 1993. Eravamo seduti in un bar, e il giornalista ha intervistato prima me, poi James Iha e poi D’Arcy Wretzky, che all’epoca erano una coppia turbolenta. Mentre mangiavo una zuppa, sentivo di cosa parlavano gli altri. Uno ha detto: «Oh, fa tutto lui». È stato strano, io pensavo che fossimo d’accordo nel tenere quella cosa per noi. Usavano parole come “tiranno” e “Svengali”. 

Sai, io sono cresciuto in povertà. Guardavo mio padre che suonava cinque concerti a sera, faticava, si lamentava e si è perso nella droga. Non volevo che succedesse anche a me. Avevo un’ambizione, volevo uscire da quella situazione e allo stesso tempo vivere il mio sogno. E stava funzionando. Avevamo delle hit, vendevamo tantissimo e suonavamo ai festival, ma dietro le quinte si lamentavano tutti.

Parker: Assolutamente.

Corgan: Alla fine siamo riusciti a mantenere la pace. Io ho capito in cosa ero bravo e ho smesso di scusarmi per questo.

Parker: Non è assurdo che serva così tanto equilibrio per avere armonia in una band? Noi avevamo lo stesso problema, eravamo in tre, ma ero io a scrivere la musica. Anche loro facevano interviste. E i giornalisti gli chiedevano quali fossero le loro influenze. A volte dicevano stronzate e cercavano di reggere la conversazione, altre dicevano: «Non sappiamo un cazzo, fa tutto Kevin». Quella confusione si è accumulata e poi siamo arrivati al limite. Abbiamo deciso di chiamarlo per quello che è, cioè un progetto solista. È servito crescere, maturare. Ora però funziona decisamente meglio. Hai detto che Siamese Dream ti ha quasi ucciso. Sono intrigato, vorrei sapere come.

Corgan: Eravamo sotto pressione, dovevamo avere successo. Se non riuscivi a tirare fuori un po’ di canzoni giuste per la radio o MTV eri morto. Ti abbandonavano. Il nostro produttore veniva da Nevermind, quindi era anche lui sotto pressione, doveva dimostrare che non era solo fortuna. Poi ci sono state le politiche interne: tutti i membri reagivano negativamente a quello che gli si chiedeva di fare, perché dovevamo registrare un disco unico, di quelli che capitano una volta nella vita. Lavoravamo 12 o 13 ore al giorno, eravamo isolati. 

Credo che quel disco ci abbia mostrato quanto fosse fragile il nostro rapporto. Qualcuno ha mollato, qualcun altro è sprofondato nella droga. Era tutto sotto la luce del sole. Poi qualcuno arrivava in regia, ascoltava le tracce e restava a bocca aperta. Sapevano che stavamo facendo qualcosa di speciale. Poi, quando si chiudeva la porta, tornavamo a odiarci.

Parker: Volevo chiederti cosa pensi dello stato attuale del rock. A volte ho l’impressione che sia stato sostituito da altri tipi di musica…

Corgan: In termini di approccio e stile, credo che la cosa più vicina al rock oggi sia l’hip hop. Sfortunatamente non c’è stata grande evoluzione nel modo di suonare, nel trasformare la chitarra in uno strumento valido quanto un sintetizzatore. Se sei un chitarrista e hai una visione, come è successo a noi due, allora troverai la soluzione, anche se dovrai suonarla sottosopra o metterla nel frullatore. 

Il rock’n’roll deve essere pericoloso. Quando sento grandi artisti come te o Grimes, so che state cercando di riportare nella scena attuale la violenza e quella specie di rumore meraviglioso. Il rock è morto nel momento in cui ha smesso di superare i limiti. Tutti pensano di sapere come prendere in mano la chitarra, alzarsi in piedi e dire a 10 mila persone qualcosa di sgradevole. Provaci, qualche volta. Finché il pubblico non ti tirerà addosso bottiglie di whisky, chiavi, vasi di piscio perché non gli piace cosa stai dicendo, allora non stai sfidando nessuno.

Parker: Ti è mai successo?

Corgan: Oh, sì. Sto parlando di rivolte, amico.

Parker: Hai nostalgia per quei momenti?

Corgan: Per niente. Non c’è niente di meglio di come sto adesso, con i miei figli, felice. Posso telefonare agli altri della band, andiamo tutti d’accordo. È altrettanto bello, se non di più.

Parker: Dimmi la verità: prima del lockdown, pensavate di venire a suonare in Australia?

Corgan: È triste. Non ci sono promoter che possono riportarci lì.

Parker: Ma che dici? Parlerò con qualcuno.

Corgan: Ti faremo salire sul palco per una canzone di Siamese Dream.

Parker: Dio, sarebbe pazzesco. Sarebbe un sogno.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US

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