Musicians on Musicians: Diddy & DJ Khaled | Rolling Stone Italia
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Musicians on Musicians: Diddy & DJ Khaled

Mentre si preparano per la festa di compleanno di 2 Chainz, i due giganti della produzione hip hop raccontano le loro carriere parallele

Foto: Wayne Lawrence per Rolling Stone USA

In una suite del Ritz Carlton, nel centro di Atlanta, Sean “Diddy” Combs dà istruzioni a DJ Khaled di camminare in mezzo a una nuvola di profumo. Sta creando l’atmosfera che più tardi trasporterà i due super produttori hip hop alla festa di compleanno di 2 Chainz. “Adoro essere un rapper” dice Diddy a un certo punto, in maniera del tutto spontanea.

I due hanno un rapporto di lunga data; Khaled ha incontrato per la prima volta Diddy negli anni ’90, quando era un conduttore radiofonico alle prime armi e Diddy era uno dei personaggi più rilevanti dell’hip hop di allora, essendo sia un artista che il CEO della Bad Boy Records, l’etichetta di Notorious B.I.G., Faith Evans, Mase e tanti altri. Oggi Khaled, rapper/producer/guru dei social media, è il più ovvio erede di quel mix unico che ha fatto la fortuna di Diddy, talento musicale, genio onnicomprensivo del marketing e abilissimo promotore di se stesso. “È lui la matrice” dice Khaled, il cui nuovo album Father of Asahd include i featuring di Travis Scott, Justin Bieber, Beyoncé e non solo.

Come vi siete incontrati?

KHALED Ero parte del suo street team [squadre di volontari che negli anni ’90 attaccavano in giro per la città volantini e adesivi promozionali per artisti ed etichette]. Non penso che Puff sapesse neppure che c’era uno street team della Bad Boy. Dopodiché, più avanti, io e lui ci siamo incontrati a Miami, in radio, mettendo su dei dischi. L’ho conosciuto tramite Fat Joe e un sacco di altra gente. Siamo diventati dei veri fratelli.

DIDDY Non posso dirti qual è stata la prima volta che ci siamo incontrati, a dirti la verità. Abbiamo fatto un patto.

KHALED Esatto. Alcune storie non possono essere raccontate.

DIDDY Dio è grande. Non dobbiamo più vivere così, per fortuna.


KHALED Non sarei in grado di fare un sacco di cose che ora faccio, se non fosse stato per Puff Daddy. Quando mi hanno dato l’opportunità di partecipare a Icona su Icona [I due hanno ribattezzato così il nostro speciale Musicians on Musicians], sapevo che doveva essere con Diddy. È uno delle mie più grandi fonti d’ispirazione. Ricordo di aver cominciato come dj e di essere poi diventato un promoter. Ha aperto lui quelle porte. Come hitmaker, come uomo d’affari, come uno che si sbatte per svoltare, come padre, mi ha motivato e ispirato. Sento che abbiamo un’attitudine simile. Io lavoro sodo per arrivare. Voglio prendermi quei soldi. E quando si tratta di produrre dischi, faccio le hit.

DIDDY Una cazzo di fabbrica di hit!


KHALED Mi sono sempre piaciuti i tuoi ad-libs [I suoni onomatopeici che si sentono alla fine dei versi nelle canzoni rap]. Dico sempre alla gente che senza quegli ad-libs, molte canzoni non sarebbero diventate hit. Non voglio togliere nulla a quegli artisti, ma era pazzesco quando li aggiungevi qua e là. Poi, dopo il cazzeggio, facevi una strofa. E poi ricomparivi e ti mettevi a ballare nei video. E dopodiché arrivavi e ti mettevi a vendere vestiti. Poi Puff tornava e ti offriva un drink. Ce le aveva tutte.

Diddy, cosa hai imparato da Khaled?

DIDDY Penso di essere stato io a ispirare lui. Sai quando dicono che devi mettere in pratica quello che predichi? Khaled mi ha insegnato proprio quello. Mi capisce. Capisce l’energia positiva che cerco di trasmettere all’universo. Ci sono volte in cui mi sento giù e non riesco neppure ad ascoltare le vibrazioni positive. Lui me le ricorda costantemente, come se mi dicesse “È un po’ che non ti sento, cerca di stare su di morale”. Ho imparato ad amarmi seguendo il suo esempio, guardando come si prende cura di se stesso, parla con Dio, si gode la sua famiglia. Mi ha dato istruzioni su cose che forse mi mancavano, visto che di solito lavoro come una macchina.

Come definireste i vostri lavori?

DIDDY Quando penso a quello che faccio, mi definisco un inventore: invento musica, idee dirompenti. Arrivo e spariglio le carte in tavola. Quando ho cominciato con lo streetwear… lo streetwear non esisteva, ma l’ho portato ai livelli dell’alta moda. Me lo sono dovuto inventare. Quando ho creato Revolt, non esisteva un network per la comunità hip hop di proprietà di un nero. Me lo sono dovuto inventare. Quello che ho fatto con la Bad Boy, lo considero un lavoro di invenzione. Non mi rinchiudo in un recinto e non seguo i passi di qualcun altro. Mi sogno le cose che ancora non esistono nella realtà.

KHALED Mi hanno detto che tante cose erano impossibili. Sto cominciando solo adesso a realizzarle, voglio essere la persona che dice “Non esistono muri. Non esistono recinti. Nulla può bloccare i doni che hai”.

Foto: Wayne Lawrence per Rolling Stone USA

Chi è stata la prima persona che vi ha aiutato?

KHALED Per me è stato Dio. Ma la prima persona importante è stata Joe Crack [Soprannome di Fat Joe] che ha fatto il mio nome in un suo disco. Mi ha trattato come se fossi di famiglia; sono il padrino di sua figlia.

DIDDY Per me è stato il leggendario Heavy D, che riposi in pace. Stavo cercando di entrare nel music business, perché i Run-DMC mi avevano influenzato molto. Ero a un loro concerto e li vedevo tenere sollevate in alto le loro Adidas. Ricordo perfino in che fila ero. Ho pensato “Non so cos’è questa roba, ma voglio farla anch’io”. Era il lavoro perfetto per me: aveva a che fare con il brand, l’essere un impresario, dare energia alla gente. Dopodiché, visto che i pensieri hanno il potere di manifestarsi, ho cominciato questo mio viaggio in cui puntavo all’industria musicale. Heavy D viveva nella mia città. Non conoscevo praticamente nessuno perché mi ero appena trasferito da Harlem a Mount Vernon, nello stato di New York, perciò me ne stavo fuori dalla sua pizzeria e aspettavo che passasse di lì per chiedergli di organizzarmi un colloquio con Andre Harrell, il fondatore di Uptown Records. Ma quando finalmente è capitata la mia occasione e l’ho beccato nel locale, anziché chiedergli del colloquio, gli ho chiesto se potevo diventare il suo manager. Perché, sai com’è, la volta che hai un’opportunità, è meglio andare fino in fondo.

KHALED Devi!


DIDDY Non avevo esperienza, ma alla fine mi ha fatto avere quel colloquio e ho ottenuto uno stage. Poi sono diventato vice presidente e presidente e ho fatto un sacco di cose fantastiche nell’industria musicale, attraverso il potere di Dio.

KHALED Esatto.

DIDDY Per chiuere il cerchio, quando ho fatto sold out al Madison Square Garden per due sere di fila, di solito mi calavano giù dal soffitto, hai presente? E guardavo giù e vedevo il sedile dove un tempo ero seduto io, quando mi dicevo “Un giorno sarò su quel palco”. Per cui, Heavy D mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno. Mi manca così tanto.

Diddy, ricordi la prima volta che hai incontrato Biggie?

DIDDY La prima volta che l’ho incontrato eravamo da Sylvia’s.

KHALED A Harlem?

DIDDY Certo. Volevo così tanto che firmasse con me. Sapevo che era un tizio grande e grosso, e io ero di Harlem. Mi ero detto “Ehi, la cosa migliore che puoi fare è invitarlo da Sylvia’s”. E la cosa pazzesca è che quando si è seduto e gli ho chiesto cosa voleva mangiare, mi ha risposto “Non ho fame”. [Ridono entrambi] Non mangiava mai se c’ero anche io!

Sono passati 25 anni da Ready to Die. Quali sono i cambiamenti più grandi che hai visto nell’industria musicale?

DIDDY Quello che succedeva ai tempi succede anche ora, in realtà. All’epoca stavamo abbandonando le cassette per i CD. Convincere tutti a passare al lettore CD è come convincere tutti a passare dal CD allo streaming. Ha cambiato tutto. Di solito facevi i master con quattro mesi d’anticipo: oggi puoi farli e poi buttarli fuori cinque secondi dopo. Ha dato agli artisti più libertà e reso la musica più globale. La transizione ha reso l’hip hop il genere più ascoltato nel mondo. Allo stesso tempo, però, il processo è differente. Le intenzioni sono differenti. Nel 1994, ci si basava più sull’impatto che sui numeri. Le certificazioni erano molto importanti, ma lo era più l’impatto che avevi sulle strade e nella comunità. Non era una gara a chi totalizzava cifre più alte. Ora puoi infiltrarti nell’industria musicale e cazzeggiare, non prenderla sul serio, e puoi comunque finire a vincere un Grammy Award e a fare sold out negli stadi. In questo gioco può succedere di tutto. Le regole sono cambiate.

KHALED Sono d’accordo con tutto quello che hai detto. Non ci sono più scuse per non pubblicare un disco grandioso e ottenere dei riscontri. Una volta, era più questione di passaparola. Di impatto. Oggi non ci sono più intermediari. Puoi arrivare direttamente ai consumatori, ai fan. Dipende davvero da te e dal tuo talento.

Khaled, nel titolo del tuo ultimo album hai voluto citare tuo figlio, Asahd. Come ci si sente a diventare papà per la prima volta?

DIDDY Ero appena stato licenziato [dalla Uptown Records], perciò ero molto nervoso quando è nato Justin. Non sapevo davvero cosa fare. È nato il giorno prima di capodanno, nel 1993. Ho cominciato a festeggiare lì e non mi sono più fermato. Eravamo in questa casa a Scarsdale, vicino a New York, in un quartiere di soli bianchi, proprio di fianco a un campo da golf. Avevo invitato tutti i miei amici da Harlem a festeggiare, perché era appena nato il mio primo figlio. Ero pronto a tenere in braccio il mio bambino, il mio re. Mi avevano distrutto casa: era stata la festa migliore di sempre. Ricordo che la mia ex era arrabbiatissima con me perché non ero all’ospedale con lei. Ma ero così elettrizzato all’idea di avere un figlio: le avevo detto che dovevo per forza dare quella festa.

KHALED Quello che hai appena detto è così profondo. Sembra quasi un film.

DIDDY Oggi stavo guardando mio figlio e gli ho dato un bacio. Non esiste una sensazione migliore al mondo.

KHALED Ero in una fase della mia vita in cui tutto era davvero duro. Facevo uscire delle hit, ero il solito Khaled, facevo cose stupende. Ma ero molto incasinato, e nulla sembrava darmi davvero quello di cui avevo bisogno. Un bel giorno mi ero svegliato e mi ero detto “Cacchio, lavoro così duro, ricevo tutti quei premi, arrivo alla n. 1 ogni volta, ma non c’è niente che resterà davvero, se dovessi morire domani”. Perciò ho guardato la mia regina e le ho detto “Ehi, bella, ho capito una cosa: voglio avere un figlio, o una figlia”. Lei ci ha pregato un po’ su e poi è rimasta incinta. Quando è arrivato Asahd, è un momento che non dimenticherò mai. Quando è nato, io e lui ci siamo guardati negli occhi. E la mia vita è passata a un altro livello. Sono stato ricoperto di benedizioni.

Cosa cercate, in un nuovo artista da mettere sotto contratto?

KHALED Cerco qualcuno che possa lavorare duro quanto me, o ancora più duro. Devo essere un suo fan. Sì, sono un amico di Puff, ma sono anche un suo grande fan. Puoi comunque avere quel tipo di sensazione quando incontri un nuovo artista, anche se non ha ancora pubblicato un disco di platino.

DIDDY Per essere onesto, sono praticamente in pensione ora come ora. Ma se non vedi più il mio nome in tutti i dischi della top 10, non vuol dire che non sto facendo musica. Sto riportando in tv il talent show Making the Band, sarà in onda nel 2020. Penso sempre, “Oggi c’è un ruolo per me nella musica?”. So solo che, per quanto mi riguarda, riuscirei a mettere sotto contratto solo delle leggende. Per essere onesto, le mie decisioni le prendo tramite Dio. Sono su un’altra frequenza e livello di musica. Dovrebbe essere qualcosa di cui Dio mi fa innamorare, come è successo quando ho ascoltato Biggie o Mary J. Blige.

Che consiglio dareste, o che consiglio date effettivamente, ai vostri figli, quando parlate dell’industria musicale?

KHALED Lavoro duro ogni giorno per assicurarmi che la mia musica sia per sempre. È senza tempo. Quando indico mio figlio come produttore esecutivo di Grateful e Father of Asahd, e lo metto in copertina su entrambi i dischi, è perché quando crescerà voglio mostrargli tutti i premi che avrà vinto. Questa è un’eredità che durerà per sempre, anche se non vorrà occuparsi di musica.

DIDDY Ai miei figli dico qualcosa di molto semplice. Ci sono due cose da sapere. La prima, è che tutto gira intorno alle hit. Sono l’unica cosa che conta. Oltre a questo, quando fai le hit, devi capire che solo le canzoni sopravvivono. Io sarò qui per sempre e, se segui le mie orme, devi seguirle per sempre. Tra cinquecento anni suoneranno ancora It’s All About the Benjamins, Hypnotize, Mo Money Mo Problems, I Need a Girl, Be Happy di Mary J. Blige. È sempre stato questo il mio obbiettivo. Non l’ho mai fatto per i soldi. L’ho fatto per le hit. Quando i miei figli mi portano della musica, dico loro la verità: tutto gira intorno alle hit e solo le canzoni sopravvivono. Non copiare gli altri e non fare roba che durerà uno o due anni. Non si ricorderanno il tuo nome, altrimenti.

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