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Musica in stato di emergenza: come la crisi del coronavirus ha unito il pop italiano

Questa è la storia di come, durante il lockdown, artisti e professionisti tra cui Manuel Agnelli e Rodrigo d’Erasmo hanno messo da parte ogni ribellismo e si sono sporcati le mani per farsi ascoltare dalla politica e rivoluzionare il settore

Foto: Francesco Prandoni

All’incirca tre mesi fa, il violinista Rodrigo D’Erasmo ha chiesto a Manuel Agnelli di partecipare a un gruppo di lavoro attivo su Zoom comprendente una quindicina di musicisti. Lo scopo era confrontarsi per individuare e proporre alla politica soluzioni concrete per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori della filiera della musica messa in crisi dal lockdown. Il cantante degli Afterhours era scettico. Tutti gli esperimenti di aggregazione fra musicisti a cui aveva partecipato si erano in un modo o nell’altro arenati. «Erano state esperienze galvanizzanti all’inizio e poi deludenti. Pensavo che anche questa volta le remore tipiche degli artisti avrebbero impedito di far pressione in modo efficace sulla politica». Agnelli ha comunque accettato l’invito. Due mesi dopo, era in seduto di fronte allo schermo di un computer, in collegamento via Zoom con Diodato e col ministro della cultura Dario Franceschini a parlare di diritti e bisogni dei lavoratori dello spettacolo. «Nel giro di poche settimane siamo riusciti a far approvare emendamenti che aiutano i lavoratori intermittenti della musica». Prima d’ora, aggiunge con un certo orgoglio, «non era mai successo un cazzo».

Dice una canzone che gli artisti sono un po’ cialtroni, grandi incantatori, egoisti. Di sicuro appartengono a un mondo frammentato che nutre scarsa considerazione di sé e che raramente si rappresenta. «Gli artisti hanno un ego più sviluppato della media, quasi per definizione», dice Agnelli. «Se questa energia viene convogliata può diventare energia creativa, ma a volte impedisce di unire le forze. E poi per molti di noi occuparsi di defiscalizzazione o di codici ATECO è quasi contro natura». Anche secondo Federico Dragogna dei Ministri, il mondo della musica non è coeso, «troppe microscene che non comunicano». Gli fa eco Enrico Gabrielli (Calibro 35, The Winstons, 19’40”): «La figura del musicista è talmente sfaccettata che è impossibile riuscire a dare un peso e una misura a ogni tipo di musicista presente nel Paese».

La mancanza di unione alimenta nel pubblico l’idea che i lavoratori dello spettacolo e in particolare quelli della musica non siano professionisti. «Persino chi fa gli stadi» nota Agnelli «viene considerato una rock star, non un professionista che stipendia altra gente e che paga le tasse. Non è così negli Stati Uniti o in Inghilterra, e nemmeno in Francia o in Germania. È una tara culturale di noi italiani. Siamo uno dei pochi Paesi dove i musicisti sono considerati saltimbanchi e intrattenitori. Quando va bene sono considerati artisti, quasi mai professionisti. Per non parlare di tutte le altre professionalità che il pubblico non conosce: fonici, tecnici delle luci, produttori, manager, assistenti, facchini, agenzie di booking e di promozione».

«In Italia persino chi fa gli stadi non viene considerato un professionista»

C’è una cosa che dicono tutti: i problemi non iniziano con il Covid-19. Sono anni che il mondo della musica versa in difficoltà. Il lockdown non ha fatto altro che portare alla luce una situazione difficile, aggravata dalla mancanza di riconoscimento da parte dello Stato. In un mondo in cui la musica registrata è un bene messo a disposizione gratuitamente, lo stop improvviso della attività remunerative, concerti in primis, ha creato un buco enorme. Se la politica sembra sorda, una parte del pubblico appare insensibile. Le priorità sono altre, si sente ripetere, mica i cantanti: i licenziamenti momentaneamente bloccati e pronti a esplodere come una bomba sociale, il telelavoro, le università e le scuole di ogni grado chiuse, il turismo fermo, le serrande abbassate, il rallentamento dell’economia. «Lo sento dire spesso: che cos’hanno da lamentarsi questi? Le emergenze sono altre», dice Agnelli. «La mia risposta è: col cazzo. I lavoratori della musica hanno gli stessi diritti degli altri. Non minori, né maggiori: uguali».

Una mezza specificità però ce l’hanno ed è condivisa col turismo: l’economia della musica si basa in parte su lavoro intermittente. Significa che se ci sono eventi si lavora, se non ci sono eventi si sta a casa, a volte senza alcuna remunerazione. «Col lockdown tantissime cose sono saltate», spiega Mattia Cominotto, già membro dei Meganoidi e proprietario dello studio Greenfog a Genova, uno dei luoghi più vivi del capoluogo ligure per ciò che riguarda la creazione della musica. «Avendo un figlio piccolo e una compagna che lavora negli eventi è stata dura. Come partita IVA ho avuto un bonus dallo Stato, meglio che niente, ma non è sufficiente. La cosa peggiore è che anche adesso, con il lockdown finito, si sente il contraccolpo, mancano i clienti ed è difficile rimettersi in carreggiata. A nessuno viene in mente di registrare materiale che non si può portare in giro dal vivo. Il Covid ha colpito un settore già pericolosamente in bilico. Si spera che quando tutto riaprirà la gente possa tornare ad affollare le sale da concerto. Quando una persona affamata vede del cibo, ci si butta a capofitto». La tecnologia ha reso possibile il proseguimento di alcuni lavori, spiega Dragogna. «Chi produce musica per le pubblicità, ad esempio, non si è fermato. E i ragazzi di oggi che fanno musica con il computer hanno continuato a farla. Ma chi guadagna coi concerti si è fermato. Le sale bingo sono aperte, le palestre idem, gli aerei volano: perché i concerti no?».

Mentre giungono notizie circa le chiusure di club e circoli storici, qualcuno sta cercando come può di tenere in vita i locali. Cominotto gestisce insieme ad altri Il Cane, piccolo club di Cornigliano, nella zona industriale di Genova, da cui sono passati gruppi locali e non, dagli Ex-Otago ai Tre Allegri Ragazzi Morti. «Abbiamo partecipato a un bando pubblico che sostiene gli spazi come il nostro, relativamente alle spese legate alla sussistenza come affitti e bollette. E abbiamo lanciato una specie di azionariato popolare, una sorta di crowdfunding più partecipativo. Chi vuole contribuire può versare dai 5 ai 20 euro al mese, con la possibilità di vedere uno o più concerti quando riapriremo. Abbiamo avuto un’ottima risposta e abbiamo reso più consapevole il pubblico che non è più un soggetto passivo, ma partecipa più attivamente alla gestione del locale e può verificare in prima persona che cosa significa gestirlo».

Foto: Elena Di Vincenzo

Chiusi in casa, i musicisti hanno cominciato a organizzarsi. «Conosciamo personalmente chi soffre per il fermo della musica», dice Agnelli. «Conosciamo i loro figli, le loro famiglie. Li vedevamo a casa e non riuscivano a dar loro alcun tipo di sostegno, se non un piccolo aiuto economico che ovviamente non è la soluzione. Tu magari hai messo da parte dei soldi, ha dei progetti, ti sei organizzato, ma vedi la tua squadra che sta a casa – la mia è composta da decine di persone, per altri sono centinaia. Viene da qui lo stimolo per reagire. La crisi causata dal coronavirus ci ha uniti. Il fatto di lottare non solo per noi musicisti, ma anche e soprattutto per gli altri ci ha responsabilizzati, ci ha aiutati a superare le disunioni, le paure, la sfiducia».

In una prima fase i musicisti hanno organizzato individualmente dirette Instagram. «Il musicista era diciamo così il giullare, l’intrattenitore che distrae dal suono delle sirene delle ambulanze e dalle morti», spiega Rodrigo D’Erasmo. «Ma c’era l’esigenza di incontrarsi per capire che cosa stava accadendo, informarsi, essere preparati al fatto che di lì a breve anche la stampa avrebbe cominciato a interessarsi a noi. Rendersi utili. Veicolare certi messaggi attraverso le facce di musicisti con la popolarità che un tecnico non ha». E così un mese dopo l’inizio del lockdown è nato il gruppo di lavoro a cui il violinista ha poi invitato Manuel Agnelli. Il gruppo non ha formalizzato la propria esistenza, era ed è rimasta una realtà informale e fluida. Non sono graditi protagonismi, tant’è che i nomi dei membri del gruppo non sono stati diffusi. «Abbiamo deciso di non costituirci, di non darci un nome, di non affermarci verso l’esterno. Preferiamo essere battitori liberi, né vogliamo dare l’idea di qualcosa di chiuso, di un’élite. È il contrario: i musicisti devono potere entrare e uscire a seconda della loro inclinazioni ed esigenze». E così, oltre allo studio della situazione e delle possibili soluzioni, i musicisti hanno elaborato una strategia.

«Se vuoi che la politica si occupi di te, devi finire sui giornali»

Sette anni fa, Manuel Agnelli lavorava a #PiùMusicaLive. Il progetto era stato ideato con l’ex assessore alla cultura del comune di Milano Stefano Boeri e mirava a sburocratizzare le procedure necessarie per organizzare concerti dal vivo. Bisognava ideare soluzioni pratiche e proporle alla politica. Un giorno, il cantante degli Afterhours ha ricevuto una telefonata da parte di un membro della Commissione cultura della Camera. «Vedi Manuel, le priorità della commissione sono immutabili: la scuola, l’università, Pompei. Poi ci sono le urgenze, ma quelle sono dettate da quel che finisce sulle pagine dei giornali. Se vuoi che l’argomento che ti sta a cuore venga affrontato, devi fare casino e finire sui giornali. A quel punto, la Commissione avrà la scusa per parlarne».

È la strategia che gli artisti italiani hanno usato durante il lockdown: hanno utilizzato la loro immagine pubblica per portare il tema nel dibattito pubblico e dare alla politica una scusa per occuparsene. Oltre a pubblicare canzoni come Lost in the Desert (un pezzo inciso a distanza da D’Erasmo, Daniele Silvestri, Joan As Police Woman, Rancore e altri, i cui proventi sono destinati a un fondo di Spotify per i lavoratori dello spettacolo) e Come una canzone degli 883 (della DPCM Squad, una sorta di superband con Max Pezzali e Lo Stato Sociale), è stata lanciata una campagna Instagram chiamata #IoLavoroConLaMusica. Vi hanno aderito un po’ tutti, tra cui grandi nomi del pop come Vasco Rossi o Laura Pausini. Mentre molti s’affrettavano a dire che non sarebbe stato un hashtag a salvare la musica, la campagna faceva crescere l’attenzione mediatica necessaria affinché funzionasse il passaggio successivo, un flash mob in Piazza Duomo a Milano.

Domenica 21 giugno, data che corrisponde tradizionalmente alla Festa della Musica, un folto gruppo di musicisti si è dato appuntamento di fronte al Duomo a Milano. C’erano fra gli altri Manuel Agnelli, Diodato, Lodo Guenzi, Levante, Ghemon, Dente, Mauro Ermanno Giovanardi, Saturnino, Giovanni Truppi, i Selton, Cosmo, Wrongonyou, Andrea Poggio, Enrico Gabrielli. In perfetto ordine, con mascherine e a distanza di sicurezza, hanno messo in scena una protesta muta per sensibilizzare l’opinione pubblica su quelli che sono i problemi legati al mondo della sette note. «Volevamo evitare a tutti i costi il cliché della protesta fine a sé stessa», spiega Agnelli. «Non ci interessava andare in piazza, fare i rivoluzionari, inveire contro il sistema. Ci interessare fare pressione per ottenere cose concrete. Abbiamo tenuto sotto controllo ribellismo e vanità. È stato un modo molto maturo di affrontare la cosa. L’attenzione mediatica sul flash mob ha fatto sì che la politica si muovesse. È la forza di noi musicisti: siamo piccoli megafoni».

Il giorno dopo il flash mob, Agnelli e Diodato hanno partecipato a una videocall con Dario Franceschini e il suo staff, aprendo un canale di comunicazione permanente fra politica e musicisti, che da allora si sono riuniti in lunghe videocall con tecnici e rappresentanti di varie associazioni per stabilire priorità e strategie. «Ci sono stati altri contatti con lo staff del ministro», spiega Agnelli. «Si tratta di discussioni molto concrete a cui partecipano i tecnici, soprattutto dell’associazione La Musica Che Gira e di F.A.S. Forum Arte e Spettacolo. La discussione è partita in modo generico su quello che serve al nostro mondo, che ha bisogno di una ristrutturazione a 360°: fiscale, organizzativa, relativa alla sicurezza. Franceschini ha approvato l’idea di tenere in settembre, presumibilmente dopo le elezioni regionali, gli Stati Generali della Musica e dello Spettacolo. C’erano già contatti con la politica, ma la svolta è arrivata quando il ministro si è impegnato in prima persona, ha reso tutto più veloce e concreto». Nelle call con i politici si parla in burocratese. Il lavoro dev’essere concreto ed efficace. «Non siamo andati a fare i ciarlatani urlando che la cultura è un valore».

«Non siamo andati in piazza a fare i ciarlatani urlando che la cultura è un valore»

La campagna degli hashtag e il flash mob a Milano hanno già portato due risultati concreti: indennità assistenziali ai lavoratori intermittenti che non avevano diritto a ricevere fondi e l’istituzione di un fondo di 10 milioni di euro per incoraggiare alla ripartenza imprese, enti di produzione, associazioni (si sta lavorando al relativo bando). «Sento dire che noi artisti lo facciamo per visibilità», dice Agnelli. «Io sto per fare X Factor, Diodato ha vinto Sanremo: pensate davvero che abbiamo bisogno di visibilità? Quello che abbiamo fatto in queste settimane è nell’interesse dai lavoratori della musica. A queste iniziative hanno partecipato musicisti adulti che si sono scontrati col mondo del lavoro, o meglio, con la mancanza di un mondo del lavoro. Per una volta non eravamo sparpagliati in tour. Il coronavirus ci ha costretti a casa e ci ha quindi permesso di investire del tempo in questa cosa. L’abbiamo girata in positivo, è stata un’occasione per esserci, per buttare giù steccati. È stato meno difficile che in passato». Non che sia facile in assoluto. I musicisti che lavorano con la propria immagine nutrono legittime preoccupazioni quando si espongono in questo modo. Vogliono essere superinformati: è un bene, ma rallenta i processi. I contatti con la politica creano timori. C’è preoccupazione su come queste cose verranno percepite dal pubblico. «Infine, molti si chiedono: che cosa succederà se falliremo?».

È una domanda cruciale. Gli emendamenti approvati su locali e lavoratori intermittenti sono solo l’inizio. «Ci aspettano riforme strutturali», spiega D’Erasmo, «anzitutto la mappatura del numero di professionisti che fa parte del mondo della musica, che ha un sommerso enorme. Gente che proprio in questa circostanza non si è trovata rappresentata. Noi stessi abbiamo imparato molte cose dai professionisti del F.A.S. e di La Musica Che Gira. Finalmente si è cominciato a parlare del futuro della musica che era stata esclusa dagli Stati generali dell’economia, cosa molto grave per un Paese nel quale la cultura rappresenta il 16% del PIL. Il Covid è servito a far sì che tra noi musicisti si innescassero dei percorsi di conoscenza e approfondimento. Si è creato uno spirito di corpo ponendo le basi affinché ci si senta una categoria». Nel sito di La Musica Che Gira sono indicate le priorità, dalla riforma del settore a investimenti green. «Non sappiamo ancora se una parte delle risorse del Recovery Fund saranno destinate alla cultura, sarebbe auspicabile, visto che in queste ultime settimane abbiamo appreso che a livello europeo ci sono stati dei tagli ai fondi per i programmi legati alla cultura», dice Manuela Martignano del coordinamento La Musica Che Gira. «Quanto si ritiene strategico questo campo lo si dimostra con azioni concrete, noi di nostro ce la stiamo mettendo tutta per dimostrare che non siamo qui a lamentarci ma a lavorare a delle soluzioni sensate, e non smetteremo di farlo fino a quando sarà necessario». C’è anche chi, come Enrico Gabrielli, si aspetta un piccolo cambiamento nell’orientamento del pubblico: «Questa potrebbe essere l’estate giusta per riconfigurare un pubblico di piccoli numeri e di cose interessanti. Non ci saranno grandi eventi, niente mainstream, nessun rave, raduni trap o cose del genere. È il momento perfetto per fare le cose piccole e anche strane».

Foto: Elena Di Vincenzo

Questa è la storia di come un pezzo di musica italiana per una volta si è comportato in maniera adulta, ha messo da parte ogni ribellismo, ha sfruttato l’esposizione mediatica, ha rinunciato a protagonismi e si è sporcato le mani. Il fatto che vi abbia fatto parte Manuel Agnelli non è un caso. Dal festival Tora! Tora! al progetto Il Paese è reale, passando per le esperienze con #PiùMusicaLive (naufragata con la caduta del governo Letta) e la riforma in senso più equo della Siae, è forse il musicista italiano che più di ogni altro si è battuto affinché la scena musicale italiana riconosca sé stessa. «Nel momento in cui i musicisti italiani prendono coscienza di essere un gruppo, le cose funzionano meglio per tutti», dice. C’è anche una parte di ambizione personale, e non c’è niente di male. «Voglio mettermi al sevizio degli altri e fare qualcosa di significativo al di là di suonare la chitarra, che è il mio mestiere».

Come finirà? Manuel Agnelli sa che la parte più complicata deve ancora venire. «Dobbiamo tenere duro. Gli Stati generali della musica sono una cosa enorme e comprende soggetti che hanno interessi non coincidenti, pensa al grosso promoter e al piccolo proprietario di un piccolo club. Bisogna che ogni ambito rispetti gli altri e che le pressioni non ci disuniscano. È un lavoro enorme, perché non è mai stato fatto prima. Ma in 35 anni non ho mai visto tanta compattezza. Spero che questa energia non vada perduta».

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