Musica dalla cameretta: la prima intervista a Emma | Rolling Stone Italia
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Musica dalla cameretta: la prima intervista a Emma

Tra le quattro mura della sua stanza di Milano, l'artista pugliese ha dato vita a un disco che chiude una trilogia, ma apre a una nuova era: quella dove finalmente si sente capito

Musica dalla cameretta: la prima intervista a Emma

Emma

Foto: Matia Chiodo

L’intervista che segue, che mi dicono essere la prima in assoluto a Emma, si sarebbe dovuta svolgere nella sua cameretta. L’artista nato in Germania ma pugliese nel sangue ci teneva che entrassi nel luogo, in zona Milano sud, dove il suo terzo disco (ma anche i suoi primi due) ha preso forma ed è diventato materiale.

Il disco si chiama Era l’inizio ma in realtà è anche la chiusura di una trilogia, iniziata nel 2023, che ora l’ha portato ad avere finalmente una direzione esistenziale. Per la prima volta Alessandro si sente capito, accettato da una fanbase che non lo rende protagonista dei suoi stessi concerti ma partecipe, quasi al pari di tutti gli altri sotto il palco. Io al Poplar di Trento l’anno scorso c’ero, e con i miei occhi ho potuto saggiare la nube apparentemente caotica di glitchcore, grunge, hardcore elettronico, emo e chissà cos’altro ancora che in realtà è il ritratto di una generazione.

In più, questa doppia natura tra l’hikikomori, che produce, pensa e scrive nello stesso posto in cui dorme, e quella invece dell’artista in tour a stretto contatto col suo pubblico (giovane, quanto lui) ha creato un manicheismo d’interferenza costruttiva. Una specie di equilibrio tra eremo e piazza affollata in cui Ale ha trovato il carburante necessario per cacciare fuori musica ad alto contenuto emozionale, oltre che energetico.

Alla fine non sono riuscito a intervistare Emma nella sua cameretta ma per telefono, per via di impegni vari e del solito raffreddore che mi piglia a maggio. Ciò comunque non ha impedito alle quattro mura dove la sua musica nasce di rimanere uno dei topic centrali della chiacchierata.

Come mai la cameretta è così importante per te?
Perché entrare nella mia camera è come entrare nella mia dimensione innanzitutto di vita. Specialmente questo ultimo anno e mezzo di vita l’ho vissuto in questo contrasto enorme tra vivere nella mia stanza ed essere sempre in giro per concerti. La mia stanza in questo momento è tutto per me. Tutta la mia musica nasce qui, specialmente ogni canzone di questo album. Sono uno che si è sempre rifiutato di andare in studio, perché vedo in queste quattro mura la dimensione perfetta per creare e crearsi. Un ecosistema di vita che è intimo e personale.

Foto: Matia Chiodo

Quindi un posto sicuro?
Fino a un certo punto, però. Perché poi è anche il posto dove mi confronto con me stesso, mi metto in discussione, mi sfido, cresco. Non è un luogo tranquillissimo.

Da questa stanza però ci esci, anche solo per vivere la città ogni tanto?
Non mi definirei uno che esce molto. Soprattutto nell’ultimo anno, non posso dire di aver vissuto molto la città. Sono stato qui in cameretta a ragionare, a pensare. È un disco di studio, di ricerca personale che tocca tutti i lati della mia identità. Non potevo distrarmi uscendo. L’unica dimensione esterna era il concerto, l’essere sotto gli occhi di tutti. Questi pezzi hanno una storia particolare perché hanno preso forma anche in mezzo alla gente. Io ho iniziato a suonare le demo dal vivo, quando magari non avevano neanche un testo. Molte parole sono nate proprio cantando in improvvisazione tra il pubblico. È quindi un disco estremamente personale, interamente prodotto da me, ma allo stesso tempo risente tanto di un altro tipo di ambiente, a suo modo intimo (tanto che avevo chiamato il tour della scorsa estate “Musica dalla mia stanza”), ma comunque condivisa con tante persone nello stesso momento.

Beh, posso confermare che al Poplar il tuo live è stato molto bello.
Grazie. Sì, anche lì è stato come se fossimo stati tutti nella stessa stanza a fare la stessa musica. È una cosa che mi rende tanto felice. Per la prima volta nella mia vita, grazie alla gente che mi ascolta, ho trovato comprensione.

Tant’è che sul palco fisicamente ci sei stato poco: sei proprio sceso in mezzo alla gente col microfono in mano.
Quella è una cosa che faccio sempre. Perché non mi piace la distanza fisica col pubblico. Ti faccio un esempio: ho questo ricordo di me ai Magazzini Generali che sto per risalire sul palco ma poi ci ripenso e torno giù. Ho proprio pensato: no, io voglio stare tra la mia gente. Ho sempre fatto musica per terapia personale, per stupirmi. Ma i momenti in cui mi si riempie più il cuore è quando vedo che questa ricerca non è solo mia. Tant’è che non mi sento minimamente protagonista dei miei concerti. Protagonista è la voglia di umanità che poi ritrovo nel pubblico.

Il primo disco si chiama Era, poi c’è Era la fine e ora arriva Era l’inizio. Che ordine logico hai scelto?
All’inizio questo disco aveva un altro nome, perché era proprio un’altra cosa. Quando ho iniziato a crearlo doveva essere una cosa, ma come succede nella vita ti evolvi ogni giorno, ogni secondo. Cambi. Doveva essere un disco di pura ricerca sonora, ma poi ho avuto degli eventi veramente forti nella mia vita. Quindi giorno dopo giorno l’hanno reso sempre più personale, difficile e doloroso. Per me fare un album è un processo catartico, in cui faccio i conti con me stesso. Oggi mi trovi molto emotivo perché ho appena finito. È per me un momento assurdo.

Beh, si percepisce anche nei dischi e nei live questa tua forte componente emotiva, nel senso più emo del termine.
Sì, è stravero. Però, tornando all’ordine logico degli album. Era è stato la scintilla che mi ha fatto capire tante cose nella mia vita, non saprei neanche dirti a voce cosa. È stata la mia nascita, la mia vocazione. Il bello di Era la fine e Era l’inizio è che puoi considerarli semanticamente sia con il sostantivo era, ma anche con l’indicativo imperfetto. Perché sono convinto che stia nascendo qualcosa di nuovo nel panorama musicale, una nuova era che mi rende felice. Ma la cosa più bella è il verbo al passato. Perché l’album doveva essere tante cose, ma alla fine era solo l’inizio. Si chiude un ciclo di tre dischi ma ora inizia qualcosa di nuovo. In più, ogni volta che esce un disco, per l’artista è qualcosa di già passato, un periodo superato e metabolizzato. Mi auguro che questa ricerca iniziata per il nuovo album non finisca qui.

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