Rolling Stone Italia

Museo Rosenbach, lo Zarathustra prog e il busto del Duce: una storia italiana

C’entrano anche il Movimento che s’arrabbia, i Matia Bazar, la brunetta dei Ricchi e Poveri, Caterina Caselli alla radio, Sabrina Salerno a scuola. Intervista al bassista e autore dei pezzi Alberto Moreno

Foto per gentile concessione dell'artista

Formato nel 1971 a Bordighera, il Museo Rosenbach è uno dei gruppi più citati e blasonati quando si parla di prog italiano dei ’70. Il loro Zarathustra è uno dei capisaldi del genere, un capolavoro assoluto di puro rock sinfonico, con tutti i cambi di tempo e Mellotron che potete aspettarvi. Vanta decine di ristampe e una fama tra gli appassionati sparsi in tutto il mondo che non accenna a tramontare. Ma è anche un album parecchio controverso, sopratutto per via di una copertina a collage che, tra i vari ritagli, mostra un busto di Mussolini. Fattore che, al tempo dell’uscita, (complici anche i riferimenti e Nietzsche) ne ha decretato l’affossamento e l’accusa di fascismo mossa al gruppo.

In occasione dei 50 anni dell’album ci pensa il bassista e compositore Alberto Moreno a mettere in chiaro le cose e a raccontarci la storia del disco e di una band dalle cui ceneri sarebbero sorti i Matia Bazar.

Andiamo subito nel vivo della questione, Alberto: quel busto in copertina.
Siccome me l’hanno menata a sangue per tutti questi decenni, prima – anzi, diciamo come contraltare – di quell’annosa faccenda vorrei spostare l’attenzione sul retro di Zarathustra, sul quale raramente ci si sofferma e che, se si fosse osservata con attenzione, avrebbe dissipato tutti i dubbi su un nostro presunto fascismo. Vi sono ritratte due braccia incrociate, una con un siringa infilzata in vena e l’altra a rappresentare il potere che schiaccia i più deboli. Quello è un messaggio forte che si accompagnava al collage che formava la testa in copertina, dove c’erano immagini delle sbarre di un carcere, di bambini poveri e, appunto, di Mussolini. Si capiva benissimo che volevamo parlare di libertà, povertà, sopraffazione. Io all’epoca studiavo alla statale di Milano e ho vissuto in prima persone le turbolenze di quegli anni, non mi sarei mai nemmeno lontanamente sognato di inneggiare al Duce.

Copertina fronte e retro di ‘Zarathustra’, 1973

La vostra voleva essere una provocazione?
Noi con quella copertina c’entriamo solo relativamente. Io avevo preparato un collage della testa che aveva le dimensioni di un poster, inserendovi una serie di rovine di templi antichi per dare appunto l’idea del museo. Con quella mi sono recato nello studio grafico nel quale hanno mantenuto l’idea della testa a collage ma l’hanno riempita di tutte quelle altre immagini, alcune anche azzeccate. Se poi ci aggiungi il nero di sfondo, il riferimento a Nietzsche – il cui nome era ancora legato agli scempi del nazismo – e al superuomo vedi che la frittata è fatta. Zarathustra all’epoca non era visto come un personaggio positivamente profetico, come io lo intendevo, ma come emblema di un pensiero che aveva rovinato l’Europa.

E allora come mai avete permesso che uscisse?
All’epoca avevamo vent’anni ed eravamo succubi della Ricordi. Spedimmo la nostra cassettina con dei provini e ci chiamarono subito, facendoci passare in un istante dall’essere un gruppo che suonava nella cantina a band sotto contratto con un’importante major. Incidevamo a Milano, in Via dei Cinquecento, dove registrava anche il Banco, figurati… Eravamo poco più che adolescenti gettati a lavorare nella grande industria discografica, chiaro che non osavamo protestare più di tanto.

Cosa pensasti quando vedesti il risultato finale?
Mi dichiarai subito scontento, anche di quella tirata che c’è all’interno, “Il museo non chiude mai…” eccetera, tutte le volte che mi viene chiesto il significato di quella cosa io rispondo che boh, non so che voglia dire. In un certo senso siamo stati un po’ manipolati, ma da un altro punto di vista non potevamo certo lamentarci, la Ricordi ci ha fatto una super promozione, Cesare Monti ha scattato bellissime foto, ci hanno trattati molto bene, solo che hanno voluto imporci questo taglio che un po’ è sfuggito di mano anche a loro.

Cosa successe quando venne pubblicato?
Prima di tutto un potente sbarramento da parte della RAI, i pochi che ne trasmisero dei brani in radio furono Carlo Massarini e Caterina Caselli, che aveva una trasmissione alle 8 di sera. Per il resto completo ostracismo da parte di tutto il movimento che impedì al disco di decollare. Questo nonostante cercassimo di spiegare che non avevamo nulla a che fare con Mussolini e cose del genere. Figurati che uno dei nostri più cari amici era Francesco Guccini, il quale ci aveva addirittura fatto da spalla.

Questa non la sapevo, racconta.
La Ricordi organizzò un nostro showcase nell’ambito del Festival di Sanremo 1973 per presentare in anteprima Zarathustra. La cosa ebbe luogo al Number One, uno dei locali nei pressi dell’Ariston, e il nostro showcase venne aperto da Vince Tempera, da Antonello Venditti, che presentava la sua Roma capoccia, e appunto da Guccini che approfittò della chitarra del nostro Enzo Merogno per lanciarsi in Opera buffa. Poi arrivammo noi, io feci un’introduzione al piano e il nostro cantante Stefano “Lupo” Galifi recitò un pezzo da Così parlò Zarathustra che dovemmo troncare perché il suo accento genovese era troppo marcato. Gli dissi quindi di lasciar perdere e lanciarsi in qualche gesto teatrale alla Peter Gabriel, con l’ausilio della mise psichedelica che sfoggiava.

Sei accreditato come autore delle musiche di Zarathustra, come lo hai composto?
Soprattutto al pianoforte, ma poi insieme agli altri abbiamo sviluppato il tutto e ognuno ha contribuito con suoi spunti. Il concept è una mia idea e i brani da me composti sono L’ultimo uomo, Il re di ieri, parte di Al di là del bene e del male e di Della natura, che prende come modello la band inglese If. Anche Dell’eterno ritorno è tutta mia e per quest’ultima ho mutato qualche ideuzza dai Gentle Giant del primo album. Degli uomini invece si rifà ai Nice, con la parte cantata scritta al volo perché il disco era troppo breve e dovevamo arrivare a un certo minutaggio.

Nasci come tastierista se non sbaglio.
Sì, ho studiato pianoforte e nel gruppo precedente al Museo, La Quinta Strada, suonavo le tastiere. Nel turbinio delle varie formazioni poi mi sono ritrovato a essere bassista, questo perché Pit Corradi, che era chitarra solista sempre ne La Quinta Strada, era passato alle tastiere. Dal gruppo Il Sistema, capitanato da Ciro Perrino, in seguito nei Celeste, abbiamo preso poi il chitarrista Enzo Merogno e il sassofonista Leo Lagorio. Il loro tastierista Floriano Roggero, oltre ad averci donato il suo Hammond L-100, ha contribuito con una sua composizione a un frammento della suite Zarathustra. Leo invece è rimasto con noi fino a quando la Ricordi ci ha chiamato, poi, visto che era più grande di noi e già lavorava, non se l’è sentita di mollare tutto per la musica. Così perdemmo le parti di flauto e sax e le riarrangiammo con gli altri strumenti.

A quel punto per completare il Museo mancava solo il cantante.

Il mio preferito all’epoca era Francesco Di Giacomo e ci sarebbe piaciuto avere una voce simile. Io adoravo il Banco e per un sacco di tempo ho sperato in una collaborazione con Francesco, fino al momento della sua dipartita. Nel 2011 ho anche scritto un pezzo per lui intitolato La coda del diavolo e ho chiesto a Giancarlo Golzi di provare a contattarlo per capire se fosse interessato a interpretarlo. Giancarlo però aveva qualche ritrosia perché il Banco non aveva gradito la versione di Moby Dick fatta dai Matia Bazar, così lasciammo perdere.

Torniamo alla ricerca di una voce per la band.
A un certo punto si presenta Lupo e noi gli chiediamo che musica gli piaccia, lui dice che adora James Brown. Noi rimaniamo un po’ perplessi ma intanto decidiamo di ascoltarlo, così ci lanciamo in It’s a Man’s Man’s Man’s World di Brown e in With a Little Help from My Friends nella versione di Joe Cocker: una meraviglia, Lupo aveva un’ugola pazzesca, rimanemmo tutti a bocca aperta. Poi tentammo l’impossibile, siccome in quel periodo avevamo ascoltato i Family e ci era piaciuta il canto di Roger Chapman, carico di inflessioni blues, abbiamo provato a inserire Lupo nei nostri brani. Fummo tutti sorpresi: funzionava a meraviglia, faceva sound, si adattava in maniera perfetta pur essendo così diverso da una voce prog come quella di Di Giacomo. Da quel punto in poi non abbiamo più avuto dubbi.

All’inizio della suite Zarathustra però la voce non è quella di Lupo, dico bene?
Dici bene: è quella di Walter Franco, un cantante con cui precedentemente avevo un trio formato da me, lui e Giancarlo. Quando abbiamo fatto il disco ci è venuto naturale inserirlo, anche perché la struttura di Zarathustra è dialogica, quindi lui canta e poi Lupo risponde. Più avanti (ne Il re di ieri) c’è anche la voce di Giancarlo e poi un coro, il tutto sempre con le risposte della voce principale.

Nel disco c’è scritto che i testi sono di un paroliere esterno, Mauro La Luce, come mai questa scelta?
Mauro La Luce è un mio amico d’infanzia (oggi lavora a Genova come dentista per bambini) e aveva già scritto dei testi per i Delirium. Io ero iscritto alla SIAE come compositore ma non come paroliere e quindi abbiamo utilizzato come prestanome proprio Mauro. I testi però li ho scritti io e poi sono stati modificati in corso d’opera quando eravamo già a Milano. Il produttore Angelo Vaggi ci disse che a tratti non funzionavano, così un pomeriggio mi sono messo al piano, ho aperto Così parlò Zarathustra e ho preso gli spunti che mancavano.

Cosa ti affascinava di quel libro?
Lo avevo sempre amato, fin da quando avevo 16 anni: non ci avevo capito un tubo ma mi era piaciuto il suo taglio favolistico. Poi ero andato a vedere 2001 Odissea nello spazio e ci avevo ritrovato Richard Strauss con la sua versione musicale che poi avremmo usato come intro per i concerti, insieme a una marcia di Elgar, presa sempre da un film di Kubrick, per il finale. Mi interessava il rinnovato rapporto di cui parla Nietzsche dell’uomo con la natura, tanti spunti che a mio avviso meritavano una versione rock.

Provavate a Bordighera o a Genova?
A Bordighera, solo Lupo ci raggiungeva una volta alla settimana da Genova. Anche il tastierista Pit Corradi poi si è trasferito a Genova ma durante la composizione del disco lavoravamo a stretto contatto io e lui per definire il tutto. Poi si aggiungevano Enzo Merogno da Sanremo e Giancarlo che è sempre stato il nostro batterista, sin da quando ci chiamavamo Peanuts e poi Quinta Strada. Una persona che però è necessario citare per tutta l’avventura di Zarathustra è Bruno Lanteri, quello che a tutti gli effetti era il nostro manager. Noi avevamo l’esperienza accumulata sin da quando suonavamo beat con i gruppi precedenti, senza però Lanteri il Museo Rosenbach non avrebbe potuto realizzare Zarathustra, e lo sottolineo. Lui ci ha comprato il Mellotron che già da solo costava un’enormità, ci ha portati alla fiera di Milano, ha acquistato l’impianto Lombardi appartenuto a Charles Aznavour e ci ha pagato l’appartamento in cui stavamo mentre registravamo. Un personaggio fondamentale.

Com’erano i rapporti con gli altri gruppi della scena ligure?
Avevamo una grande ammirazione per i New Trolls che tutte le settimane venivano a Sanremo, in un localino piccolissimo, il Club 64. A Sanremo c’era anche il Kursaal (di proprietà proprio di Lanteri) nel quale si esibirono sempre i New Trolls, i Panna Fredda, Mal, i Pooh e i Free Love, un grande gruppo purtroppo falcidiato da un tragico incidente automobilistico. Poi c’erano i Trip e i Delirium, con i quali abbiamo suonato al Palasport di Genova nel 1972, luogo dotato di un’acustica terribile. In quella serata c’erano anche i Ricchi e Poveri, abbiamo addirittura una foto con la brunetta.

Museo Rosenbach + Ricchi e Poveri. Foto per gentile concessione di Alberto Moreno

Dopo la delusione del primo album cosa faceste?
Nel 1974 ci rimettemmo al lavoro, la Ricordi ci aveva fatto un contratto per tre dischi, quindi decidemmo di non perdere tempo e tirare fuori qualcosa di nuovo a stretto giro. Avevo in mente di dedicare un concept alle città, c’era un brano su Istanbul e uno che si chiamava Masada, luogo nel quale gli ebrei si erano suicidati per non cadere preda dei Romani. Non eravamo però del tutto convinti della voce, così provammo una cantante, Antonella Maggio, paroliera per tanti grandi successi interpretati da numerosi artisti. La cosa però non funzionò e nel frattempo tutti cominciammo ad avere tutti i nostri impegni, fino a quando la Ricordi si stufò e ci diede il benservito.

Fu in quel frangente che Giancarlo entrò nei Matia Bazar?
Prima andò a militare e poi si unì ai Jet che coinvolsero Antonella Ruggiero, da lì nacque la band. Sono stato felice per il successo che Giancarlo ha ottenuto con loro, ma ti confido una cosa: se a te venisse in mente di chiedermi un parere, mi raccomando poi fai sempre l’opposto di quello che ti dico.

Perché?
Perché quando Giancarlo mi confidò che lo avevano chiamato i Jet io gli dissi: «Ma lascia stare, sono dei canzonettari, sono pure andati al Festival (i Jet avevano partecipato nel 1973 con Anikana-o, nda), fossi in te cercherei di meglio». Per fortuna Giancarlo non mi ha dato retta.

Eh eh, accidenti…
Te ne racconto un’altra. Nella vita ho insegnato lettere e sono stato professore di Sabrina Salerno, che è di Genova ma ha fatto il liceo linguistico a Sanremo nella scuola dove insegnavo. Un giorno viene alla cattedra e mi chiede un consiglio: era il tempo di Drive In, l’avevano chiamata a Canale 5 e non sapeva se accettare. Io le ho risposto «Sabrina, cosa vai a fare in posti del genere? Si approfitteranno di te». Ecco.

Mi sembra che tu nutra una certa avversione per il mondo del pop.
Musicalmente, mi piacciono i pezzi che si sviluppano senza mai tornare sui loro passi, non amo i ritornelli, mi piace che nelle canzoni si trovi sempre qualche nuovo spunto durante gli ascolti. Se ci fai caso infatti in Zarathustra ci sono pochissime riprese di temi, è sempre tutta una costante evoluzione. Poi comunque ho avuto a che fare con quel mondo, ho anche lavorato con i Matia Bazar, nel 1986 sono stato loro road manager, ho seguito diversi tour e alla fine di ogni concerto davo i voti ai singoli musicisti. Mi avevano assunto e io avevo anche mollato la scuola. Dopo un po’ di tempo però non ce l’ho più fatta a mantenere quei ritmi, io sono più stanziale. Giancarlo invece era uno zingaro. Un randagio.

Nel 2013 avete realizzato un nuovo album, Barbarica, poi Giancarlo è mancato, ci saranno ancora nuove cose a nome Museo Rosenbach?
Giancarlo era la forza propulsiva, lo spingeva una grande passione ed era in grado di alternare pop e prog con grande abilità. Con lui, Lupo e altri nuovi e bravissimi musicisti ci siamo rimessi in pista, siamo andati a suonare in Giappone e abbiamo realizzato il nuovo disco. Con la sua dipartita però è venuta a mancare la spinta motivazionale, e ora come ora credo che sarà difficile ricreare un nuovo Museo. Vedremo.

Iscriviti