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Moltheni: «Ai nuovi artisti mancano stile e contenuti»

Il musicista riprende il suo nome d'arte per pubblicare la raccolta di inediti 'Senza eredità'. «Fino al 2000 è stato fantastico. Oggi è tutto un bluff. La discografia è sciocca come chi la gestisce»

Foto: Avida Dollars @nsfilmphoto

A chiunque bazzicasse la nostra musica indipendente prima di dieci anni fa, il nome di Moltheni non può che evocare bei ricordi. Per dire: intorno a quel progetto – coi piedi piantati dentro l’etichetta La Tempesta dei Tre Allegri Ragazzi Morti: più che un’istituzione, all’epoca – c’era ancora una vera scena. E lui, figlio dei ’90, cugino di cantautori come Carmen Consoli e di gruppi tipo La Crus e Afterhours, ne era parte fondamentale, fra folk, pop e psichedelia. Era andato a Sanremo Giovani, pubblicava dischi lodati dalla critica, aveva la propria nicchia di fedelissimi. Posato, ma con la schiena dritta. Poi però, la svolta: nel 2010 quello pseudonimo è finito in soffitta, e il suo autore ha deciso di firmarsi direttamente col proprio nome di battesimo, cioè Umberto Maria Giardini. Altre canzoni, altri tour, altri riconoscimenti. A livello di suoni e riferimenti – al di là di evoluzioni di sorta – è cresciuto, ma non è cambiato. È stato il contesto, semmai, a mutare.

Eppure qualcosa era in sospeso, da allora, tant’è che l’artista marchigiano ha deciso di riportare in vita Moltheni con un album, Senza eredità, che ne raccoglie degli inediti rimasti nel cassetto. «Ed è la chiusura di un cerchio lasciato involontariamente aperto», commenta lui a Rolling Stone. «Ma non è che sono “tornato a essere Moltheni”; quel progetto e quello a nome Umberto Maria Giardini sono entità parallele, ma contemporaneamente diverse. Il primo nasce nella seconda metà dei ’90 ed è legato alla mia giovinezza, non solo dal punto di vista tecnico e stilistico, ma anche nel linguaggio». Al contrario, il secondo è «frutto di una maturazione naturale e oggettiva, ma anche dal fatto che nel tempo è subentrata la necessità di una ricerca, che mi ha portato a rivolgermi a un pubblico meno giovane, più attento e scrupoloso».

Nel dubbio, Senza eredità sembra a tutti gli effetti una geografia di Moltheni: pop-rock (Se puoi, ardi per me), musica d’autore (Ieri), schegge di psichedelia (Sai mantenere un segreto?). Mentre vecchio e nuovo (cioè le parti riscritte, aggiunte, corrette oggi) si fondono in quello che da tempo è il piatto della casa: testi levigati e introspettivi, arrangiamenti curatissimi di chitarre, melodie eleganti che non cedono a soluzioni semplici. Ci sono i ’90; e c’è Umberto Maria Giardini. E ci sono canzoni che magari suonava dal vivo da anni, chieste a gran voce dai fan e finalmente registrate. Spiega: «Nel recuperare i brani da inserire ho come ricomposto un puzzle, riconoscendo tutti i tasselli mentre li avvicinavo». E il disco in questione è – sì – frutto di un lavoro in solitaria, ma «prima di entrare in studio e affidarmi all’esperienza di Bruno Germano, mi sono visto con alcuni collaboratori fedeli con i quali lavoro da anni, come Marco Marzo Maracas, Gianluca Schiavon e Paolo Narduzzo». Insieme a loro, dice, ha definito gli ultimi dettagli, «che poi si sono rivelati determinanti per la riuscita dell’album, che considero perfetto».

E sentire queste canzoni nel 2020 è straniante, ma non meno di quanto sia già avvenuto coi pezzi a nome Umberto Maria Giardini. Nel senso: al di là della continuità fra i due progetti, anche qui si ha l’impressione di trovarsi di fronte al lavoro di un reduce – forse, davvero, l’unico – di un modo di fare orgogliosamente indipendente, alternativo; e che adesso continua, fregandosene delle mode, a produrre con ritmi stacanovisti. Tradotto: l’eventuale distorsione temporale che può comportare Senza eredità, che esce oggi con brani di vent’anni fa, è un problema solo nostro. «Fare musica per me è un processo sempre distaccato dal tempo; le sue influenze non hanno il peso sufficiente per condizionarmi, soprattutto oggi dove tutto là fuori fa cagare», sostiene lui.

Foto: Avida Dollars @nsfilmphoto

Eccoci, allora. Non è certo una novità da queste parti, ma – per chi non avesse capito – anche questi vecchi-nuovi brani, comunque «estremamente pop», trasudano ostilità e resistenza verso il presente. Sin dal titolo dell’LP: «Spero che Moltheni non lasci nessuna eredità; le nuove generazioni sanno benissimo come fare, pur nella loro oggettiva e visibile mancanza di stile e contenuti». Una volta era diverso? «Fino al 2000 è stato fantastico e progressivo: tutto galleggiava da solo e le etichette avevano luce negli occhi; tutto accadeva e accadeva davvero, seppur con ragionevoli tempi dilatati. Adesso invece tutto è un riflesso della rete e dei talent, quindi deviato e profumato di bluff». Ma comunque zero rimpianti: non c’è trippa per nostalgici, qui. Prendere la sognante Estate 1983, squarcio aperto sui quindici anni, la famiglia e l’ingenuità; e chiedere. «Mi mancano i miei genitori; Moltheni e il passato non contano». Pochi dubbi, insomma.

Invece ne La mia libertà, in apertura a Senza eredità come un manifesto, canta: “Oggi cerco ancora la mia libertà”. Certo vent’anni da artista indipendente l’avranno aiutato, un minimo. Ma non sarà neanche stato facile trascorrerli così, anche perché «le dinamiche della nostra discografia sono sciocche come gli italiani che le gestiscono; quindi se tornassi indietro mi comporterei più maleducatamente con persone importanti del settore, a cui ho regalato rispetto che non meritavano». Tipo? «Una volta, nello studio di Mauro Pagani a Milano, incontrai in un corridoio la signora Caterina Caselli. Sarei stato legittimato a sputarle in faccia, invece le sorrisi. Ma sono sereno e fiero di me». Anche perché, riflette, «non ho mai accettato compromessi: la popolarità, così come è intesa oggi, non mi ha mai stuzzicato l’appetito; e non sono mai stata una persona alla ricerca di soldi, e adesso tutti rincorrono quelli». Un bilancio: «La mia coerenza coincide, per l’appunto, con la mia libertà». E se la scena è morta, Umberto Maria Giardini è vivo. Che si chiami Moltheni, o meno.

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