Provare a incasellare i Model/Actriz in una scena specifica è un sforzo senza senso. La band americana – che trascorrerà l’estate in Europa saltando di capitale in capitale per presentare il secondo disco in studio, Pirouette, si colloca tra quei gruppi che prendono ogni definizione facile e la calpestano con foga. I Model/Actriz sono infatti un progetto che mischia elettronica (suonata con gli strumenti), affermazione omosessuale e attitudine punk, rinunciando a ogni mascolinità machista. Fanno musica di una certa durezza, certo, ma citando come ispirazione figure quali Grace Kelly e Liza Minelli.
La loro musica è un balletto di opposti, si muove sempre sul filo sottile che si tende tra nichilismo e piacere, noise e melodia, senso di appartenenza e costruzione del sé. «Per noi venire in Europa è sempre affascinante: è completamente diverso il tipo di pubblico che trovi in Spagna da quello che trovi in Svizzera. Negli Stati Uniti siamo più una mono cultura» ci ha raccontato Cole Haden, il leader («sì, ma solo sul palco») della band, aprendoci le porte della sua casa di Brooklyn prima di un tour che lo porterà in giro fino a fine novembre (passando per in Italia al C2C Festival di Torino l’1 novembre).
Ciao Cole, sei pronto per questo lunghissimo tour europeo?
Sì, in questo momento sono a casa a Brooklyn, ma domenica prossima partiamo per l’Europa. Siamo entusiasti. Inizieremo da Manchester, poi saremo a Parigi e Bruxelles. La venue in cui suoneremo a Bruxelles tra l’altro è uno dei miei posti preferiti di sempre, la Rotonde Botanique. In Italia invece arriveremo l’1 novembre al C2C Festival a Torino, che è uno dei miei festival del cuore.
Al C2C Festival ci avete già suonato, ma per caso sei riuscito anche a vivertelo un po’ in mezzo al pubblico?
Sì, due anni fa. E mi sono divertito molto.
Sei un tipo da festival, quindi.
Mi piacciono i festival, amo andarci con i membri della mia band. Mi piace l’idea di poter incontrare un sacco di persone e conoscere da più vicino le situazioni in cui suoniamo.
Dell’esperienza festival trovo magico essere circondata da persone che hanno in comune la passione per la musica, ma anche il desiderio di condividere il momento. Penso che quella si crei ai festival sia una delle migliori comunità possibili. Oltre a C2C Festival, in Europa avete suonato anche in uno dei festival più importanti, il Primavera Sound. Ci sono altri festival che ti hanno dato qualcosa in particolare?
Sì, ho amato il Primavera in modo assoluto. Con tipico mood spagnolo, andavamo lì alle 2:45 e non lasciavamo il festival fino alle 11:00 del mattino. Anche Le Guess Who, a Utrech, è un festival che mi piace molto, mentre per parlare di States a Salt Lake City c’è il Kilby Court che spacca. Ma tra gli indoor, il mio voto va decisamente al C2C Festival.
Al Primavera Sound l’anno scorso ho sentito alcuni artisti che non avevo mai visto live, come i Mandy, Indiana, Princess Superstar e Dorian Electra. Conoscevo già la loro musica, ma era la prima volta che li ascoltavo in concerto.
Mi racconti qualcosa sul nome della band?
Non c’è un’idea unica tra di noi noi riguardo al nome del gruppo.
E tu che significato gli dai?
Per me indica il modo in cui entriamo nelle diverse stanze della vita, le leggiamo e ci prendiamo l’energia delle persone intorno a noi. Come artisti, la performance è sempre stata la parte più importante della nostra esistenza musicale. Ci mettiamo molta attenzione nel cercare di rendere ogni performance unica rispetto all’energia che il pubblico porta in quella data notte. Il nome è anche stato scelto perché suona bene, ma non l’ho scelto io. Mi piace che evoca un sacco di sensazioni. Ci sono molte cose che dobbiamo ancora scoprire sulla nostra band, così come una modella o un’attrice non è una cosa sola, ma può essere definita in milioni di modi.
Sei d’accordo con la definizione di post-punk con cui viene etichettata la vostra musica?
Penso che se le persone vogliano chiamarla post-punk, non le fermerò, ma non la chiamerei così e non direi che è fatta con l’intenzione di raggiungere questo tipo di canone artistico. Facciamo musica da club, solo che la facciamo senza computer. Se ti piace e la chiami post-punk, non mi interessa, almeno finché ti piace. Ma direi che non lo facciamo intenzionalmente. Apprezzo alcune band della scena punk, come i Death Grips, le Savages, ma quello che mi ispira a scrivere e a esibirmi non è la musica post-punk.
Questo secondo album l’avete intitolato Pirouette, un rimando al balletto francese, ma di french sound nel vostro disco c’è ben poco. L’avete scelto apposta per creare un contrasto tra il titolo delicato e il contenuto piuttosto ruvido?
Sì, l’album parla dell’esperienza di essere gay e di quello che senti in te stesso quando sei alla ricerca della tua identità. Pirouette indica un qualcosa di grazioso e atletico. Ma c’è anche bisogno di una grande quantità di disciplina per capire quanta forza mettere per fare una piroetta senza cadere. Il pubblico ti vede come grazioso, leggiadro, ma non sa quanta forza devi metterci dietro. E penso che la rigidità dei ritmi di questo album, rispetto alle liriche che suonano molto colloquiali, trasmettano proprio la sensazione di una piroetta.
C’è una canzone con cui hai un legame speciale in questo album?
Direi che in questo momento è Baton, ma se la gioca con Vespers e Diva. In realtà non abbiamo mai suonato dal vivo Baton e la scorsa notte l’ho riascoltata pensando a come farla live perché mi piacerebbe suonarla per le mie sorelle. Vespers la amo perché l’ho scritta in trenta minuti e ha una certa euforia. Diva invece è stata la canzone più divertente da scrivere per questo album: l’ho scritta bevendo un bicchiere di vino mentre ero seduto sul divano a ridere.
Se ho ben intuito dalla nostra chiacchierata, possiamo dire che sei un raver a cui piace andare ai festival e frequentare i club. Trovi che la comunità gay si senta accolta nei club eterogenei o che preferisca soltanto il clubbing con un orientamento più LGBTQ+?
Nei club dove vado io ci sono soprattutto persone gay e trans. Non mi piace andare nei club dove ci sono soprattutto etero perché voglio essere circondato da persone che capiscono e conoscono la mia esperienza. Il club per me è sia il posto dove andare a combattere le cose del mondo che mi fanno incazzare sia il posto dove scappare da quelle stesse cose; per me che sono gay è importante viverlo con altre persone gay.
Personalmente trovo che tra club eterogenei e club con orientamento più LGBTQ+ ci sia ancora molta seperazione.
Mi fa riflettere quello che dici perché effettivamente è interessante capire cosa suona gay e cosa no. Sono sicuro che al concerto di Tiësto ci sono persone gay, ma non lo sentiresti mai passare in un club gay perché suona straight. Andy Scott suona gay, ma non c’è un perché. Forse è più un tema di persone, che di musica.
Tiësto suona in grandi venue, con un’audience molto muscolare, e questo forse influenza la percezione che il pubblico gay ha lui come di certi altri artisti. È anche una questione di sentirsi al sicuro: la comunità LGBTQ+ cerca luoghi dove sentirsi bene e dove potersi riconoscere negli artisti gay o trans che hanno di fronte.
Hai in mente un luogo ideale dove ti piacerebbe suonare la vostra musica? Un festival open air, un club raccolto, una venue grande?
Dobbiamo ancora suonare in un luogo veramente grande, sono curioso di vedere se c’è un limite di capienza dove produrre il suono perfetto. Per me il luogo ideale sarebbe un vecchio teatro, come il Talia Hall di Chicago, da 800/1000 persone. Un teatro senza sezioni. Penso sia importante suonare dove non ci siano sezioni separate.
Come vivi la dimensione della band? Pensi che a un certo punto ti lancerai in una carriera solista?
Pubblicherò della musica da solista a un certo punto. Ma mi piace essere in questa band in particolare, non penso che ne avrò mai un’altra. Mi sento fortunato, questa è la prima e unica band in cui condividiamo tutto al 100%, compreso il peso di prendere dei rischi creativi. È un’esperienza veramente condivisa. Per me è un modo per uscire da me stesso perché ti porta ad essere sempre in conversazione con altre persone in cui credi e che si supportano a vicenda.
In una situazione così comunitaria, ti senti comunque il leader della band?
Solo sul palco forse. Quando siamo chiusi in una stanza a scrivere e provare è tutto molto democratico.
Da solista comunque ti diletti già come dj.
Sì, sono anche un dj, e mi piacerebbe suonare di più in verità. Aaron [Shapiro] e Jack [Wetmore] suonano tantissimo in giro, ad esempio. Tutti e tre amiamo la musica elettronica e per noi fare i dj è qualcosa di naturale.
C’è qualche band contemporanea a cui guardi come ispirazione rispetto al vostro genere? Hai menzionato i Mandy, Indiana che trovo eccezionali nella loro capacità di mixare club vibes col post-rock e il noise.
Non guardo a nessuna band contemporanea, ma mi sento attratto assolutamente dalle dive di Broadway come Liza Minnelli, Patti LuPone o Grace Jones. Sono state le mie insegnanti spirituali, le ho guardate come un’ispirazione per diventare quello che sono.
Tutte artiste del passato quindi.
Ho questa passione per le donne di una certa età.
Ormai siete di casa in Europa. Noti una differenza tra il suonare qui da noi e farlo negli Stati Uniti?
L’ospitalità è sicuramente migliore in Europa, così come il cibo e la cultura. Un’altra cosa per me interessante è che negli Stati Uniti sembra di essere in una mono cultura, mentre in Europa è completamente diverso il tipo di pubblico che trovi in Spagna da quello che trovi in Svizzera. Per noi si tratta di trovare ogni volta l’angolatura con cui approcciare la folla, capire cosa cerca dal nostro show, capire cosa gli fa stare bene.