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Moby: «Il mondo delle celebrità è ipocrita, che liberazione non farne più parte»

Essere fuori dai giochi e fregarsene, le crisi esistenziali, il veganismo, il nuovo album ‘Resound NYC’, la funzione del punk-rock, ovvero mettere tutto in discussione: intervista al piccolo alieno del pop

Foto: Lindsay Hicks

Tra il 1999 e il 2000 l’inaspettato successo di Play, album da 15 milioni di copie vendute nel mondo, ha regalato a Moby una vita da rockstar. Con singoli come Natural Blues e Porcelain, facendo confluire la voglia di contaminazione in un’intrigante miscela di elettronica, trip hop, venature soul e ricercati campionamenti blues-gospel, il musicista e produttore newyorkese ha realizzato un album che è un trionfo di idee e inventiva, un’opera che ha impiegato un po’ a conquistare le classifiche, ma che è infine assurta a pietra miliare e colonna sonora di un’epoca.

Non stupisce, dunque, l’idea della Deutsche Grammophon, etichetta impegnata da tempo in un’operazione di svecchiamento (si pensi ai dischi di Jóhann Jóhannsson, Hildur Guðnadóttir, Agnes Obel, Christian Löffler, Hania Rani e Dobrawa Czocher), di chiedergli di rivisitare in forma orchestrale alcuni dei suoi brani. Il risultato è stato l’album Reprise del 2021, seguito ora da Resound NYC, secondo capitolo del progetto che vede Richard Melville Hall alias Moby rileggere una quindicina di brani scritti o registrati nella Grande Mela tra il 1994 e il 2010 con ospiti quali Gregory Porter, Ricky Wilson (Kaiser Chiefs), Margo Timmins e Amythyst Kiah.

«E pensare che da ragazzino mai avrei immaginato che qualcuno mi avrebbe offerto un contratto discografico, figuriamoci con la Deutsche Grammophon», commenta il 57enne rimasto orfano di padre a 2 anni, cresciuto con la madre con pochi soldi e in un ambiente hippie non esattamente attento alle esigenze di un bambino, e che dopo Play, come racconta nella bella autobiografia Oltre ogni limite, è finito in una spirale di droghe e alcol che lo aveva quasi risucchiato.

«Dico sul serio!», esclama in collegamento Zoom da Los Angeles, sua città d’adozione. «Da ragazzo credevo avrei trascorso tutta la vita nella cantina di casa mia a fare musica che nessuno avrebbe mai ascoltato, e che nel frattempo mi sarei laureato per diventare un professore di filosofia. Non mi sarei mai sognato un contratto con l’etichetta più antica e rispettata del pianeta. Per contestualizzare: a metà degli anni ’80 vivevo in una fabbrica abbandonata, facevo il dj in un locale underground il lunedì sera per circa 10 persone, suonavo in un gruppo punk-rock e lavoravo in un negozio di dischi dove uno dei miei compiti era spolverare vinili. Ebbene, ricordo perfettamente l’effetto che mi facevano quelli della Deutsche Grammophon, con l’elegante logo giallo e i dipinti di grandi artisti del passato in copertina: erano raffinatissimi».

La prima proposta di orchestrare brani del suo repertorio gli arrivò cinque anni fa dopo un concerto con la Los Angeles Philharmonic Orchestra. «Una persona della Deutsche Grammophon venne nel backstage per chiedermi se mi andava di incidere quello che è poi diventato Reprise. Ero entusiasta e mi sono anche divertito molto a realizzarlo: lavorare con un quartetto d’archi, una sezione di fiati, un piccolo ensemble orchestrale e dei coristi è stato talmente stimolante che quando mi hanno chiesto un seguito ho accettato al volo. Per me questi due dischi, Reprise e Resound NYC, rappresentano una sorta di connessione proustiana al passato, alla New York che ho vissuto tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio, al mondo di allora, al me stesso di allora».

Chi ha letto il suo memoir sa a cosa si riferisce: nel libro Moby svela con estrema crudezza e lucidità come la conquista della fama sia per lui coincisa con un lungo periodo di ansia e attacchi di panico, eccessi di ogni genere, sesso promiscuo, manie di grandezza e perdita di controllo che lo ha portato ad abitare in un lussuoso attico con vista su Central Park, ma anche ad avere pensieri suicidi. «È che il mondo delle celebrità è intriso in gran parte di disonestà: gli artisti hip hop più cool fingono di non essere emotivi, gli indie rocker più cool fingono di fottersene del successo, le grandi popstar fingono che per loro la vecchiaia non sia un problema. È tutto così ipocrita che è una liberazione non farne più parte. Ma ne sono stato attratto come tanti e la ragione è semplice: tutti cerchiamo un senso nella vita, ma quel senso spesso non riusciamo a trovarlo, e altrettanto spesso avvertiamo una mancanza di amore, di conferme, di certezze; è lì, in quel vuoto, che s’insinua l’idea che diventando ricco e famoso tutte quelle mancanze e insicurezze scompariranno, che ci si illude che successo e popolarità possano risolvere le nostre inquietudini, le nostre crisi esistenziali. Ma sono solo false promesse, le stesse che associamo alla religione, ai soldi, alle droghe. La verità è che l’unica risposta ai nostri problemi esistenziali è l’accettazione: guardare la realtà in faccia e riconoscere che le crisi e l’incertezza sono aspetti inevitabili della condizione umana».

Parole sagge di un artista onnivoro di musica, che si è lasciato alle spalle i suoi demoni e che dalla sobrietà ritiene di avere «imparato qual è il cuore di ogni dipendenza e pure del materialismo. Non so se è un discorso troppo esoterico, ma per me tutto sta in quel pensiero magico che fa sì che ci convinciamo di poterci permettere qualsiasi cosa senza pensare alle conseguenze e senza prenderci le nostre responsabilità. Non sono nella posizione di giudicare nessuno, ma è più facile pensare di poter fumare tutta la vita senza ammalarsi che smettere di fumare, no?».

Vengono in mente i versi di Extreme Ways: “Extreme ways that help me, that help me out late at night, extreme places I had gone, but never seen any light”, recita il testo dell’unica canzone inserita sia in Reprise, sia in Resound NYC, album diversi per più motivi, spiega Moby: «Per Reprise avevo collaborato con la Budapest Art Orchestra e in maniera tradizionale, registrando solo strumenti classici con microfoni ad hoc, in uno studio favoloso. Per Resound NYC, invece, mi sono inventato per ogni brano un’orchestrazione su misura, in alcuni casi più tradizionale, in altri meno, nel senso che magari ho usato un mellotron o un sintetizzatore analogico combinato con archi veri. Non volevo limitarmi, volevo essere libero di forgiare una palette sonora differente a seconda della traccia da reinterpretare».

In effetti il nuovo disco è interessante proprio perché mette perlopiù da parte l’approccio sinfonico per tingersi di funk, soul, jazz, rock a seconda degli episodi. E come già in Play, in questa raccolta di riletture dal sound potente affiora anche l’amore di Moby per la musica gospel. «Ma non come forma di espressione cristiana, bensì come un linguaggio umano legato a una dimensione spirituale in senso ampio», precisa il producer e multistrumentista americano, che verso i 20 anni si era convertito al cristianesimo, salvo poi ricredersi. «La storia delle religioni è complessa e io ormai non mi fido più di nessuna tradizione che tratti la spiritualità come un tifoso tratta la sua squadra di calcio del cuore. Della serie “io tifo Manchester United”, “io per il cattolicesimo!”: no, non fa per me».

Scoppia a ridere, per poi chiarire che «la cristianità moderna non ha nulla a che vedere con l’insegnamento di Cristo» e che comunque negli anni a ispirarlo maggiormente da un punto di vista filosofico è stato, semmai, il Daodejing, testo taoista scritto da Lao Tzu tra il IV e il III secolo a.C. «È il libro su cui sono tornato più spesso nel corso della mia vita, la prima volta l’ho letto a 14 anni e continuo a riprenderlo in mano, racchiude una saggezza straordinaria».

La conversazione si sposta su Mark Lanegan, al suo fianco in Reprise non molto prima di morire. «Quando ci ha lasciati ho provato una tristezza enorme, ma ho anche pensato a quando mi confidò che cantare un pezzo (The Lonely Night, nda) con Kris Kristofferson, suo idolo assoluto, per lui era un sogno che si avverava: sono contento di aver potuto regalargli quell’occasione. Io e Mark ci sentivamo vicini non solo per la musica, ma anche perché entrambi abbiamo avuto problemi di dipendenze che siamo riusciti a superare: so cosa ha passato e mi ha dato fastidio sentire gente sostenere che ad ammazzarlo sia stata un’overdose; è indubbio che certi eccessi lascino strascichi, però so che era pulito da tempo».

Ma cosa significa oggi fare musica, per Moby? Ossia per un artista che, come dimostra il sodalizio con la tedesca Deutsche Grammophon, è sì diventato un classico, ma che dopo 18, l’album successivo a Play, non ha più raggiunto certe vette. «È una domanda molto bella per uno che ha dedicato l’intera esistenza alla musica come me. Io stesso me lo sono chiesto più volte: perché e come ho fatto musica da teenager? E dopo i 20 anni? E dopo il boom di Play che mi ha trasformato in una rockstar? E dopo i 50? Quando mi sono innamorato della musica di anni ne avevo appena 3: sentii i Creedence Clearwater Revival alla radio e non ricordo niente se non che percepii qualcosa di magico. Da allora è come se quella magia non si fosse più spenta: ho amato la musica per tutta la vita. In questo ha giocato un ruolo fondamentale anche la fascinazione per il mondo della musica, il che, quando ero adolescente io, significava frequentare i negozi di dischi, ascoltare le radio universitarie, andare ai concerti e conservare locandine e biglietti, risparmiare soldi per comprarsi la maglietta della propria band preferita, uscire di testa nel leggere una recensione o l’annuncio di un nuovo disco su Rolling Stone o su Creem Magazine. Tutte queste cose che ruotavano attorno alla musica mi seducevano tanto quanto la musica in sé. La differenza è che oggi quest’ultima mi interessa ancora profondamente e la vivo come un rifugio spirituale da una realtà a tratti terrificante, mentre di quel che le gira attorno – sarò sincero – non me ne frega più niente».

In tutto ciò, se la musica è rimasta – a gennaio Moby ha pubblicato anche un disco ambient – è rimasto anche il veganesimo, abbracciato dal nostro nel lontano 1987 e adesso sua priorità assoluta. «Amo la musica, adoro fare musica, ma il mio mestiere attuale è quello di attivista con una missione: provare a convincere il maggior numero di persone a smettere di uccidere animali innocenti. Viviamo in una società dominata da egoismo e rabbia, e a me di questo tipo di società non interessa, mi preme solo proteggere il trilione di animali che vengono fatti fuori dagli esseri umani ogni anno. C’è anche la questione dei cambiamenti climatici, rispetto ai quali l’industria della carne, con gli allevamenti intensivi e tutte le attività annesse, è una delle maggiori cause, ma personalmente se sono vegano è perché non voglio essere complice della sofferenza e della morte di altri esseri viventi».

È quanto emerge anche dal recente Punk Rock Vegan Movie, ottimo documentario scritto, diretto e prodotto dallo stesso Moby e distribuito gratuitamente online. Nel film, affiancato dalla sua cagnolina Bagel («l’essere più meraviglioso del pianeta!»), il musicista intervista artisti come Ian MacKaye (Minor Threat, Fugazi), H.R. (Bad Brains), Dave Navarro (Jane’s Addiction), Tim McIlrath (Rise Against), Steve Ignorant (Crass) e Captain Sensible (Damned), sviscerando il legame tra le battaglie per i diritti degli animali, il punk-rock da lui tanto amato e frequentato anche da musicista (in primis con i Vatican Commandos e nel ’96 con l’album Animal Rights) e il movimento straight edge.

«Il paradosso» osserva Moby «è che se mettessi 100 persone in una stanza e chiedessi loro chi ama gli animali alzerebbero tutte la mano, e lo stesso accadrebbe se chiedessi chi odia il fatto che li ammazziamo, gli animali. Mentre se domandassi chi è vegano le mani alzate sarebbero poche. Eppure se ci tieni agli animali e non vuoi che soffrano per mano nostra la soluzione è semplice: smettila di essere complice. Invece vedo tantissimi non vegani che in teoria concordano con i vegani, ma che non hanno il coraggio di modificare le proprie azioni. Spero che le cose cambino, purtroppo devo constatare che l’unico post che mi è stato censurato e cancellato in automatico su Twitter è stato uno in cui dichiaravo che le pandemie odierne sono il risultato del fatto che utilizziamo gli animali come cibo e per produrci scarpe e vestiti. Ma si tratta di una verità scientifica: le pandemie del futuro saranno zoonotiche, causate da virus o batteri che faranno salti di specie da animale a uomo, e se questo succede è perché sfruttiamo gli animali intrufolandoci nei loro habitat e uccidendoli per i nostri comodi».

A proposito dell’etica punk-rock di cui si è nutrito sin da teenager, afferma: «Hai presente la frase dell’architetto belga Mies van der Rohe secondo cui la forma segue la funzione e non il contrario? Quando si parla di punk-rock la maggior parte della gente si concentra sulla forma, dunque sulla musica, sulle canzoni, sui concerti, sugli stage diving, sulle urla, tutte cose che piacciono anche a me, ma per quanto mi riguarda ciò che ha sempre contato più di tutto è la funzione del punk-rock e quella funzione coincide con la messa in discussione di qualsiasi istanza: della politica, della moda, dei generi, dello stile alimentare… Se ho ascoltato e ascolto tuttora tanto punk-rock è perché i testi sono frutto di uno scetticismo e di un pensiero critico che a me hanno dato tanto, che mi hanno trasformato. Alla base c’è un’idea: lo status quo non è generalmente niente di buono ed è potenzialmente privo di etica».

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