Ministri: «Usiamo il rock per dirvi che non va tutto bene» | Rolling Stone Italia
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Ministri: «Usiamo il rock per dirvi che non va tutto bene»

Vanno i computer? Loro usano le chitarre. Non si fanno concerti? Loro pubblicano un EP, 'Cronaca nera e musica leggera', «troppo rock». Tutti la buttano sull'ottimismo? Loro cantano lo spaesamento post pandemia

Ministri: «Usiamo il rock per dirvi che non va tutto bene»

I Ministri

Foto: Chiara Mirelli. Abiti: Nicolò Cerioni

Hanno cambiato look, ma la sostanza è la stessa di sempre e non lascia indifferenti. Con l’EP Cronaca nera e musica leggera i Ministri escono dal silenzio per dirci la loro su questo mondo colpito da una pandemia che non ha solo messo in ginocchio moltissimi lavoratori, come sappiamo anche in ambito musicale, ma che ha anche provocato una crescente polarizzazione delle opinioni e forse persino la scomparsa di una qualche verità condivisa. La confusione regna sovrana, che si fa?

Alle spalle 15 anni di attività, il trio milanese risponde con quattro brani prodotti con Ivan Antonio Rossi (Baustelle, Zen Circus): scariche rock come sempre in equilibrio tra potenza del suono e orecchiabilità, che Davide “Divi” Autelitano (voce e basso), Federico Dragogna (chitarre) e Michele Esposito (batteria) presenteranno l’8 luglio con un concerto al Magnolia di Milano. Altre date arriveranno, per fortuna, intanto li abbiamo incontrati per farci raccontare delle gorgiere e dei guanti in lattice bianchi che gli ha messo addosso Nicolò Cerioni – stylist già al lavoro con Achille Lauro e i Måneskin, tra gli altri – nel video del singolo Peggio di niente. E di come si stanno vivendo questo periodo in cui s’intravede una ripartenza, ma si ha quasi paura a parlarne.

Partiamo dal titolo Cronaca nera e musica leggera: cosa c’è sotto?
Divi: La nostra ovviamente non è una critica contro la musica leggera, semplicemente ci sembra che la tendenza ad adattarsi alla contingenza offrendo caramelline dolci e mettendo da parte gli aspetti più duri della vita, che però sono i più veri, abbia contagiato anche la musica, come se ci fossero cose di cui nelle canzoni è meglio non parlare. Nei mesi scorsi si è provato a buttarla sull’ottimismo, ma pian piano ci siamo resi conto che non era il caso di edulcorare il senso di spaesamento e disorientamento che la pandemia ha portato nelle nostre vite. E il fatto di restare fedeli a questa scelta sonora ormai ardita che è quella del rock serve a ribadire il concetto che è importante parlare di ciò che ci accade veramente a partire dalla cronaca, dall’attualità.

Uno dei temi dell’EP è il modo in cui la pandemia ha acuito le contrapposizioni e la diffidenza tra le persone. “E poi improvvisamente ho visto gente normale calpestare altra gente”, dite in Peggio di niente.
Michele: Sì, perché in questo anno si è visto di tutto, dalla gente che durante il lockdown guardava male chi usciva di casa ai vigili che facevano multe a persone che magari erano fuori per un attimo in più di quel che si poteva. E ci è sembrato tutto assurdo, senza senso. Voglio dire, nonostante lo spavento dovuto all’arrivo del virus, non mi verrebbe mai in mente di denunciare qualcuno perché va a farsi un giro. Volevamo sottolineare questa assurdità, volevamo dire che non è possibile comportarsi così, che a tutto c’è un limite oltre al quale non si può andare.

Non che i media abbiano aiutato, da questo punto di vista: di fronte a un evento così drammatico si è optato per una cronaca minuto per minuto che ha gettato tutti nel caos.
Federico: Di questo, oltre che di quello che diceva Michi, parliamo in Bagnini. Dove, però, diciamo anche un’altra cosa: data la quantità enorme di dati e informazioni che abbiamo, non possiamo aspettarci né da noi stessi, né dagli altri, di avere delle visioni chiare su questa situazione. Cioè, se in Peggio di niente il punto è che c’è un limite che non va superato, in Bagnini c’è tutto sommato un’indulgenza legata alla consapevolezza che di fronte a tanta complessità dovremmo tutti accettare un po’ di più il dubbio. Perché il paradosso è che questa confusione sta portando a schieramenti netti in cui tutti sono convinti di avere la verità in tasca.

Dite tutto questo con un EP in perfetto stile Ministri, forse più vicino ai primi album della band che agli ultimi due. O no?
Federico: Ma sai, per noi è difficile fare questi discorsi, è un po’ come quando incontri la zia che non ti vede da tempo e ti dice quanto sei cambiato e tu non capisci bene a cosa si riferisca. La verità è che non ci siamo mai sentiti diversi da com’eravamo agli inizi. In questo caso direi, semmai, che l’incontro con Ivan Rossi, con cui abbiamo lavorato su tutto il materiale, incluso quello che verrà poi, ci ha aiutati a fare esattamente ciò che avevamo in mente. O forse che abbiamo sempre avuto in mente. Ossia a unire potenza e controllo, a trasmettere le sensazioni che il pubblico può provare quando viene a un nostro concerto, quindi la spinta, ma con la definizione che la registrazione di un album consente.

Come ci avete lavorato, a queste canzoni? A distanza?
Federico: No, no, appena si è potuto, forse anche prima che si potesse, verso metà aprile dell’anno scorso, abbiamo cominciato a uscire di casa e a dribblare chiunque per ritrovarci in saletta.

La grande fortuna di voi musicisti in tempi di Covid: le salette e gli studi dove suonare.
Federico: E pensa che mentre mixavamo l’EP, nella saletta di fianco c’era questa giovane band che in quel periodo aveva ricominciato a suonare e faceva cose tipo Nirvana e System of a Down. Una cosa che ci ha ridato un po’ di fiducia.
Michele: Non solo, lo studio dove abbiamo mixato, che è quello di Ivan Rossi, è nello stesso posto dove andavo a prendere lezioni di batteria quando avevo 14 anni. Un bel revival…

No, non è un saggio Einaudi, è l’EP dei Ministri

La copertina dell’EP e quella del singolo Peggio di niente omaggiano due collane della casa editrice Einaudi – Piccola Biblioteca Einaudi e Nuovo Politecnico – note per il progetto grafico di Bruno Munari: bellissima idea, com’è nata?
Federico: Esattamente come un omaggio. Avevamo tirato giù un po’ di idee, per l’immagine di copertina del disco; quelle legate ai libri sono sempre mie, sono io il noioso del gruppo, noioso e un po’ “settantiano”. La cosa bella è che quando abbiamo svelato la cover chi conosceva Munari ne ha colto subito il senso, ma anche i più giovani, i ragazzi che non avevano idea di chi fosse, ne sono rimasti colpiti, il che vuol dire che la sua opera dura nel tempo. E poi il titolo Cronaca nera e musica leggera sembra il titolo di un vecchio saggio Einaudi, no?

Date le polemiche dei mesi scorsi sulle attività cosiddette essenziali e quelle che non lo sarebbero, mi sono venute in mente le Macchine Inutili di Munari, opere che avevano proprio l’obiettivo di far riflettere sull’inutilità di ciò che è utile e sull’utilità di ciò che è inutile.
Federico: Anche il suo libro Arte come mestiere è interessante da questo punto di vista. Non ci era mai capitato di sentirci come ci siamo sentiti soprattutto durante il primo lockdown, la pandemia ha fatto emergere chiaramente quali sono le gerarchie dell’Italia: dove si collochi il calcio non c’è nemmeno bisogno di dirlo e l’arte… l’arte nel nostro Paese sono i musei.

Anche la Scala, dai.
Federico: Sì, ma insomma, il punto è che si è parlato pochissimo di chi fa musica, e musica nuova, e tantissimo di musei.
Divi: In più c’è stato questo mettere tutto sotto il termine spettacolo, e lo spettacolo comprende anche i giostrai: vederci messi di fianco a categorie così diverse e lontane dalla nostra è stato strano ed è qualcosa che ha confuso le acque. Perché c’è tutto un mondo, all’interno dell’ambito dello spettacolo, che è anche cultura.
Federico: Oltretutto per noi non si può ridurre tutto al guardarsi il film a casa da soli sul divano o al sentirsi un disco da soli a casa. No, la cultura sta nel guardare i film assieme, immergersi nella musica assieme. Proprio come quando si parla di food non ci si riferisce a me che mi mangio il formaggio dalla scatola, ma alla cultura che si è sviluppata negli anni attorno al cibo e che non prescinde dall’aspetto della condivisione. Fatta questa premessa, la verità è che se togli lo spettacolo e la cultura dalle nostre vite quello che rimane è pochino. Per cui finisce che non vale nemmeno più la pena di vivere in città, in mezzo al cemento. Se ciò che resta è solo nutrirsi e arrivare a fine giornata, allora scappiamo in campagna.
Michele: In effetti molta gente durante i periodi di lockdown è scappata da Milano, e secondo me saggiamente. Milano senza cultura e senza eventi si riduce a una scatola vuota, piena di cemento appunto, non così desiderabile.
Divi: Il problema, comunque, era in parte già presente prima del Covid e delle restrizioni, con la tendenza a gestire tutto il discorso musica puntando su mainstream e palchi grossi. E sui palchi grossi di fatto non si fa cultura, la cultura necessita di altre dimensioni.

Diciamo che le piccole realtà che nei prossimi mesi saranno preziosissime sono le stesse che negli ultimi anni erano state un po’ bistrattate…
Federico: Vero, la pandemia non ha fatto che accelerare certi processi, e non solo nella musica. Questo discorso vale per tutto il mondo dell’economia, e forse è lì che i complottisti più ciechi sbagliano il ragionamento di causa-effetto. Mi spiego: questa pandemia non è che l’ha fatta Amazon, semmai l’emergenza sanitaria ha dato forza a tutte delle cose – Amazon, le consegne a domicilio con i rider, Netflix e così via – che stavano funzionando e crescendo già prima.
Michele: Aggiungerei che storicamente è sempre stato così, sono sempre i più forti ad avvantaggiarsi delle grosse crisi. Poi ovvio che i fattori che s’intrecciano sono tanti e che di fronte a una complessità difficile da capire per chiunque c’è chi grida al complotto.
Divi: Finirà che qualcuno dirà che è stata Amazon. Anzi, la Cina via Amazon (ride).
Federico: Del resto, battute a parte, anche solo pensare che un virus abbia fatto il salto di specie da pipistrello a essere umano non può non farci capire che se siamo arrivati a quest’epoca di pandemie possibili è a causa del nostro modello di sfruttamento della natura. Non vedo come si possa tenere assieme l’idea di un mondo libero e green senza che quel modello venga rivisto in modo sostanziale.

In tutto ciò voi Ministri avete cambiato look, affidandovi a Nicolò Cerioni, stylist per Achille Lauro, Måneskin, Orietta Berti… Come mai avete deciso di dire addio alle giacche napoleoniche di seconda mano che per 15 anni sono state la vostra divisa? Non me l’aspettavo, questa.
Federico: Prima di tutto c’è stato l’incontro con Cerioni, che è stato un po’ il game changer della questione.

Ma casuale o l’avete cercato?
Federico: Un po’ casuale: tramite un’amica comune abbiamo scoperto che lui ascoltava i Ministri, e molto, così abbiamo pensato di scrivergli. E quando ci siamo incontrati abbiamo scoperto una bella persona, davvero molto appassionata del suo lavoro.
Michele: Ci siamo resi conto che, nonostante facciamo cose diverse, lui lo stylist e noi i musicisti, a livello di visione del mondo e di comunicazione, visto che a entrambi piace veicolare messaggi in maniera un po’ provocatoria, c’è una comunanza d’intenti.
Federico: Insomma, ci piaceva che tu vedendoci vestiti così rimanessi perplessa.

Più che altro mi viene da chiedermi cos’è la provocazione nel 2021: me lo dite voi?
Federico: I Ministri che si tolgono la giacca (ride).

E indossano camicia con gorgiere, pantaloni e guanti in lattice bianchi: come ci siete arrivati, a questa estetica?
Federico: È nato tutto dal video di Peggio di niente. Prima, con il regista Marco Pellegrino, abbiamo pensato al video e dopo a Nick abbiamo detto: ok, vogliamo una roba un po’ alla Barry Lyndon ma – per usare un aggettivo che va tanto oggi – distopica. E allora lui ci ha detto: gorgiere. E noi: e cosa sono?! Poi, vabbè, il lattice l’ha aggiunto lui, così come altri tocchi, ma insomma, tecnicamente è venuto prima il video del look.

Il videoclip richiama La grande abbuffata di Marco Ferreri, e vedendovi abbigliati così ho pensato anche ad Arancia meccanica.
Federico: Guarda, la gente ci ha visto di tutto: «ah, è il video dei Travis», «no, è come il video della band di mio cugino». A parte questo, volevamo dare l’idea di spreco e anche un po’ di Miseria e nobiltà, uno dei film che omaggiamo assieme a quelli citati. Dopodiché si tratta sempre di mostrare quanto ci tieni alla tua musica e per farlo ti sottoponi a torture come bere litri di sangue per ore. È stato abbastanza hardcore.

Sangue alias pomodoro?
Federico: Magari! Era una roba fatta di cioccolato e coloranti artificiali, e immaginati di doverla mangiare con i peperoni. Tra l’altro il playback lo abbiamo fatto a fine giornata, alle 9 di sera, dopo aver ingurgitato sangue per sei ore di fila. Il giorno dopo eravamo distrutti.

Però non vi ci vedo vestiti così sul palco.
Federico: Chi lo sa!
Michele: Guarda, io in questo momento su un palco ci andrei vestito persino da Maria Antonietta!

Come darti torto? Cos’è che vi manca di più, dei concerti?
Michele: Lasciando stare che sono la nostra fonte di approvvigionamento, a me mancano il contatto con le persone e il fatto di poter vivere sempre nuove esperienze. Perché ogni concerto è a sé, si tratta ogni volta di spostare l’asticella un po’ in più in là sia tecnicamente, sia emotivamente. E tutto questo è benzina per il mio essere.
Divi: E poi considera che noi viviamo la musica come un grande gioco, e nel nostro gioco sono coinvolte persone che sono sì professionisti, ma che per noi sono anche amici. Detto questo, il pubblico è l’ultimo depositario di questo meccanismo, è inevitabile che tutto questo flusso debba trovare come ultimo tassello la gente che ti viene a vedere dal vivo. E la musica senza gente non è musica.
Federico: A me manca tantissimo quando, a fine concerto, distrutti, un tempo brilli, negli ultimi tour meno, si andava alle transenne a fare gli autografi o a beccare i fan. E tra l’altro in quei momenti abbracciavamo chiunque.

Abbracciavate gli estranei, sembra incredibile, no?
Federico: Ah, io questo tornerò a farlo anche prima che si possa. Ovviamente col consenso di chi ho davanti.
Michele: Bisognerà vedere quanta gente sarà davvero tranquilla, perché inizialmente, quando i concerti torneranno senza distanze né mascherine, sarà strano. Mi spiace, Fede, ma può essere che tu vorrai abbracciarli, ma loro scapperanno.
Federico: Scapperanno tutti e mi lasceranno solo (ride). Allora, però, mi devo immaginare anche uno stage diving di Divi con tutti che si spostano…
Divi: Ma no, dai, avrò su la mascherina, la metterò apposta!

Cronaca nera e musica leggera è il vostro secondo EP, il primo è stato La piazza del 2008: che valore date a questo tipo di formato?
Michele: Pubblicare un EP significa rispondere a un’urgenza. Non è un disco intero, ma nemmeno un brano solo; hai abbastanza pezzi per costruire un discorso e dire quello che vuoi dire qui e ora, senza aspettare. E noi in questo periodo ci siamo sentiti un po’ come ai tempi di La piazza: allora era nato tutto da riflessioni sul G8 di Genova, qualcosa di molto forte, come forte è stato l’impatto che ha avuto la pandemia sul nostro stato emotivo.
Federico: Esatto, è così, e anche con La piazza ricordo che avevamo detto alla Universal che volevamo uscire in quel momento, senza attendere chissà cosa, senza strategie. Perché ok, i problemi si pongono, per esempio di Cronaca nera e musica leggera si potrebbe dire che è un disco troppo rock per dei concerti contingentati e con la gente seduta come quelli che faremo, ma amen, chi se ne frega, anzi, proprio per questo abbiamo deciso di farlo ancora più straight. Mi fa ridere pensare a La piazza perché ricordo che uscì in un periodo in cui stava già avanzando l’hip hop, i Club Dogo andavano già fortissimo e noi in Fari spenti dicevamo che in tutto ciò ci sentivamo un po’ dei boy scout, perché invece stavamo lì a giocare con le chitarre. Dopo in effetti le chitarre sono diminuite, ora non so cosa succederà.
Michele: Le hanno vendute tutte, le chitarre, Fede, si sono comprati dei vocoder.

La title track di quell’EP del 2008, che nel 2011 avete inserito nella ristampa del vostro album d’esordio, è un pezzo ancora potente e molto significativo. Tra l’altro quest’anno sarà il ventesimo anniversario del G8 in cui morì Carlo Giuliani, ne ho parlato di recente con Finaz della Bandabardò. A distanza di anni che effetto vi fa ripensare a quello che dite in quel brano?
Federico: Il testo di quel brano parlava di come in quegli anni ci si stesse allontanando dalle piazze, del fatto che quanto accaduto a Genova nel 2001 aveva portato la paura nei movimenti. Non era un’analisi delle istanze dei no global, nulla del genere, e però oggi è buffo vedere come certe di quelle istanze abbiano cambiato segno e bandiera, è come se ci fosse stato un rimescolamento molto complicato di tutti i concetti allora al centro del dibattito: il locale, il globale… Adesso penso che, più che tirare fuori la stessa bandiera di 20 anni fa, visto che quella bandiera ormai vuol dire cose diverse, ci si debba prendere del tempo per creare una nuova mappa.

Nel frattempo Spotify ha monopolizzato il mercato discografico: non è il momento di avviare una battaglia seria per far sì che gli artisti guadagnino di più dagli streaming? Avete qualche idea?
Michele: Se penso alle cifre irrisorie che ci arrivano da ogni ascolto, mi viene da dire che era meglio quando la gente scaricava musica illegalmente e gratis. Perché facendo pagare quella minima cifra di abbonamento annuale per avere tutto e subito si è fatto in modo che la maggior parte delle persone non compri davvero più niente. Ho sentito parlare di un’iniziativa chiamata The Pact, una sorta di accordo generale che si vorrebbe fare con le piattaforme di streaming per garantire maggiori guadagni agli artisti. Vedremo, di sicuro serve una distribuzione più equa. Ma del resto quello della redistribuzione della ricchezza è un problema generale della nostra società.
Divi: Che poi non so se è questione generazionale, però di fatto un tempo ci si batteva per il proprio lavoro e i propri diritti, mentre oggi c’è una malsana accettazione di quella che è l’imposizione di una multinazionale. Sarebbe sicuramente il caso di fare qualcosa, ma è anche vero che tutti questi numeri di streaming generano dei vincitori e dei vinti: bisogna capire se i vincitori hanno voglia di rinunciare a qualcosa.

Cito da Cronaca nera e musica leggera: “Non fare figli se non hai nonni”, “non far l’artista che poi te ne penti”, “non far la lotta che poi ti stanchi, non far rumore che poi ti svegli”.
Federico: Diciamo quelle cose perché negli anni ’90 si sognava, almeno a parole, ma adesso è praticamente impossibile. E poi non sarà cool per un musicista parlare di asili nido, ma quando Michi è diventato padre lo abbiamo visto coi nostri occhi quanto sia dura oggi diventare genitore se non hai un appoggio.
Michele: Se non ci fosse stata mia madre non so come avrai fatto.

Chiudiamo con un consiglio di lettura: delle collane Einaudi con le grafiche di Munari c’è un libro che abbinereste a questo vostro EP?
Federico: Un libro che era stato fondamentale anche per Tempi bui: Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno.

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