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Mephisto Ballad, Maroccolo e Aiazzi: «Siamo posseduti dal demone della musica»

I due musicisti sono partiti da una festa di carnevale dark del 1982 per elaborare i brani del nuovo album, che rievocano l’essenza dei primi Litfiba. In anteprima il video di 'Mephisto Ballad'

Foto: Cesare Dagliana

Che sia un “tardodiscodark” o un omaggio ad anni ruggenti di creatività selvaggia, Mephisto Ballad è forse l’espressione più pura di ciò che rappresentarono i primi Litfiba, anche se stavolta non sono presenti tutti i componenti del gruppo.

A 40 anni dalla nascita di una band che ha segnato la storia della musica italiana, 39 anni dopo un evento rituale come la Mephistofesta, anticipiamo il video del singolo che preannuncia l’uscita il 26 febbraio di un disco bello e tenebroso, inquietante e avvolgente, ipnotico e struggente, realizzato da Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo. Otto tracce faustiane a cui partecipano anche Flavio Ferri ai synth e alle chitarre e Giancarlo Cauteruccio nelle vesti di diabolico corifeo.

Come ha spiegato lo stesso Ferri, il video di Mephisto Ballad non è altro che l’inizio dello sviluppo di un’idea che vuole essere decisamente più ampia e che prenderà la forma di un «cortometraggio visionario». Parla di un mondo diverso da quello a cui siamo abituati, è ambientato in un paesaggio surreale, marziano. 

Mephisto Ballad è un cerchio che si chiude. Un frammento che riemerge dalla storia. Un viaggio alla ricerca del mito fondativo, nato in quella Firenze dei primissimi anni ’80 in cui si respirava la stessa aria di un’Europa travolta dall’ondata dark e new wave. Era il carnevale del 1982 quando a Firenze il giornalista e animatore culturale Bruno Casini e i Litfiba diedero vita alla Mephistofesta, una performance tra reale e metafisico, tra il macabro e il grottesco. Di quell’evento non esistono foto o video, ma rimane scolpito nella memoria di una generazione e nella mitologia di quelle successive.

Una serata onirica, con il sapore del teatro espressionista, una festa noir cupa e ossessiva in cui la band di Via de’ Bardi suonò Men in SuicideTradimento e soprattutto la magnetica E. F. S. 44 Ethnological Forgery Series, poi pubblicata nel primo EP del gruppo. Da questa traccia, uno dei brani più estremi dei Litifba, ripartono Aiazzi e Maroccolo, sviluppandola nella forma di una suite di oltre 16 minuti, per celebrare il lato più sperimentale della band. Senza, però, alcuna nostalgia. Piuttosto con la sensibilità di oggi, costruendo un lavoro che ruota attorno al pianoforte dell’uno, segnato dal minimalismo che va da Nyman a Glass, al basso dell’altro, immerso nelle atmosfere del suo progetto in continuo sviluppo, il “disco perpetuo” Alone.

Ne abbiamo parlato con i due ex Litfiba, i quali hanno spiegato da dove è nata la voglia di tornare alle origini e in fondo in fondo a quel demone che aleggia ancora sopra la loro testa.

Dopo 40 anni di musica, se vi guardate indietro cosa provate?
Aiazzi: In realtà con Gianni sono quasi 45 anni, ormai, visto che suonavamo insieme anche prima dei Litfiba. Abbiamo avuto un percorso privilegiato, facendo un lavoro che ci ha fatto conoscere il mondo, un sacco di gente, permesso di viaggiare e fare tante esperienze. È un ricordo molto forte di tutto quello che abbiamo passato. È vita. E la musica ci ha reso felici, per cui meglio di così non so cosa avrei potuto desiderare.

Maroccolo: Dal mio punto di vista, purtroppo tante cose che ho vissuto insieme ad Antonio o con altri le ho proprio bruciate senza godermele. Come dei dischi che ho prodotto o dove ho suonato che ho risentito solo dopo 25 anni. Non ho mai desiderato fare il musicista, suonavo una chitarraccia in casa, però pensavo che avrei fatto altro. Invece si è trasformata in un mestiere senza rendermene conto. Nel 1985 quando è uscito Desaparecido facevo ancora il cuoco, per cui solo in quel momento mi sono buttato. Ha ragione Antonio, è stata una esperienza che mi ha aperto la mente avendo la possibilità di viaggiare tantissimo.

45 anni di musica e 45 anni di amicizia. Cosa apprezzate di più l’uno dell’altro?
Maroccolo: Intanto siamo due tori dal punto di vista astrologico. Io amo la sua sensibilità musicale, il fatto che riesca a tirare fuori note e atmosfere che non sono mai fuori posto. Nella vita normale, anche nei periodi critici dei Litfiba, il nostro rapporto non è mai stato messo in discussione. Siamo i fratelli che non abbiamo avuto l’uno per l’altro, visto che abbiamo solo sorelle. Lui riesce a farmi sentire a casa. E anche se siamo due taciturni ci capiamo al volo, tutto frulla alla perfezione.

Aiazzi: Gianni mi completa, quello che non riesco a tirare fuori io so che lo farà lui. È vero che parliamo molto poco, ma d’altronde quando le cose funzionano non c’è bisogno. Si mangia insieme, si parla della vita vissuta, ma di musica molto poco.

Foto: Cesare Dagliana

Veniamo all’album. Mephisto Ballad lo avete definito «il nostro tardodiscodark». Perché questa esigenza nel 2021?
Maroccolo: Il mondo è cambiato e ne sono felice. Mi eccitano, mi emozionano e mi spaventano i cambiamenti, ma vanno vissuti. Sono il sale della vita. Non si può pensare di rimanere nel passato. Allo stesso tempo a 60 anni non si può fare neanche fare la trap. Siamo consapevoli di quel che ci gira intorno, delle mutazioni, ma questa è una scommessa. A me ha rotto le scatole questa cosa di dover etichettare tutto con i generi musicali, con le conseguenti fazioni che si formano. Per i Litfiba, come per i CSI, ne ho sentite di tutti i colori. Eppure, io non ho mai avuto la sensazione di fare musica dark, semplicemente vivevamo la nostra epoca. E così, quando ci hanno invitato a fare una serata anni ’80, che tra l’altro non facciamo mai, stavolta abbiamo detto sì e di conseguenza rispolverato il pezzo più oscuro che avevamo. È partito tutto da lì, forse con un atteggiamento un po’ ironicamente polemico.

Aiazzi: Chiamiamola esigenza, anche se in realtà è uno stimolo che ti si accende e comincia a svilupparsi in momenti particolari. La velocità aiuta, andando di getto perché se ci pensi troppo non funziona. E così, in modo accelerato siamo corsi dietro a questa cosa che si stava creando. Siccome abbiamo orari opposti, Gianni va a letto alle 6 del mattino e io a quell’ora mi alzo, ci scambiavamo i file in quel breve lasso di tempo. Fare musica, comunque, per me è andare a cercare qualcosa, perché non ho mai apprezzato il rifare l’esistente, per cui siamo partiti da quelle atmosfere tardo dark per trovare delle novità che ci appagassero anche oggi.

L’avete accennato, è nato tutto dal tributo a un evento rituale e archetipico come la Mephistofesta. Non ci sono foto e video, ma un vostro ricordo particolare di quel momento?
Maroccolo: Anche all’epoca si macinava tutto a una velocità incredibile. Per il carnevale si pensò a questa festa e in un attimo si iniziò a buttare giù musica, mentre Piero aveva annunciato la costruzione di una bara che sarebbe arrivata sul palco portata da quattro persone. Pensavamo che stesse cazzeggiando, invece è stato pazzesco vederla arrivare nella penombra in mezzo al fumo. Su questa musica mortale è stato un momento davvero terrifico.

Aiazzi: Eh sì, essere sul palco era come stare tra il pubblico, come sensazione incredibile che abbiamo provato e ricordo ancora. E poi tutto era veloce, come dice Gianni, abbiamo composto i brani in dieci giorni. Credo giri ancora una registrazione di quella festa, anche se non ufficiale”.

Per Mephisto Ballad Giancarlo Cauteruccio, ha scritto e recitato versi tenebrosi ed esoterici, liberamente ispirati al Faust di Goethe: un vero e proprio coro demoniaco. Qual è il vostro rapporto con “il demone”?
Maroccolo: Io non ho dubbi di sentirlo, perché musicalmente parlando sono uno che non trova pace. Non riesco a fermarmi, a riflettere, a godere delle gratificazioni di quel che ho realizzato. Non sono capace di sfruttare l’onda, perché quando arrivo a una certa alchimia ne cerco subito un’altra. Da un lato ti limita la soddisfazione, ma dall’altro ti gratifica per i continui incontri, le esperienze e la conoscenza che aumentano. Per anni ho messo la musica davanti a tutto in modo totalizzante, anche ai rapporti affettivi, poi mi sono ridimensionato un attimo. Però questo demone è costantemente lì ed è bello che ci sia, sono altri quelli dai quali tenersi lontani.

Aiazzi: Il concetto di possessione è culturalmente sempre negativo, ma non si riesce a mettere a fuoco che possa esistere una possessione positiva. Io invece la sento, cioè quella che ti costringe a dover fare, a non poterti interrompere. Ed è molto positiva. Quasi una terapia, per me. Da anni non sono più un professionista della musica, ma sotto sotto la sento sempre, come un vulcano che se ti viene in mente qualcosa inizia ad eruttare. Quando mandavo cose a Gianni per questo disco ero in qualche modo posseduto. Le ho fatte io, mi chiedevo? Apparentemente sì. Questa è la possessione. O come quando, dopo sei anni senza toccare uno strumento, mi sono reso conto quello che covavo dentro. Così, ho accettato che, anche se la musica non è più nella mia vita ogni giorno, prima o poi torna a galla con forza e non la posso fermare.

Cosa rimane dei Litfiba nella musica italiana?
Maroccolo: I Litfiba non hanno uguali, ancora oggi, visto l’enorme potenziale anche all’estero. Se fai musica di genere questo non accade. Abbiamo creato una storia ineguagliata, con un affetto, una passione, una morbosità, un collezionismo esagerato che gli girano ancora intorno. Stilisticamente non vedo niente di simile. Quello che mi pare di captare è invece un approccio, cioè una costanza, una passione, una voglia, che hanno messo in moto dei meccanismi affinché progetti nuovi trovassero la loro dignità. Fondamentalmente, la musica che si ascoltava allora era un’altra, c’erano la crisi economica e il terrorismo, e noi nonostante tutto non ci siamo fermati di fronte a nessuna difficoltà. Oggi questo lo rivedo nella scena più attuale, dei ragazzi che si sono mossi in maniera affine, con coraggio, inventandosi un nuovo mercato, fottendosene delle major e solo dopo, a suon di visualizzazioni, si sono venduti al mercato e hanno fatto bene. Questo lo sento affine. Dall’altro lato, sento tantissimi che fanno cover band dei Litfiba e mi chiedo come mai, dopo aver fatto pratica con quelle canzoni, non partono a creare una loro storia.

Aiazzi: Sono d’accordo, perché queste indie-avanguardie hanno lavorato partendo dal basso, dai concerti più piccoli, affezionando un pubblico e capendo con chi li seguiva se quello che stavano facendo poteva avere un riscontro. Ai Litfiba si poteva dire di tutto, tranne che non abbiano lavorato. Facevamo ore e ore di cantina a suonare. Questo aspetto lo vedo nell’ultima generazione, che poi ha trovato in alcuni casi il successo.

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