Maynard James Keenan: «Sono anarchico come i No TAV» | Rolling Stone Italia
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Maynard James Keenan: «Sono anarchico come i No TAV»

Apocalittico, armato e inafferrabile. A colloquio con Maynard James Keenan, che torna dopo 14 anni con gli A Perfect Circle. E no, non abbiamo parlato dei Tool

Maynard James Keenan è nato nel 1964 in Ohio. Ha fondato Tool, Puscifer e A Perfect Circle. Foto: © JWhitaker

Maynard James Keenan è nato nel 1964 in Ohio. Ha fondato Tool, Puscifer e A Perfect Circle. Foto: © JWhitaker

“Bella Maynard, facciamoci un selfie mentre mi racconti del nuovo disco dei Tool”. Il cantante, senza dire una parola, mi scaraventa a terra con una mossa di jiu-jitsu – è cintura viola – e urla nel mio orecchio: “Il disco non è ancora pronto, ok? Ma ne ho fatto uno nuovo con i Perfect Circle! Vi dovete accontentare, cazzo!”. No, non è così che è iniziata la mia intervista a Keenan. Ma poteva succedere.

Londra, fine di febbraio. Gli elementi sembrano ostacolare il mio incontro con Maynard James Keenan, enigmatico e spiazzante leader di band di culto come Tool, A Perfect Circle e Puscifer: l’Inghilterra, investita da Burian, è un vortice di neve, gelo polare, disservizi e conseguenti scuse profuse attraverso gli speaker della metro. Il vostro inviato ha sbagliato clamorosamente la scelta dei tessuti, e così si presenta nel lussuoso hotel di Regent Street, dove si svolge l’intervista, con barba e cappotto di lana ricoperti da una glassa di neve ghiacciata. Una volta superata la resistenza dei portieri in livrea, vengo accolto in una suite ben riscaldata, con vista sui turbinii di neve che imbiancano downtown. E posso finalmente porgere a Keenan, che sfoggia occhiali con montatura nera e una t-shirt che mi sento di definire tamarra, la mia gelida manina.

Keenan, notoriamente poco avvicinabile, è in giro per promuovere il nuovo album degli A Perfect Circle, Eat the Elephant, uscito il 20 aprile. Anticipato dai singoli Disillusioned, The Doomed e TalkTalk, è il quarto della superband, i cui membri fissi sono Keenan e il chitarrista Billy Howerdel. Il primo disco da 14 anni, dopo la raccolta di cover eMOTIVe.



Ma torniamo indietro di qualche ora. La sera prima ho ricevuto un sms: l’etichetta mi avverte che ogni domanda riguardante il nuovo, attesissimo, posticipatissimo disco dei Tool, come ogni richiesta di fare foto con Keenan, metteranno immediatamente fine all’intervista. Così, mentre la mia mano insensibile per il freddo viene stritolata da quella di Keenan, la tentazione di esordire unendo i due tabù è forte. Ma sono venuto fin qui sfidando il Burian, e fare troppo affidamento sul noto, ma non collaudato senso dell’umorismo del cantante è un rischio che non posso correre.

Dunque esordisco, più sobriamente, con una domanda sulla title track: sembra che ci sia una seconda persona che canta, oltre a Keenan. La sua voce cambia a ogni strofa, come se duettasse con una parte più sensibile, più femminile di se stesso. L’interpellato mi guarda un po’ interdetto: «Mi sembra che voi europei abbiate prestato poca attenzione alla mia voce, fino ad ora». Ribatto che no, so bene che lui sperimenta sempre, ma qui l’effetto è davvero riuscito: «Non c’è niente che non abbia già fatto con i Puscifer. Ma è curioso che mi venga fatto notare solo adesso», spiega Keenan. Be’, almeno non sono l’unico ad averci fatto caso.

Il suono degli A Perfect Circle sembra più pulito e controllato in questo disco: come se l’evoluzione non sia stata solo produttiva, ma anche compositiva: «Non saprei dire esattamente cosa è cambiato, ma di sicuro siamo cambiati noi, io e Billy, come esseri umani. In meglio, si spera. Eat the Elephant assomiglia a quello che siamo oggi». «La delicatezza era presente anche nei primi dischi», continua, «ma era nascosta dal volume alto delle chitarre, dal sound anni ’90. Si perdeva nel rumore».

eMOTIVe era un album molto politicizzato, che utilizzava cover come Imagine o When the Levee Breaks per commentare la situazione americana del momento (il post 11/9). Eat the Elephant, invece, sembra più personale e introspettivo: «Con eMOTIVe il messaggio era nella scelta dei brani, e nel modo in cui sceglievo di cambiare completamente le melodie. Nel nuovo album ho scelto di mixare le mie esperienze alla mia attuale visione del mondo. Da questo punto di vista non è in alcun modo meno schierato di eMOTIVe».


Eat the Elephant è una riuscita somma di parti diverse tra loro: l’inizio è soft, con la già citata title track, una canzone di disarmante bellezza, solo piano, batteria e beats (e comunque ascoltate come cambia la voce di Keenan, e ditemi se sono pazzo). Poi una serie di pezzi più à la Perfect Circle, come Disillusioned, la potente TalkTalk e la cupa The Doomed. Ci sono bestie strane come The Contrarian («Mi rifiuto di spiegare a chi mi riferisco, non voglio rovinare l’immaginazione di nessuno»). So Long, and Thanks for All the Fish, omaggio alle tante stelle che se ne sono andate negli ultimi anni, da David Bowie a Carrie Fisher – un pezzo quasi radio-friendly, con attacco molto anni ’90 e titolo che cita la Guida galattica di Douglas Adams. E la splendida By and Down the River, dove la chitarra di Howerdel si muove in quel range di registri opposti che è il suo marchio di fabbrica. In generale sembra che in questo disco emerga come mai prima l’amore per i Cure di Pornography e Faith: «Per me non sono mai stati un’ispirazione, ma per Billy sì. Dovresti chiederlo a lui», suggerisce Keenan, laconico come al solito.

Prendo atto di una cosa che avevo sospettato: Keenan non è a suo agio nel parlare di ciò che crea (a meno che non si tratti della sua etichetta di vini, Caduceus), ma è più loquace quando spazia su argomenti più vasti. Ci spostiamo sulla citazione che campeggia in home page sul sito della sua azienda vinicola sulle colline di Jerome, in Arizona: “The more one pleases generally, the less one pleases profoundly” (da Stendhal, Dell’amore, 1822). Il sospetto è che Keenan applichi la raccomandazione a tutti gli aspetti della sua produzione artistica, e forse è il motivo dei lunghi tempi di lavorazione di ogni disco: «È semplice: non eravamo pronti. I primi tre album sono usciti nel giro di quattro anni. Ma ci vuole del tempo per trovare storie che abbiano un senso e un’urgenza. Per questo eMOTIVe raccontava storie di altri, attraverso delle cover».

Le lunghe pause tra un disco e l’altro potrebbero far pensare che Keenan sia un artista poco produttivo, ma in realtà è un uomo piuttosto indaffarato: «Sono un tizio casalingo e per lunghi periodi non mi dedico ad alcun progetto. Sono momenti di silenzio di cui ho bisogno. Ma, quando non penso alla musica, passo il tempo a produrre vino. C’è sempre qualcosa da fare: controllare le botti, le miscele, le annate. Il Nord dell’Arizona è perfetto da un punto di vista vinicolo per via dell’altitudine e dell’escursione termica: il sole è caldo, le notti gelide, a volte nevica, c’è nebbia, c’è molto vento. Il suolo assomiglia a quello del Piemonte, infatti produco molto Barbera e Nebbiolo. Il raccolto dura tre mesi, poi c’è la fermentazione, l’imbottigliamento: c’è sempre da fare».

Ecco un argomento che lo scalda molto di più: «Nell’800 quella era una zona molto coltivata, perché spesso gli impiegati e i dirigenti delle compagnie minerarie erano italiani e avevano piantato lì le loro vigne. Con il proibizionismo sono state sradicate, ma io e altri coltivatori le abbiamo reintrodotte in anni recenti. Possiedo ancora qualche vitigno originale».

Jerome, Arizona: non esattamente Los Angeles o New York, dove vivono il 90% delle rockstar americane. Keenan abita più vicino al cuore (o al ventre) dell’America, quello che ultimamente sembra dettare i titoli delle news, da Trump all’alt-right e all’NRA. «Dove vivo io c’è di tutto. Hippy, repubblicani, anarchici, cowboys. Le sessioni del consiglio comunale sono davvero divertenti. Ma è giusto confrontarsi con tutti, vivere fuori dalla bolla in cui tutti la pensano come te. Questo è possibile in una piccola comunità, lontana dai palazzi del potere. A scuola dovrebbero insegnare prima di tutto a non fidarsi del governo». Keenan guarda il suo iPhone: «La nostra civiltà è effimera, una sovrastruttura. Crediamo che la tecnologia ci renda migliori, ma basterebbe un’eruzione solare, come quelle dell’800, perché la nostra società crolli. È quello che mi tiene sveglio la notte: ho una figlia piccola, e so che tutto quello che abbiamo può sparire in fretta. Bisogna sapere come sterilizzare l’acqua, come costruirsi un rifugio, come difendersi, come procurarsi il cibo». Ancora una volta Keenan dimostra di essere “una perfetta unione di cose contrarie”, che è anche il titolo della sua autobiografia, uscita nel 2016: amichevole, ma spiazzante, delicato e brutale al tempo stesso, integrato e apocalittico: «Ho dei lontani parenti italiani, piemontesi. Sono un po’ matti, dei ribelli, fanno parte del movimento No Tav. Credo di averlo preso da loro, questo mio lato anarchico».

A proposito di autodifesa, immagino che in un luogo selvaggio come il Nord dell’Arizona le armi da fuoco siano piuttosto comuni: «Esatto. E anche io ne possiedo diverse. Non ho alcun problema a dirlo. Ma non sono pazzo e le tengo sotto chiave, quindi non sono un pericolo per nessuno. Come per molte altre cose, dietro alla diffusione incontrollata delle armi ci sono interessi economici: i produttori vogliono venderne sempre di più, e se ne sbattono di controlli e sicurezza».

Per capire chi è Keenan realmente, se mai è possibile, bisogna scavare più a fondo. Cercare gli snodi della cultura popolare che hanno formato il suo gusto: «Me ne vengono in mente due, e uno è avvenuto prima ancora che nascessi. Ero nella pancia di mia madre, quando JFK è stato ucciso a Dallas. Credo che lo shock che lei ha provato quel giorno, insieme all’intero Paese, sia passato anche a me, e mi abbia formato. Quando avevo circa 10 anni, poi, la mia famiglia – molto religiosa – decise di vedere insieme ad altri amici e ai loro figli il film L’esorcista». “E una volta capito che non era adatto ai bambini, non avete interrotto la visione?”, chiedo, incredulo. «Questa è la cosa assurda. Lo abbiamo visto fino in fondo. Non chiedermi perché. Ovviamente non ne siamo usciti bene».

Ridiamo, anche se è chiaro quali mostri possa generare un film del genere nell’immaginazione di un bambino. Finalmente Keenan si è sciolto. Ora si apre addirittura in un sorriso.

Mi viene in mente la prima volta che ho scoperto il suo lato gentile. Verso la fine degli anni ’90, durante un suo concerto a Milano, Tori Amos disse dal palco: “Questa canzone si chiama Muhammad My Friend. La canto spesso insieme al mio caro amico Maynard dei Tool. Quando mi sento una schifezza lo chiamo, e lui mi canta le ninne nanne al telefono”. Da più di vent’anni sospettavo che Maynard James Keenan, sotto sotto, fosse un tenerone. Oggi – armi, ju-jitsu e apocalissi cosmiche a parte – ne ho avuto la conferma.

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