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Mauro Ermanno Giovanardi: «Imparate dagli anni ’90, quando c’era meno omologazione»

Il cantante racconta che cosa distingueva la scena italiana di 25 anni fa e come ha organizzato il festival La Mia Generazione durante la pandemia. «Se il virus continuasse a circolare, per molti artisti sarebbe la fine»

Foto: Silva Rotelli

Ci sono voluti parecchi cambi di programma prima che Mauro Ermanno Giovanardi riuscisse a chiudere la terza edizione di La Mia Generazione, evento di cui l’ex La Crus è direttore artistico e che sabato 12 e domenica 13 settembre tornerà in scena ad Ancona. «L’ho dovuto rifare tipo sette volte», dice il cantautore monzese, classe 1962, che nonostante le norme anti-Covid ha messo insieme un bel cast, per un evento che per la prima volta si potrà vedere sia dal vivo, sia in diretta streaming su maxischermo e online, oltre che sui canali del network televisivo èTV. Attesi sul palco per dei veri e propri concerti Vinicio Capossela, Brunori Sas, Ghemon, Perturbazione e Lucio Corsi, laddove Motta, Cristiano Godano e Vasco Brondi saranno protagonisti di tre incontri arricchiti da qualche brano suonato in acustico. «È stato faticosissimo, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Però lo dico: se il coronavirus dovesse restare tra noi ancora a lungo, per gli artisti che della musica suonata non possono fare a meno sarà la fine».

Come? Iniziamo così?
Tieni conto che era quasi la fine di luglio quando sono finalmente riuscito a confermare tutto, e questo dopo aver pensato più volte di dover rinunciare. Per fortuna ho avuto dalla mia l’assessore alla cultura di Ancona Paolo Marasca, che ci teneva molto a riproporre il festival anche quest’anno. Per superare i limiti imposti dalla pandemia abbiamo deciso di allargare l’evento alla platea online e televisiva, ma non si può negare che quei limiti rendono tutto molto, ma molto complicato.

In questa situazione la multimedialità aiuta?
Aiuta a raggiungere il maggior numero di persone possibile nonostante tutto. Altrimenti non avrebbe avuto senso… Giusto per far capire la situazione ai non addetti ai lavori, il posto dove si terranno gli incontri con Motta, Godano e Brondi è contingentato al massimo a 50 persone, e il Teatro delle Muse fino a pochi giorni fa sembrava potesse ospitare solo 212 spettatori, poi per fortuna, grazie a un decreto regionale che ha modificato la modalità di distribuzione dei posti a sedere, siamo arrivati a 450, ma di solito la capienza è sui 1200. Poi c’è la corte della Mole, posto bellissimo, dove potremo accogliere circa 500 spettatori al posto dei 3000 degli anni passati. Per questo abbiamo deciso di aggiungere lo streaming, fatto, però, in maniera professionale.

Che cosa intendi?
Abbiamo investito una parte del budget per avere una decina di telecamere, una regia video, un audio di ottima qualità. Perché durante il lockdown vedere gli artisti suonare in pigiama, con dietro la libreria e con la connessione che ogni tanto andava, ogni tanto no, mi è sembrata una mortificazione della musica.

Foto: Silva Rotelli

Qual è lo spirito di un festival che s’intitola La Mia Generazione?
Non certo uno spirito nostalgico, non sono qua a dire che la mia generazione fosse migliore di quelle successive, semplicemente negli anni ’90 si è mossa con un approccio di un certo tipo, poi abbracciato anche da artisti venuti dopo. Quest’anno, in particolare, avremo sul palco Lucio Corsi e Motta, che culturalmente sono un po’ figli di quella stagione, visto che l’ultimo disco di Corsi è co-prodotto da Bianconi dei Baustelle e il primo di Motta da Riccardo Sinigallia.

Ti riferisci a una stagione, quella della musica indipendente italiana degli anni ’90, che ha generato band come i tuoi La Crus, i Casino Royale, i Subsonica, gli Afterhours, i Marlene Kuntz, i CSI. Il merito più grande?
Quello di aver scelto di cantare in italiano e non in inglese, ma mescolando in maniera personale influenze che arrivavano dalla scena alternativa internazionale, quindi partendo da riferimenti musicali che andavano dai Nirvana ai Portishead, da Nick Cave ai Massive Attack agli Einstürzende Neubaten. E anche quello di essere sempre stati dalla parte della musica vera, onesta, scritta, cantata e suonata senza escamotage, concepita com’era stata concepita la rivoluzione musicale degli anni ’60 o quella degli anni ’70 legata alla nascita del punk e della new wave. Ma non è che io pensi che quello fosse un modo migliore di fare musica, era solo diverso: innanzitutto si suonava, mentre oggi un rapper può farsi un disco solo con computer e software nella sua stanzetta, e inoltre ciò che guidava tutto era la scelta artistica: io voglio fare musica perché voglio essere diverso da te, quindi cercando una mia personalità e senza il timore di fare proposte ostiche; oggi c’è più omologazione e mi sembra che molti puntino più a diventare dei personaggi che dei bravi musicisti.

Qualcosa salvi del panorama attuale?
Come no, non ascolto solo dischi degli anni ’90, per esempio mi piace molto l’ultimo album di Salmo, non mi dispiace Giorgieness e considero brava Margherita Vicario, mi sembra una tosta, interessante. Mi spiace che quest’anno non avremo donne sul palco, ce l’ho messa tutta per avere la cosiddetta quota rosa, e ci tenevo. A metà gennaio avevo invitato Carmen Consoli, Levante, Violante Placido e La Rappresentante di Lista, ma purtroppo è successo che poi, per un motivo o per l’altro, hanno dato forfait.

Hai aderito alle iniziative di La Musica Che Gira, rete di artisti, imprenditori e professionisti della musica e dello spettacolo che richiede una riforma del settore che vi offra tutele.
Più che a noi artisti, a tutta la filiera di figure professionali che ci permette di fare il nostro lavoro. Lavoro che purtroppo in Italia non viene considerato come tale, un po’ perché si pensa che se fai il musicista sei ricco, sei un privilegiato che può passare la vita dedicandosi a un hobby; un po’ perché la musica pop in senso lato non è ritenuta cultura, e secondo me questa è ignoranza. Ne consegue la mancanza di tutele che in Paesi come la Francia ci sono: da noi se c’è gente che ancora fa musica per vivere bypassando la canzonetta estiva è solo perché si fa un mazzo grande così.

Tu hai pensato a qualche proposta da portare avanti?
Guarda, io l’unica cosa a cui ho pensato è un piano B (ride). Purtroppo oltre al musicista so fare poco. Cucino bene, ma non è che i ristoratori se la passino bene in questo momento.

Forse se la passano meglio gli chef a domicilio…
E pensare che più o meno tra il ’99 e il 2000 Carlo Albertoli, con me e altri tra i fondatori della Vox Pop (etichetta che negli anni 90 lanciò band quali Africa Unite, Ritmo Tribale, Afterhours e gli stessi La Crus, nda), si era trasferito in Inghilterra e proponeva cene a domicilio. Aveva un buon giro, lo chiamavano, lui arrivava, si metteva ai fornelli e una volta finito di cucinare, mentre la gente mangiava, faceva un dj set di due o tre ore.

Non pensi che anche voi artisti abbiate qualche responsabilità rispetto alla mancanza di tutele che oggi pesa sul settore? Vasco Brondi in un’intervista mi ha detto che forse, spinti dalla passione, siete andati avanti un po’ tutti a mo’ di “pirati che in ogni caso si arrangiano”, sintetizzando.
Ha ragione, un po’ è anche colpa nostra, è mancata la lungimiranza e forse siamo stati un po’ egoisti.

Quest’estate hai tenuto alcuni concerti acustici in trio con il chitarrista Marco Carusino e la violinista Jessica Testa: come li hai vissuti?
Me li sono goduti tantissimo. Credo che per gli spettatori i concerti come si stanno facendo adesso, con il distanziamento, possano diventare un’esperienza più intima, senza la folla diventa più facile immergersi nella propria bolla. Ma vale solo per un certo tipo di set acustico o magari di musica un po’ d’atmosfera. Per tutto il resto perché un concerto sia un concerto serve il sudore.

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