Maurizio Solieri: «Quando ho ascoltato Slash dal vivo mi sono annoiato» | Rolling Stone Italia
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Maurizio Solieri: «Quando ho ascoltato Slash dal vivo mi sono annoiato»

Ci sono chitarristi che puntano sui virtuosismi e altri che si mettono al servizio delle canzoni. Solieri fa parte di quest'ultima categoria. Qui rievoca l’epopea che ha cambiato il rock italiano, il suo rapporto con Vasco, la sua vita da rocker con i piedi per terra

Maurizio Solieri: «Quando ho ascoltato Slash dal vivo mi sono annoiato»

Maurizio Solieri

Foto: Roberto Villani

«Quando cominciai la mia avventura musicale e organizzai il primo gruppo fu lui che con la straordinaria bravura, la sua tecnica e i suoi volumi altissimi, mi aiutò subito a chiarire al mondo che era nato il nuovo rock italiano».

Parola di Vasco Rossi. Amen. Quel “lui” è Maurizio Solieri, che il Blasco lo conosce ormai da oltre 45 anni (era il 1976), e con la sua chitarra ha contribuito a costruire l’immaginario musicale apprezzato da milioni di persone e da più generazioni componendo brani come Canzone, Dormi, dormi, C’è chi dice no, Lo show, oppure arricchendoli con assoli indimenticabili come in Albachiara o Liberi liberi, e la lista sarebbe ancora lunga.

Lo abbiamo incontrato perché è da poco stata ristampata la sua autobiografia scritta insieme a Massimo Poggini e ampliata di nuovi capitoli: Questa sera rock‘n’roll. La mia vita tra un assolo e un sogno (Volo Libero). E sembra proprio che la sua esistenza sia perfettamente sintetizzabile in quel titolo, visto che Solieri a 69 anni è uno che, nonostante il successo, mantiene sempre i piedi ben saldi a terra riuscendo, quindi, a concentrarsi soprattutto sulla musica.

Da una chitarra regala dalla madre, una Eko pagata 8000 lire, a scalare le classifiche e a riempire gli stadi è stato un attimo. Un attimo lungo 30 anni, una epopea partita da Zocca, che ci ha raccontato in presa diretta.

Chi è oggi Maurizio Solieri?
Credo di essere più o meno sempre lo stesso. Chiaramente cresciuto, con esperienza, dopo una vita artistica molto soddisfacente. Ma nonostante i tanti anni passati ho grande voglia di fare musica, mi sento ancora molto fresco.

Racconta la leggenda che tutto cominciò con una chitarra Eko regalata dalla mamma.
Allora ero solo un bambino che vedeva i giornali con i primi gruppi, Equipe 84, Nomadi e poi i Beatles. La chitarra era il sogno di chi amava quel genere musicale. Mia madre me la regalò e sembrava una meraviglia, anche se non era certo uno strumento di grande pregio.

Faccio un balzo in avanti seguendo la tua autobiografia: l’incontro con Vasco Rossi a Punto Radio.
Quella è stata una delle prime radio private italiane, fondata da un gruppo di ragazzi di Zocca capitanati di Vasco. Ci entrai grazie a Sergio Silvestri, che è ancora un mio amico oggi. Era il 1976. Stavo facendo il servizio militare a Napoli e lui mi disse: «Ho incontrato questo mio amico di collegio, Vasco Rossi, e mi ha invitato a entrare nello staff». Lui era un esperto di musica. Morale: ci siamo visti nell’inverno dello stesso anno. Nella radio c’erano tre cantautori, denominati “puntautori”, che erano Sergio Silvestri, Vasco Rossi e Riccardo Bellei. Io li accompagnavo quando dovevano andare a Milano per dei provini.

Un bel viaggio da Zocca a Milano nel 1976.
Ci fu qualche primo timido interesse di una casa discografica, mi chiamarono e andammo in treno a Milano. Sembrava di andare a New York. Noi provinciali in quello studio di registrazione con i fonici vestiti in camice bianco. E lì ho conosciuto meglio Vasco.

Hai raccontato che Vasco a Punto Radio era già il capo.
Era il trascinatore della radio. Come succede nei giornali facevamo le riunioni di redazione e si parlava di tutto, anche di quelli che erano i programmi da realizzare. Lui era più che un capo quello che dava i consigli e le indicazioni alla fine della discussione per dare la carica a tutti.

Da allora tra voi è nato un sodalizio che ha portato alla nascita di una bella sfilza di canzoni di successo e che ormai sono scolpite nell’immaginario collettivo. Ma come lavoravate insieme?
Canzone, per esempio, è un brano uscito praticamente uguale a quando lo avevo registrato in studio. Lo avevo fatto strumentale, poi lo portai a Vasco che mi chiese cosa me lo avesse ispirato, e io gli risposi: «Una storia d’amore con una ragazza che mi ha lasciato». E Vasco con grande feeling, intelligenza e fantasia scrisse il testo in italiano che andava a incastrarsi con la melodia del brano. I miei pezzi erano dei demo cantanti in finto inglese e poi lui ci scriveva il testo. Li realizzavo in cantina con il tastierista Mimmo Camporeale, insieme a me nella Steve Rogers Band , poi arrivava Vasco che entusiasta ci metteva del suo. Per scrivere una bella canzone devi avere tanti ascolti dei grandi songwriter.

Con Vasco Rossi e la Steve Rogers Band, 1983. Foto: Angelo Deligio/Mondadori via Getty Images

Quali sono stati i tuoi primi ascolti?
I Beatles, Paul McCartney, Elton John, Queen, Aerosmith. Tutta gente che già di base scriveva belle canzoni. E per essere bella deve nascere voce e chitarra o voce e piano, poi arrivano gli arrangiamenti. Ci sono musicisti che puntano su una tecnica esagerata, io ho sempre preferito scrivere belle canzoni o assoli che, spesso, erano la prosecuzione della melodia del brano.

Immagino sia importante anche aver vissuto intensamente.
Non solo, anche l’ascolto di un nuovo disco che ti dava l’incipit. Sono importanti i sentimenti e trasferirli in musica. Delle volte arriva il riff e per non dimenticarlo lo registri, ma non è detto che un pezzo venga fatto in cinque minuti o in una giornata, magari servono alcuni mesi. L’importante è che piaccia a me che sono l’autore della musica, se piace a me quasi sempre piace anche agli altri.

Hai detto che ascoltando Slash dal vivo ti sei un po’ annoiato.
Sì, al concerto che vidi qualche anno fa. Non solo io, anche tanta altra gente si è annoiata. Mi piace moltissimo e lo stimo, ma i grandi solisti come Slash, Joe Satriani, Steve Vai, sono super virtuosi ed è difficile suonare tanto ed essere sempre freschi rispetto al pubblico. Slash preferisco quando fa i suoi soli con i Guns N’ Roses o con Ozzy Osbourne, l’importante è il gusto nella melodia che vai a usare nel solo di chitarra. Io non me la sono mai menata per 20 minuti con degli assoli.

Hai cercato una forma più espressiva.
Mi sento più vicino a Jeff Beck o a Eric Clapton che a Joe Bonamassa. Il virtuosismo fine a se stesso non mi interessa, ma solo suonare quello che serve nell’ambito della canzone.

Come racconti nell’autobiografia, la tua vita è stata bella rock‘n’roll. Le donne sembravano un chiodo fisso per i rocker della vostra generazione, come ci ha spiegato anche il tuo amico Ricky Portera.
Come capita a tutti quelli che fanno un lavoro artistico e che hanno successo. Ancora di più perché al seguito di un grande artista come Vasco. Ma succedevano anche quando non eravamo nessuno, le ragazze sono sempre state interessate ai musicisti. Ma il tutto con grande allegria. Ricky ha vissuto situazioni più carnali e difficili dal punto di vista umano, però ci siamo sempre divertiti molto. Le belle donne andavano di pari passo con le belle cene e le buone bottiglie di vino.

E il tutto ha comportato lo sperpero di denaro. Hai ricordato che in un mese spendevate tutto.
Non c’era niente di folle per noi in quel periodo, ci sembrava normale. Venivamo da delle situazioni nelle quali per sbarcare il lunario davamo una mano nelle radio o facevamo qualche piccola serata musicale. Il primo anno con Vasco, ‘79-80, guadagnavamo 25 mila lire a testa. Con il grande successo di Bollicine il budget è aumentato, per cui eravamo in giro per tutta Italia, in grandi hotel e ristoranti di lusso e facevamo i rocker in tournée e spendevamo più di quello che potevamo permetterci. Dopo il tour estivo a novembre eravamo già in bolletta.

Con Vasco nell’arco di 45 anni vi siete lasciati e ripresi almeno tre volte. Come mai?
Tra persone che si conoscono da così tanto tempo non sempre tutto può andare bene. La prima volta siamo stati noi della Steve Rogers ad abbandonarlo, lui si è incazzato moltissimo e se l’è legata al dito. Anche perché Guido Elmi, che era anche il suo produttore, aveva litigato con Vasco e quando venne da noi un po’ ci impietosì. E così malvolentieri lo lasciammo. Però la nostra carriera come band stava andando molto bene, il pezzo Alzati la gonna era primo in classifica e, anche se ci dispiaceva lasciarlo, abbiamo voluto provare a inseguire un nostro successo. Poi altre volte, spesso e volentieri, è stata dettata dalla voglia di cambiare, aggiungere suoni nuovi. Ma non mi sono mai arrabbiato facendo il diavolo a quattro. Credo che una persona a un certo punto è giusto che cambi.

L’ultima volta è ricordata da molti soprattutto per quel post su Facebook di Vasco in cui ti attacca direttamente. Una sorta di licenziamento pubblico.
Sì, anche se poi lo ammise di aver travisato. Fu colpa dei giornalisti perché cercano di fare gossip. Quando lo lasciammo uscì sul Resto del Carlino il titolo: “Il Vasco si è rotto”. Sono spesso e volentieri i titolisti che cercano di rendere l’articolo più appetibile e poi creano dei disagi. Io non avevo fatto assolutamente nulla. La gente ancora me lo chiede com’è il mio rapporto con Vasco perché in pratica nella mentalità del pubblico è rimasta quell’immagine di famiglia musical-amichevole formata da Vasco, Massimo Riva, da me, Guido Elmi, Maurizio Lolli. Quindi la gente crede che le cose debbano essere per forza sempre quelle, solo che tutti noi siamo cambiati. Io sono contento per il successo di Vasco e che abbia smesso di fare la vita spericolata. Io continuo a fare le mie cose, sono felice di me stesso, anche perché sono sempre stato una persona con i piedi per terra. Non ho mai avuto la Ferrari o la villa con piscina. Mi piace suonare, ho scritto delle canzoni che dal punto di vista della Siae portano buoni proventi e sto bene così.

Un consiglio che daresti oggi a Vasco?
Dare dei consigli a una persona di 70 anni è difficile, sa benissimo cosa deve fare. I primi tempi, di certo, eravamo alla ricerca più della gratificazione artistica che dei soldi, per cui eravamo molto amici. Vivevamo nello stesso appartamento, c’era più sintonia. Con il grande successo, lui era la star e quindi il feeling è diventato più forte con gli altri della band. Di consigli non ne ha bisogno, il suo successo anno dopo anno continua a crescere, anche perché fa degli spettacoli di altissimo livello e con grandi professionisti. I momenti che ricordo con più affetto sono quelli di quando gli portavo i miei pezzi e si sprigionava il suo entusiasmo nel sentirli. Lui si esaltava e si metteva subito a scrivere i testi su un quadernetto.

Ora nei live fa numeri da capogiro con spettacoli mastodontici. Ma un Vasco in acustico, magari in qualche club, non ti piacerebbe risentirlo e, magari, riaccompagnarlo alla chitarra?
È molto difficile. È troppo abituato a suonare in contesti enormi. E poi ha un pubblico così vasto… Però affettivamente all’estero le fanno queste cose, come Paul McCartney o anche i Rolling Stones che uniscono nella stessa città uno spettacolo in un teatro e uno in uno stadio. Oppure vanno a suonare nei piccoli club sotto falso nome. Anni fa io avrei sognato di farlo, e glielo consigliava anche Guido Elmi, cioè di tornare a fare qualche bel teatro con l’orchestra classica. Ma lui vuole continuare a fare i concerti rock negli stadi ed è contento così.

Forse un giorno arriverà un disco unplugged, non sarebbe male…
Sarebbe molto bello, anche per cambiare un po’ il suo sound. La vedo dura, però mai dire mai.

Foto press

A proposito di sound, alla fine del tuo libro hai fatto un elenco dei chitarristi che ti piacciono.
Massimo Poggini mi ha chiesto di scrivere un centinaio di chitarristi che apprezzo con di fianco un pensiero. Ne avrò omessi tanti, ma io non ho una sola chitarra o un solo artista preferito, ce ne sono tanti perché ci sono tanti generi e gusti. Questi li ho scritti al volo, in poche parole, quello che mi veniva in mente. Per cui trovate tutti lì i miei riferimenti.

Quali sono i tuoi assoli a cui sei più affezionato?
Quelli più famosi, su Albachiara, Lo show, Ridere di te, Liberi liberi o Ogni volta.

E se fossi costretto a sceglierne uno solo?
Per il fatto che è breve ma in una manciata di secondi dice molto, quello de Lo show.

E quello che ruberesti a un altro chitarrista?
Che fatica sceglierne uno solo. C’è quello di Eric Clapton in Sunshine of Your Love, oppure di Jimi Hendrix in Little Wing, bellissimo anche quello di Mark Knopfler con i Dire Straits in Money for Nothing.

Stai seguendo la nuova epopea rock dei Måneskin?
Certo, e sono contento per loro. È una band di ventenni, ma si vede che vengono da buone famiglie, non si parla inglese così speditamente da un giorno all’altro. Però hanno dato uno stimolo a tanti. Leggere su Billboard, dove sono arrivati al primo posto, che i giornalisti statunitensi hanno scritto che grazie a loro nelle radio americane ora si sentono più chitarre non mi sembra male, no? Che poi non è proprio così, perché nelle radio americane si sono sempre sentite, è in Italia che non si sentono più.

Come te lo spieghi?
Perché è tutto dominato da un pop e un rap imperanti, ma spesso fatti malamente, che non non prevedono l’uso di chitarre e assoli. La nuova musica italiana a me non piace e forse può piacere a un pubblico di giovanissimi perché non hanno sentito altro.

Hai ancora un sogno nel cassetto?
Riuscire a fare un bel tour nei teatri con i miei pezzi e la mia band. Sia proponendo brani dei miei dischi solo, di Vasco, della Steve Rogers Band e qualche classico del rock, da Jimi Hendrix ai Led Zeppelin. Lo faccio ogni tanto, vorrei qualcosa di più continuativo. Io ci provo, di certo non mollo.

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