Maurizio Carucci: «La mia esistenza fuori luogo, il disco che mi ha curato» | Rolling Stone Italia
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Maurizio Carucci: «La mia esistenza fuori luogo, il disco che mi ha curato»

Intervista al cantautore-agricoltore: l'album 'Respiro', la vita nella «nella provincia delle province», la pandemia sull'Appennino, le scelte di vita difficili ma necessarie. «Ho il conto in rosso, sono sereno»

Maurizio Carucci: «La mia esistenza fuori luogo, il disco che mi ha curato»

Maurizio Carucci

Foto: Martina Panarese

Maurizio Carucci è il cantautore agricoltore che si è fatto conoscere tanto per il suo ruolo di frontman degli Ex-Otago quanto per la passione per l’Appennino che l’ha portato a dare il via al progetto di una comunità diffusa nella Val Borbera. C’è chi l’ha visto per la prima volta sul palco dei festival di musica indipendente e chi tra i monti a una degustazione dei vini che lui stesso produce a partire dai vigneti della sua Cascina Barbàn spesso a partire da varietà di uve antiche come la valle dove ha trovato casa. O meglio, si è costruito casa, a partire da un vecchio fienile e mettendo insieme la ventina di proprietari dei terreni frammentati che grazie a lui, alla sua compagna Martina Panarese e alla famiglia con la quale condividono la cura della terra e delle attività agricole sono tornati a produrre cereali, ortaggi e uva. Carucci passa con agilità dal Corochinato alla zappa, dalla città alla campagna, e dopo il falso allarme di un imminente addio alle scene musicali – il cantante aveva pubblicato un post sui social piuttosto criptico che era stato male interpretato da molti – ha pubblicato oggi il suo disco solista Respiro.

Sono passati circa due anni dall’ultima volta che ti abbiamo intervistato. Cos’è cambiato, se qualcosa è cambiato, a Cascina Barbàn e in Val Borbera?
Siamo tutti più soli, più spaesati. E in una valle che è fatta di paesi sentirsi spaesati non è proprio il massimo. È una condizione che penso sia comune a tutti ma in provincia, in Appennino, è forse un po’ più dolorosa perché essendoci meno occasioni di incontro e di relazione questa solitudine diventa più pesante. Quindi quello che sto vedendo, ho visto e ho patito sulla mia pelle è questa solitudine tutt’altro che voluta, questo isolamento passivo. Io abito in un eremo fondamentalmente, ma la mia è una scelta attiva. Amo le città e le frequento, io un’ora sono a Genova, in un’ora e 20 sono a Milano. Trovo nella città anche la linfa per fare un sacco di cose. La critico, senza dubbio, l’ho anche un po’ abbandonata non vivendoci più ormai da vent’anni, ma credo sia un luogo comunque magico. Siamo più stanchi, desiderosi di primavera, sia in senso stagionale ma anche di relazioni, di incontri, di arte. Dopotutto se agli esseri umani togli questa roba qui non rimane molto, sparisce una parte molto grande del nostro stare dentro questo mondo.

In tutto questo io ho avuto la fortuna di mettermi a scrivere un disco, che mi ha curato, che è stato una medicina. Tengo però a precisare che la fortuna e la possibilità che ho di vivere come vivo, in montagna, è qualcosa che mi sudo ogni giorno. Perché a volte si ha una visione un po’ distorta della mia condizione, mi pensano come la popstar che trascorre le sue giornate in un bel posto con il sigaro a suonare il pianoforte. Non è così, io sono un agricoltore che si fa un gran culo, che ha le mani rotte e che fa anche musica. Vivo la campagna in questo modo, ci tengo a dirlo. Da artigiano.

Ti capita di sentirti fuori posto? Nelle terre dell’Appennino, che non è il tuo luogo d’origine, o nelle città, nelle metropoli, in mezzo alle folle?
Sì, anche questo è un discorso complesso. Sono domande che richiederebbero un bicchiere di vino. Mi sono sentito fuori luogo perché comunque la mia è un’esistenza fuori luogo. Spesso non vengo capito. Non perché io faccia chissà cosa, in fondo conduco una vita semplice, molto rurale, ma effettivamente questo dialogo con la città e con il mainstream, con la musica, spesso la gente non lo capisce. Quindi mi vivo anche questa frustrazione permanente, soprattutto in questo momento storico. Negli ultimi due anni ho perso un po’ di fiducia ma sto bene attento a non diventare un disilluso. Non voglio arrivare come molti signorotti che a 50 anni iniziano a dire «ma lascia perdere che va tutto a puttane». Ecco, sto evitando come la peste di trasformarmi in una persona così.

Sì, ma come?
Sto studiando meditazione, vado nei monti o al mare proprio per scongiurare questa possibilità. Però effettivamente negli ultimi due anni qualcosa è cambiato. Mi sento una persona un po’ diversa, né peggiore né migliore. Ho visto un po’ di cose, tutte una dietro l’altra, che mi hanno fatto perdere fiducia nel sistema. Non che ne avessi mai avuta troppa, ma in quest’ultimo periodo l’ho proprio smarrita. Cerco di non perdermi, perché comunque amo dare un contributo dall’interno. Non voglio passare da snob, da intellettuale che se ne sta sui monti e pontifica ma devo obbligatoriamente costruirmi un sentiero che vada un po’ ai margini perché se no non ci sto proprio dentro.

Respiro verrà presentato a Milano e poi a Genova. Tra l’estate e l’autunno ci sarà un tour in diverse città, quasi tutte grandi. Hai per caso preso in considerazione la possibilità di presentare l’album anche fuori dai grandi centri urbani, considerando il tuo progetto e le tue scelte di vita?
Assolutamente, il tour che abbiamo annunciato è in continuo aggiornamento. Ci sono già date che non possiamo annunciare che sono in provincia. Io sono uno di provincia, sono nato in un quartiere popolare di Genova, ai margini del centro, quindi in qualche modo fuori città e abito nella provincia delle province, che si chiama Appennino. Infatti suonerò anche qui ma non l’ho ancora annunciato.

Com’è stato lavorare a un disco solista, che per te è il primo, rispetto agli album pensati e incisi insieme agli Ex-Otago?
È stato molto faticoso, un’opera enorme, mai provato niente di simile prima. Oltretutto io sono masochista quindi oltre a fare le musiche e i testi, ho fatto anche le grafiche e le fotografie. Ma è stato anche estremamente gratificante. Soprattutto mi ha permesso di capire chi sono, cosa so fare in questo momento della mia vita, che non era proprio scontato che io riuscissi a capirlo. A volte la solitudine aiuta proprio a comprendere effettivamente di che pasta siamo fatti, il nostro colore, i nostri odori. È per questo che l’ho fatto, fondamentalmente. Gli Otaghi li amo, figurati, ma come in ogni relazione d’amore – perché poi di questo si parla – a volte bisogna anche trovare il modo per continuare a stare insieme sempre con grande felicità e a volte il modo è stare lontani ed è quello che è successo. Non abbiamo mai pensato di scioglierci però sicuramente dopo tutto questo cammino insieme abbiamo sentito la necessità, sia io che Francesco (Bacci, chitarrista degli Ex-Otago, ndr), di provare a sperimentarci come individui, come soli nel mondo.

Tu passi dal Corochinato, che è un aperitivo tipico di Genova ma è anche un album degli Ex-Otago, alla vita da contadino e produttore di vino. Che cosa sono, per te, la convivialità e la condivisione? Pensi che esistano forme di condivisione più virtuose, più significative di altre?
Non so se esista un significato esatto di convivialità, ognuno la può interpretare a suo modo. Sicuramente il vino è un liquido che ha a che fare anche con la magia, se pensi alle fermentazioni che avvengono quasi senza che le persone lo vogliano. Sicuramente aggrega, unisce. Aiuta ad accorciare le distanze e di questo ce n’è bisogno più che mai in questo momento storico, tra pandemia e mascherine. La diffidenza è alle stelle e ci vediamo su Zoom, porca puttana, come stiamo facendo ora noi due. È una roba che mi pesa moltissimo. Ecco quindi che una bottiglia di vino, che poi non è altro che la storia di qualcuno che ha fatto delle cose, che ha sudato, può aiutare a stare insieme, ad avvicinarsi, ad ascoltare. Io il vino lo vedo così, non come un liquido che deve sapere di ribes o di altre seghe da sommelier. È un’occasione in più per avvicinarsi alle persone e frequentarsi.

Con l’esperienza della pandemia e l’affermarsi dello smart working più persone hanno preso concretamente in considerazione una scelta di vita come la tua. Ma se da un lato sarebbe auspicabile che la gente tornasse nei borghi e nelle campagne, dall’altro se questo accadesse davvero come fenomeno di massa non si correrebbero dei rischi? Popolare borghi e campagne non significa necessariamente farlo con accortezza e responsabilità.
Su questo si potrebbe discutere per giorni ma effettivamente è abbastanza chiave. Lo smart working penso che sia una possibilità interessante ma mi piacerebbe che chi venisse qui a farlo abitasse veramente il territorio. Non abbiamo bisogno di dormitori o di gente che viene e non la vedi mai agli alimentari, al bar o che non dà un contributo alla comunità. Questo è un rischio molto concreto. Però è anche vero che c’è chi lo fa con più accortezza. Magari si fa anche l’orto o magari una parte di giornata la tiene libera per curare il giardino o è in relazione con la comunità, frequenta le persone del posto. Questo auspicherei. Per quanto riguarda, invece, una migrazione più sostanziosa verso le campagne questa è una sciagura, per quanto mi riguarda, perché gli esseri umani, arroganti come sono, piallano tutto, dove arrivano fanno tabula rasa e invece la campagna, la montagna, deve rimanere questa. Non è giusto che la città si allarghi e arrivi fino a qui.

Anche perché la montagna ha le sue regole, no?
Sì, non si possono avere quattro macchine o allargare le strade perché bisogna passarci. Non è sostenibile. Se vuoi venire qui devi sposare le regole elementari di questi luoghi, che vuol dire sobrietà, fondamentalmente. Prima di tutto sobrietà. Cosa che non è che si trovi con grande facilità in città. Evviva un ritorno alla campagna, dunque, che io stesso testimonio, purché sia un ritorno dolce. Anche noi, come Cascina Barbàn, abbiamo sempre lavorato perché la gente tornasse, anche amici, però in un modo compatibile e sostenibile per il luogo in cui si va.

Foto: Martina Panarese

Tanto la tua musica quanto quella degli Ex-Otago sembra spesso ricondurre a suoni essenziali, a un approccio minimale. Che non mi sembra poi così diverso dall’idea di farsi la legna da sé, farsi il pane, costruirsi la propria tettoia, come fate voi in cascina. C’è un nesso secondo te?
Certo. Non è che uno viene a vivere qui e ha una certa visione per calcolo o per desiderio. Lo fa anche perché lo desidera, ma soprattutto perché ha una visione del mondo di un certo modo. Per me la sobrietà, la frugalità, sono due virtù meravigliose, è proprio una chiave di lettura del mondo che mi ispira. Mi vesto con abiti usati. Poi sgarro, ma l’80% di roba la compro o al mercato o in negozi vintage. Cerco di farlo il più possibile, a volte con azioni molto concrete e molto radicali a volte meno. Ma sai noi viviamo in un’epoca delle contraddizioni. Anche il nostro vino è un buon esempio perché purtroppo lo esportiamo in tutto il mondo. Dico purtroppo perché con questo aspetto non ci ho ancora bene fatto i conti. Non mi vanto che il mio vino viaggi, che alimenti un sistema dannoso per il pianeta, ma non ho ancora trovato un sistema alternativo. Se io volessi diventare davvero coerente dovrei staccare i ponti con tutto. Ma non voglio arrivare a questo punto.

E quindi?
Cerco di essere coerente, consapevole di vivere in un periodo in cui è impossibile esserlo. Questo però non mi deve scoraggiare a non condurre una vita più ecologica possibile, che è quello che faccio ormai da vent’anni. Mi coltivo il grano perché mi piace il pane buono ma anche perché contribuisco a una narrazione. Non inquino, cerco di mangiare meno carne possibile e quando la mangio la prendo da amici che allevano loro le vacche. Mi faccio io la legna, non alimento sistemi di gas di cui conosciamo bene gli esiti e le dinamiche. Ci provo.

In Sto bene, uno dei brani di Respiro, canti “Ho il conto in rosso, sono sereno”. Spesso vengono tremendamente sottovalutate le difficoltà economiche di intere fasce di umanità e di interi settori, dove trovare una stabilità economica è complesso. Tra i tanti, la musica, ma in parte anche il mondo dei piccoli e medi agricoltori. E già che ci sono aggiungo anche il giornalismo. Come rendere sostenibile, dal tuo punto di vista, un sogno? Perché qualsiasi sogno che si rispetti deve permettere, in primo luogo, di avere un posto dove dormire, dei pasti caldi e la possibilità di curarsi quando ci si ammala.
Domanda da un milione di dollari. Io ho passato momenti di grande povertà. Anzi, no, di grande povertà no, per rispetto verso i poveri di tutto il mondo non posso dirlo. Però di grande ristrettezza economica sì. Per esempio dal 2010 al 2016, quando con gli Ex-Otago più che prendere soldi dovevo metterli io, e quando ho comprato questa borgata insieme alla mia compagna con un mutuo di Banca Etica di 50 mila euro e venivo a lavorare qui senza un tetto, mangiavo sotto un albero a zero gradi. Non c’era niente, né strada né luce. Ho passato momenti molto difficili dal punto di vista economico. Poi per fortuna c’erano altri aspetti che mi davano grandi soddisfazioni. Non ho una ricetta, ho sempre creduto follemente a qualche visione, fin troppo. Certe volte mi do fastidio perché appaio ai miei occhi un convintone, anche se cerco sempre di non esserlo. Forse anche questo approccio però mi ha aiutato. Non che io ora sia economicamente abbiente, perché sono pieno di debiti e non guadagno chissà quanti soldi, però in qualche modo le cose almeno funzionano. Indipendentemente da tutto, da dove si proviene e dalla propria famiglia, bisogna avere la fede secondo me.

Ho capito bene?
No, non la fede in qualche religione, la fede in quello che si vuole. Perché senza di quella non si fa veramente un centimetro. Con quella puoi passare veramente momenti di grande difficoltà, in qualche modo aiuta ad andare avanti. E trovarla non è una cosa semplice. Molti hanno tantissime fedi e non ci credono davvero. Forse è anche un po’ la società che ti porta a pensare che alla fine la cosa migliore da fare sia mettere da parte tutto questo e cercarsi un posto fisso. Io ho cercato di svincolarmi da questo modo di stare al mondo, quello di lavorare una vita per arrivare alla pensione. Tutte queste cose ho cercato di lasciarmele un po’ alle spalle e in qualche modo ce l’ho fatta. Ho avuto fortuna, senza dubbio, sono una persona in salute e questo mi ha aiutato. Però ho avuto anche coraggio e sicuramente mi sono fatto un culo incredibile. E me lo farò ancora.

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