Matt Berninger e l’arte di combattere l’ansia con l’ansia | Rolling Stone Italia
Musica soft per tempi difficili

Matt Berninger e l’arte di combattere l’ansia con l’ansia

Dietro all’aspetto da prof di scrittura creativa c’è uno che riesce a mettere in musica insicurezze e contorcimenti esistenziali. Intervista: ‘Get Sunk’, i National, la depressione, le maschere che indossiamo

Matt Berninger e l’arte di combattere l’ansia con l’ansia

Matt Berninger

Foto: Chantal Anderson

«Beh, non si può piacere a tutti. Per esempio io credo di non piacere a un sacco di gente, che però quando mi vede si spertica in complimenti. “Oh Matt, i tuoi testi, il tuo modo di scrivere, non sai quanto significano per me”, ma sotto sotto si capisce che mi odiano. E no, non sono affatto paranoico (ride). Per cui va benissimo, figurati: anzi, ti sono grato per l’onestà».

Risponde così Matt Berninger all’ammissione preliminare di chi scrive di non essere mai stato un fan dei National. Non la più vincente delle captatio benevolentiae, in effetti. Non so quanto mitigata dall’aver espresso invece un apprezzamento (sincero, mica solo per portare a casa l’intervista) per il nuovo disco solista del loro cantante. Get Sunk arriva a cinque anni dal precedente Serpentine Prison, un lustro in cui a Matt – e in parte anche a noi – è successo di tutto: pandemie, blocco dello scrittore, depressione (vinta, a quanto pare), due dischi nello stesso anno (il 2023) con i National, tour, collaborazioni, un trasferimento con la famiglia dalla California al Connecticut, il mondo che va in malora. Insomma, di materiale a cui ispirarsi ce n’era, soprattutto per uno che ha l’abitudine di «riempire taccuini su taccuini, metterli in un cassetto, riaprirli e non capire più perché mi ero appuntato quelle note, salvo poi trovare una riga che mi accende la scintilla per una canzone».

È simpatico, Berninger. Comunicativo, affabile, scrupoloso nello spiegarsi e nel raccontarsi. Nonostante il perenne look da cinquantenne professore universitario di scrittura creativa, di quelli liberal che si fanno le canne con gli studenti e vanno con loro ai concerti indie rock, quando parla appare subito come la negazione del pregiudizio che ho coltivato per anni su di lui, legato alla percezione di un gruppo che ho sempre immaginato come la band preferita del New Yorker e di quegli hipster il cui ricordo è rimasto fortunatamente sepolto da qualche parte negli anni ’10. Stupidaggini. Se i National hanno il seguito fedele che hanno è perché evidentemente hanno saputo toccare certe corde dell’emotività contemporanea, o almeno di quella di un pubblico che unisce la coda della generazione X e i millennial che nelle insicurezze e nei contorcimenti esistenziali e sentimentali di Berninger hanno trovato in parte uno specchio, in parte un vocabolario per decifrare le proprie e i propri, di insicurezze e contorcimenti.

Get Sunk, scritto per due terzi insieme al produttore Sean O’Brien, non si discosta poi tanto dallo stile della band di cui Matt è il frontman da un quarto di secolo. Tessiture, beat, chitarre, layer, riverberi: tutto molto simile. Di particolare c’è l’intreccio della voce di Matt con quella femminile di Meg Duffy, e una rotondità più accentuata delle melodie, evidente per esempio in ballate di ottima fattura come Silver Jeep. In alcuni brani il baritono immerso in suggestioni wave ricorda un altro Matt, cioè il Johnson più noto come The The, in altri (Frozen Oranges) il riferimento pare più Jeff Tweedy. Ma il giochino dei rimandi è utile fino a un certo punto con uno che del songwriting ha sempre fatto una questione molto personale. Get Sunk non solo non fa eccezione, da questo punto di vista, ma è in un certo senso è l’apoteosi di questo approccio.

Raccontami un po’ del processo creativo che ha portato a questo tuo nuovo disco. Un percorso non semplicissimo, a quanto si legge nel comunicato stampa.
Sì, è stato bello tortuoso. In sostanza si tratta di due blocchi di canzoni, messe assieme nell’arco di quasi cinque anni. Quattro le avevo scritte poco dopo l’uscita di Serpentine Prison. Ero pronto per andare in tour a supporto dell’album, poi è arrivato il Covid e addio. Per non rimanere con le mani in mano ho radunato un po’ di gente nella cantina della mia casa di Los Angeles e abbiamo registrato quei pezzi, che avrebbero dovuto far parte di un altro disco a cui avevo appunto dato il titolo provvisorio di Get Sunk. Poi siccome le cose non vanno mai come hai pianificato, è iniziato un periodo tremendo che ha bloccato il progetto. Sono entrato in depressione, per quasi un anno non sono riuscito a scrivere una parola. Dopo di che è ripartita la giostra con i National, con i nuovi dischi e i tour – cosa che peraltro mi ha salvato – e solo dopo un po’ di tempo ho cominciato a scrivere altre canzoni con Sean O’Brien. Che sono le altre sei sul disco. Il titolo avrebbe dovuto essere It’s Saturday, poi però ho tirato fuori dal cassetto i brani del 2020, li ho riascoltati con una prospettiva diversa dopo tutto quel tempo, e ho capito che insieme a quelli nuovi funzionavano. C’era una certa coerenza tematica. E Get Sunk alla fine era il titolo più giusto. Il disco si apre e si chiude proprio con due delle canzoni che ho scritto durante il lockdown.

Times Of Difficulty

Una di queste, Times of Difficulty, è quella che contiene la frase che fa da titolo all’album. A un certo punto canti “in times of heartache get drunk, in times of tears get sunk”. Ci spieghi il senso? Significa che si deve toccare il fondo per ritrovare l’energia per risalire?
Quella canzone l’ho scritta prima di “affondare”, anche se ero già a buon punto in quel senso. Non so, forse era un avvertimento a me stesso. Oppure una esortazione a farlo. Il fatto è che quando siamo nella merda e non sappiamo da che parte iniziare a tirarcene fuori, sopraffatti da quello che ci accade, la cosa migliore è rallentare tutto, lasciarsi andare. E provare a guardarsi dal di fuori. Come quando sei in acque alte e senti di stare andando giù. Dibattersi peggiora solo la situazione. Calmati, invece. Slow down. Respira. Abbandonarsi alla corrente non vuol dire necessariamente affogare, forse invece può portarti dove l’acqua è più bassa.

Tra l’altro la canzone mi ricorda vagamente, dal punto di vista melodico, Straight to You di Nick Cave…
Ah, non ci avevo pensato sinceramente. Può darsi, sì. Sono uno che spesso lascia campo libero alle sue influenze consce o, come credo in questo caso, inconsce.

I tempi difficili sono anche quelli che stiamo vivendo collettivamente. Da artista senti la responsabilità di fare qualcosa, che sia per prendere posizione o semplicemente per alleviare le ansie di chi ascolta?
Ci penso tutto il tempo, forse più adesso rispetto a quando ero giovane. Mi chiedo: vuoi usare le tue canzoni come una piattaforma per dire quello che pensi su come va il mondo? La risposta, e perdonami per la banalità ma è così, è che a volte può essere giusto e altre volte no. Leggo, seguo quello che accade, sono cose che non si possono ignorare. Come tutti provo rabbia e frustrazione, sentimenti che possono anche essere di ispirazione. Ma vanno canalizzati, lavorati con cura. Urlare slogan non serve a niente, se non a darti una valvola di sfogo momentanea. In diverse delle mie canzoni ci sono già tanta oscurità e tanto malessere, mi chiedo se sia il caso di aggiungerne ancora. Poi mi dico che in fondo anche quando parli di amore e inviti a essere onesto, trasparente, coraggioso, in fondo stai mandando un messaggio politico.

Una delle canzoni di Get Sunk che mi hanno colpito di più, dal punto di vista del testo, è Breaking into Acting. Magari ho interpretato male frasi come “fin da piccolo sai piangere a comando, tutti dicono sia un dono, puoi usarlo quando ti fa comodo”, ma mi viene il sospetto che l’argomento sia la sindrome dell’impostore. A parte questo, davvero hai pensato di darti alla recitazione?
Sì, il tema è quello. La finzione, il mettere su una maschera e poi ritrovarsi con il dubbio: sono davvero io quel personaggio di cui parlano? Niente di originale come idea, sia chiaro. Nella vita recitiamo tutti a soggetto, in ogni momento. Quasi sempre è uno scudo protettivo. In questo momento sto recitando la parte della “rockstar” (fa il gesto delle virgolette, nda) intervistata, tu quella del giornalista, entrambi sappiamo che c’è un copione da rispettare. Quando spegneremo Zoom entreremo in un altro ruolo, e così via. L’importante è non giudicare chi lo fa, perché appunto nessuno di noi ne è immune. Quanto a fare l’attore… beh sì, ci ho pensato per circa dieci minuti. Sempre durante il lockdown, un po’ per fare qualcosa un po’ per vedere se c’era la possibilità di tirare su dei soldi non potendo suonare, ho mandato dei video con dei miei provini alla produzione di un film. Non sono granché come attore, ma ci ho provato. Stranamente, la parte poi è andata a Adam Driver (ride, nda).

Matt Berninger - Breaking Into Acting ft. Hand Habits (Official Music Video)

Una mia collega giornalista, grande estimatrice dei National, ha scritto che come band avete sempre combattuto l’ansia con l’arma più efficace: l’ansia. Mi sembra una considerazione azzeccata, che ne pensi?
Molto giusta come considerazione. In effetti è quello il motore che ci manda avanti. C’è anche una forma di ansia positiva, quella di spiegare se stessi e allo stesso tempo di capire gli altri. Che poi è quello che dovrebbe fare l’arte. Mi viene in mente una cosa che ho visto su Instagram qualche giorno fa. Instagram può essere un buco nero ma ogni tanto ci trovi delle illuminazioni. Insomma, ho trovato un vecchio video di Carl Sagan in cui racconta l’evoluzione della vita sulla Terra, e dice questa frase che mi ha colpito: «L’umanità è molecole di carbonio che spiegano le molecole di carbonio ad altre molecole di carbonio». Gli esseri umani di base sono un pugno di atomi che interagiscono con altri atomi. Ci siamo evoluti fino a creare l’arte o lo sport, che in fondo sono tentativi di spiegarci la vita, oltre che modi per non ammazzarci a vicenda. Lavori collettivi, come la Bibbia. Inventiamo in continuazione metafore per spiegare a noi stessi e agli altri perché siamo qui, perché siamo da soli, e così via.

Dopo tutti questi anni, quando scrivi senti più l’esigenza di andare incontro alle aspettative di chi vi segue da sempre o ogni tanto pensi a cosa potrebbe attrarre un pubblico diverso, magari più giovane?
Ci penso, ma non più di tanto. Quando ho finito di registrare una canzone mi chiedo che impatto può avere su chi ascolta, ma alla fine non è così determinante. L’unica persona che cerco di compiacere è me stesso. È sempre stato così. Non ho mai scritto nulla che non fosse rivolto in primo luogo a me.

Giro un po’ la domanda, allora. C’è qualche canzone che oggi ti penti di aver scritto?
No, assolutamente. Poi, chiaro, ce ne sono alcune che oggi risultano più problematiche e difficili da cantare. La prima che mi viene in mente è Available. Nel testo esprimo un sentimento grossolano e crudele che provavo in quel momento. O che provava il Matt Berninger con la maschera dello scrittore-di-canzoni-per-i-National. È un pezzo estremamente cattivo, ma è anche una grande canzone. Cantarla oggi può essere complicato, perché non sono più così arrabbiato, così frustrato. Ma forse non lo ero neanche quando l’ho scritta, e il punto è proprio questo. Le canzoni sono il luogo sicuro in cui se vuoi puoi mettere in scena la versione peggiore di te. E quindi no, non recrimino su nessuna di quelle che ho scritto.

L’ultima domanda ha che fare con la tua vita prima della musica. Mi ha sempre incuriosito il fatto che tu avessi intrapreso una carriera da pubblicitario. Eri un copywriter o un art director? Quell’esperienza professionale nell’advertising ti è stata utile da musicista?
Ero un graphic designer, mi occupavo della parte visual delle campagne. Anche se a volte ho scritto dei claim per clienti tipo Mastercard. La mia prima band l’avevo messa su con gente che avevo conosciuto alla scuola di grafica, quella parte della mia vita ha contato molto. Per il design delle copertine dei dischi ho sempre lasciato fare ad altri e non ci ho mai messo il naso, ma in effetti nello scrivere i testi e nel dare forma alle canzoni quell’approccio visivo tipico del pubblicitario mi è stato utile. Un po’ come se dovessi produrre un layout per una presentazione al cliente (ride).

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